L’Accordo tra la Svizzera e l’Italia del 1964, nonostante tutte le critiche che gli si possono muovere per i suoi limiti e carenze, ha avuto certamente anche alcuni meriti non di poco conto. Mi riferisco in particolare alla tematizzazione dei problemi migratori per la prima volta su scala nazionale in entrambi i Paesi e alla spinta data in Svizzera al cambiamento della politica migratoria, caratterizzato dall'abbandono graduale del principio della rotazione della manodopera estera e dall'avvio di politiche di stabilizzazione e integrazione dei lavoratori stranieri e delle loro famiglie.
Italia: emigrazione problema nazionale
Attorno all'Accordo si sviluppò per la prima volta in Italia
un ampio dibattito, non solo nelle aule parlamentari ma anche nell'opinione
pubblica, sulle reali condizioni dell’emigrazione italiana in Svizzera e sul
livello di tutela che la riguardava. Sebbene il risultato faticosamente
raggiunto fosse considerato dagli ambienti politici e sindacali italiani in
generale soddisfacente, benché non corrispondesse alle «rivendicazioni»
italiane iniziali, il Partito comunista italiano (PCI) era riuscito a insinuare
il dubbio che l’Accordo non comportasse
che miglioramenti «limitati» alle condizioni dei lavoratori italiani e contenesse persino «clausole
che avrebbero potuto trasformarlo in una trappola». Come esempio veniva citata
la clausola relativa alla possibilità del ricongiungimento familiare dopo 18
mesi, «sempreché disponga di un alloggio adeguato per ospitarla». Chi avrebbe
deciso se un alloggio era adeguato o no, soprattutto in un contesto di grande
penuria di abitazioni?
Già da alcuni anni raggiungevano ormai il grande pubblico
molte notizie riguardanti lo spopolamento giovanile di intere regioni del
Mezzogiorno dovuto all'emigrazione, le attività svolte dagli emigrati in
Svizzera (e negli altri Paesi di destinazione), le loro reali condizioni di
vita e di lavoro. Alcuni episodi in particolare riuscivano a intercettare
l’attenzione anche dei meno interessati, come quando vennero espulsi dalla
Svizzera alcuni attivisti politici e ad alcuni parlamentari comunisti fu
vietato l’ingresso per timore che svolgessero propaganda politica illegale.
Ma fu proprio durante il negoziato e subito dopo che in
Italia si cominciò a prendere coscienza che l’emigrazione soprattutto dal
Mezzogiorno era divenuta un problema nazionale a cui occorreva porre rimedio. A
livello politico si faceva sempre più duro lo scontro tra l’opposizione
comunista che chiedeva la piena occupazione in patria e i partiti di governo
che si rendevano conto dell’impossibilità di fare a meno dell’emigrazione (e
delle rimesse degli emigrati). Il governo si sentiva impegnato a migliorare
quantomeno le condizioni spesso miserevoli degli emigrati, ma si rendeva anche
conto che spesso, come nel negoziato con la Svizzera, si trovava in una
posizione svantaggiosa.
Reazioni nei confronti della Svizzera
L’eco dei dibattiti parlamentare sull'emigrazione non faceva
che confermare negli italiani le informazioni sempre più frequenti di parenti o
conoscenti emigrati e della stampa quotidiana e periodica, che riferivano in
termini per lo più negativi delle reali condizioni di vita degli emigrati in
Svizzera. Si parlava apertamente di discriminazioni, di sfruttamento, di
condizioni abitative indecenti nelle baracche, persino di maltrattamenti, ma
anche del disagio di molti emigrati per lo stato di abbandono da parte delle
rappresentanze diplomatiche e consolari italiane. Ai racconti di singoli
emigrati o di loro associazioni si aggiungevano sempre più spesso notizie sulla
diffusione di movimenti antistranieri, sulle misure sempre più restrittive del
governo, sull’ostilità crescente della popolazione indigena, ecc.
Migranti italiani in attesa della visita medica alla frontiera svizzera |
Un episodio (febbraio 1965) che finì sui principali
rotocalchi della Penisola e riferito anche dalla televisione fu l’interdizione
a proseguire il loro viaggio in Svizzera per molti lavoratori italiani,
sprovvisti della necessaria autorizzazione della polizia degli stranieri da
poco richiesta oltre ai normali documenti personali. Vennero pubblicati servizi
fotografici commoventi di emigranti disperati, mamme e bambini infreddoliti,
senza alcuna assistenza alle stazioni di Chiasso e Domodossola.
In molti gridarono allo scandalo, tutti cominciavano a
rendersi conto della dura realtà dell’emigrazione, fin quando lo stesso anno,
nell’agosto 1965, la tragedia di Mattmark in cui morirono 88 lavoratori
fra cui 56 emigrati italiani, sepolti dalla caduta di un ghiacciaio, non lasciò
più alcuno indifferente. Da allora si moltiplicarono le iniziative politiche,
sindacali, delle organizzazioni degli stessi emigrati nel tentativo di
apportare qualche miglioramento effettivo alle condizioni di lavoro e di vita
(sociale, familiare, abitativa, formativa, culturale, ecc.) degli immigrati in
Svizzera. Ma la situazione era destinata, purtroppo, a migliorare solo
lentamente.
Svizzera: fine della politica di rotazione
In seguito a molte critiche e suggerimenti che giungevano da
svariati ambienti (economici, sindacali, culturali), nella prima metà degli
anni Sessanta le autorità federali svizzere avviarono una lunga riflessione
sulla politica migratoria praticata fino a quel momento, incentrata sul
cosiddetto «principio di rotazione». Non si trattava di un principio
codificato, ma di una pratica ormai consolidata da decenni, secondo cui l’immigrazione
in Svizzera era e doveva essere preferibilmente temporanea (possibilmente
stagionale): per evitare la stabilizzazione di un numero eccessivo di stranieri
(per paura dell’«inforestierimento»), per rispondere meglio alle fluttuazioni
della congiuntura economica (come massa di manovra) e perché meno costosa (meno
abitazioni, meno servizi alle famiglie, meno oneri di formazione per i figli,
ecc.).
Questa politica cominciò ad andare in crisi nella prima metà
degli anni Sessanta, come risultava dalla tendenza crescente degli immigrati a
restare in Svizzera sempre più a lungo e addirittura alla loro stabilizzazione
come residenti annuali e come domiciliati. In soli cinque anni, tra il 1960
e il 1965 gli stranieri residenti stabilmente erano passati da 584.739 a 837.100 (+252.361)
e gli italiani da 346.223 a
454.657 (+108.434). La trasformazione dell’emigrazione è ancor più evidente
osservando il rapporto stagionali-residenti. Se nel 1960 tale rapporto era di 24 a 76 (per gli italiani: 37 a 63), nel 1970 diventerà
di 16 a
84 (per gli italiani: 17 a
83).
Avvio di una nuova politica immigratoria
La tendenza, che appariva irreversibile, richiedeva un
cambiamento nella politica immigratoria e comunque l’abbandono del principio
della rotazione. Uno dei segnali più attesi di questo cambiamento doveva
consistere nell'allentamento significativo delle restrizioni al
ricongiungimento familiare.
Di fronte a molteplici pressioni interne ed esterne, il
Consiglio federale aveva già introdotto nel dicembre del 1960 alcune
agevolazioni per alcune categorie di immigrati: per esempio, i dirigenti e gli
specialisti altamente qualificati potevano farsi raggiungere subito dalla
famiglia, mentre per i lavoratori qualificati era richiesto un periodo di
attesa inferiore a tre anni e almeno tre anni per tutti gli altri.
Nel corso del difficile negoziato per l’Accordo del 1964
l’Italia cercò di eliminare per tutti il periodo di attesa, ma dovette
accettare il compromesso di una sua riduzione a 18 mesi. Era comunque un primo
passo importante, anche se insufficiente, verso una nuova politica
immigratoria, che si sarebbe affermata più chiaramente negli anni Settanta e
Ottanta, ma che già verso la metà degli anni Sessanta si delineava in maniera
irreversibile.
La seconda generazione e il cambiamento
Per avere un’idea delle esigenze di cambiamento nella
politica verso gli stranieri basti ancora osservare che nel 1970 i giovani della
seconda generazione avevano già raggiunto una proporzione molto consistente.
Limitatamente agli italiani (che comunque costituivano allora la parte
largamente maggioritaria della popolazione straniera in Svizzera), al
censimento del 1970 risultava che su 583.850 italiani residenti oltre 180.000
(quasi un terzo) avevano un’età inferiore a 20 anni e nella stragrande
maggioranza (oltre 150.000) erano ancora in età scolastica o prescolastica.
Alcuni studi recenti sull'immigrazione soprattutto di quella
italiana sottolineano a ragione la mancanza di coraggio e di lungimiranza del
Consiglio federale in questo campo, ma non bisogna dimenticare la complessità
istituzionale, politica e culturale di questo Paese (che rallenta il processo
legislativo) e il particolare rapporto tra politica ed economia, caratterizzato
generalmente da una subordinazione della politica all'economia, come è emerso
chiaramente nel negoziato con l’Italia e anche nell'abbandono del principio
della rotazione della manodopera estera.
La seconda generazione per l’economia rappresentava allora soprattutto un costo, non una risorsa. Il principio della rotazione,
invece, cominciava ad essere un problema. A decretarne la fine fu pertanto
soprattutto la convenienza economica. In base agli standard dell’economia
proiettata allo sviluppo, non era più conveniente ricorrere continuamente a
nuovo personale, magari lasciando a casa un personale già formato e più
integrato nella cultura dell’azienda. Inoltre occorreva stare attenti alla
concorrenza tedesca che a partire dagli anni Sessanta reclutava lavoratori
italiani, offrendo loro in certi campi migliori condizioni.
Nel prossimo articolo si parlerà del ruolo delle
associazioni italiane nel processo di cambiamento e della problematica relativa
ai ricongiungimenti familiari in seguito all'Accordo italo-svizzero del 1964. (Continua)
Giovanni Longu
Berna, 12.11.2014
Berna, 12.11.2014
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