Le condizioni di vita iniziali della prima generazione di immigrati degli anni Sessanta e Settanta devono essere state generalmente dure da sopportare. Sono rare le testimonianze di italiani giunti in Svizzera in quegli anni, che si sono sentiti fin dal primo giorno accettati, rispettati e stimati sia nel posto di lavoro che nella vita sociale: sono eccezioni che confermano la regola. Ben più numerose sono infatti le testimonianze scritte e orali di coloro che hanno dovuto sopravvivere per mesi e persino anni in situazioni di estremo disagio, soprattutto psicologico. Eppure, in una sorta di retrospettiva, mi sembra incontestabile che proprio col loro modo di vivere e di pensare gli immigrati italiani della prima generazione hanno contribuito a trasformare positivamente la società svizzera.
Anzitutto le sofferenze
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Scritte come queste aprirono ferite profonde in molti immigrati |
Non c’è dubbio che l’ondata di immigrati
meridionali degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso ha trovato nella Svizzera
una terra ostile alla realizzazione dei loro sogni. Gli ostacoli da superare
per il dispiegamento di una vita normale erano soprattutto il senso di rifiuto
dello straniero da parte di ampi strati della popolazione svizzera, la pratica
di una politica immigratoria finalizzata allo sviluppo dell’economia,
condizioni di lavoro vicine allo sfruttamento, la tristezza di una vita lontana
dagli affetti familiari e tutta una serie di privazioni materiali e morali.
Altri ostacoli se li portavano appresso gli stessi immigrati, che giungevano in
massa in questo Paese senza conoscerne la storia, la geografia, la lingua, la
cultura, le regole di vita, le usanze, senza un adeguato bagaglio culturale,
senza una specifica preparazione professionale e senza una vera assistenza sul
posto.
A prescindere dalle responsabilità dirette e
indirette (pur essendo innegabili e gravi soprattutto quelle della classe
politica italiana e svizzera e dei sindacati), le sofferenze morali più che
fisiche di moltissimi immigrati sono un fatto certo.
La prima generazione, soprattutto quella degli
anni ’60 e ’70, è quella che ha maggiormente sofferto da una parte dello
sradicamento culturale e dall’altra dell’isolamento, della solitudine, della frustrazione
e persino della malattia nelle sue forme tipiche della depressione, dell’abbandono
e della mania di persecuzione. Del resto, la distanza tra le condizioni
economiche e socioculturali del Mezzogiorno d’Italia del dopoguerra e la nuova
società di accoglienza, economicamente, socialmente e culturalmente
completamente diversa, non poteva che essere traumatizzante.
Una testimonianza emblematica
Trovo emblematica, fra le innumerevoli che si
potrebbero citare, la testimonianza di una immigrata veneta giunta in Svizzera
agli inizi degli anni ’60:
«Libertà! Certo anche la libertà ha il suo
prezzo. Le giornate a lavorare passano veloci. Imparavo in fretta e bene, però
le serate erano lunghe, lunghissime. Chiusa nella pure bella cameretta, con
naturalmente l’ordine di non fare entrare estranei, mi divertivo a riordinare,
a pulire e lavare a mano nel lavandino le mie cosette. Loro [i padroni di casa]
avevano 4 figlie ma non mi hanno mai integrato al contrario in poche parole non
mi volevano, cosicché ero sempre sola. […] Il più brutto da sopportare era il
silenzio, e avevo nostalgia di casa mia. La mia fantasia viaggiava sempre a
Vicenza, le serata passate in famiglia con degli alti e bassi, ma sempre tanto
rumorose. Ora ero lì, senza famiglia, senza amici e non conoscevo nessuno. I
miei colleghi e colleghe di lavoro erano tutti sposati o fidanzati e alla sera
come pure alla domenica avevano le loro occupazioni. Io non avevo nessuno.[…].
Finalmente in fabbrica assunsero una giovane ragazza di nome Orietta, era più giovane di tre anni. Era molto carina e anche tanto comunicativa. Abbiamo fatto presto amicizia […]. Abitava a un chilometro da casa mia e tutte le sere facevamo la strada a piedi e si rientrava assieme raccontandoci la nostra vita. Finalmente un’amica! Tutti i sabati e le domeniche pomeriggio si andava fuori assieme, a bere un caffè a Neuchâtel nei posti che all’epoca erano frequentati da quasi soli italiani. Ci si trovava fra noi, gli svizzeri in quel periodo ci evitavano, eravamo solo mano d’opera niente altro. Avevamo i nostri locali. Quando si cercava sia una camera o un appartamento in tutti i giornali locali scrivevano: “Appartamento libero, Italiani esclusi!”. Era una sofferenza fisica e morale. Non si capiva, eravamo buoni solo per il lavoro ma per il resto non eravamo accettati. […].Poveri italiani, eravamo sfruttati e moralmente maltrattati. Gli anni 60-70 per noi tutti è stato un calvario».
Finalmente in fabbrica assunsero una giovane ragazza di nome Orietta, era più giovane di tre anni. Era molto carina e anche tanto comunicativa. Abbiamo fatto presto amicizia […]. Abitava a un chilometro da casa mia e tutte le sere facevamo la strada a piedi e si rientrava assieme raccontandoci la nostra vita. Finalmente un’amica! Tutti i sabati e le domeniche pomeriggio si andava fuori assieme, a bere un caffè a Neuchâtel nei posti che all’epoca erano frequentati da quasi soli italiani. Ci si trovava fra noi, gli svizzeri in quel periodo ci evitavano, eravamo solo mano d’opera niente altro. Avevamo i nostri locali. Quando si cercava sia una camera o un appartamento in tutti i giornali locali scrivevano: “Appartamento libero, Italiani esclusi!”. Era una sofferenza fisica e morale. Non si capiva, eravamo buoni solo per il lavoro ma per il resto non eravamo accettati. […].Poveri italiani, eravamo sfruttati e moralmente maltrattati. Gli anni 60-70 per noi tutti è stato un calvario».
Se non proprio per tutti, certamente quel
periodo è stato caratterizzato per molti, soprattutto donne, da grandi
privazioni e sofferenze, che solo col tempo si sono attenuate, senza però
scomparire del tutto dalla memoria. «Come siamo riusciti a resistere a tanti
disagi e umiliazioni non lo capirò mai», dice un emigrato calabrese nel romanzo
di Saverio Strati «Noi Lazzaroni» (1972).
L’espressione di quell’immigrato calabrese,
che evoca in primo luogo la condizione migratoria penosa di tanti immigrati,
afferma anche una bella verità, perché lascia intendere che gran parte di
quelle sofferenze sono state comunque superate. Sta di fatto che, in base alle
testimonianze disponibili, la maggioranza delle persone che hanno vissuto quel
periodo difficile, sia che risiedano ancora in Svizzera, sia che siano
rientrate, non ha rimpianti. Il bilancio è dunque positivo e a confermarlo,
come si vedrà appresso, sono soprattutto gli stessi svizzeri.
Il contributo dell’associazionismo
Quanti non hanno conosciuto da vicino
esperienze migratorie del tipo appena evocato si chiederanno legittimamente
come abbiano fatto centinaia di migliaia di immigrati a superare le difficoltà
dovute alla loro condizione migratoria. La risposta non può essere univoca
perché ciascun immigrato e ciascuna immigrata ha trovato la propria soluzione.
C’è però una risposta che vale certamente per molti, se non per tutti: attraverso
l’associazionismo.
Senza voler disquisire in questo contesto
della storia, delle finalità, delle caratteristiche, dei meriti ed
eventualmente dei demeriti anche solo delle principali associazioni italiane in
questo Paese, qualunque storia dell’immigrazione italiana in Svizzera non può trascurare
questo capitolo fondamentale. Ricordo solo che soprattutto negli anni Sessanta
e Settanta si sono sviluppate all’interno delle grandi comunità italiane innumerevoli
associazioni, vecchie e nuove a carattere ricreativo, sportivo, religioso, politico
e culturale.
Il fatto che fossero molte e variegate sta a
dimostrare che i bisogni erano tanti e diffusi, ma soprattutto che era grande
tra gli immigrati italiani il bisogno di superare il disagio dell’isolamento,
dell’incomunicabilità, dell’impotenza, della percezione di sentimenti ostili
tra la popolazione svizzera e dell’inadeguatezza delle istituzioni ufficiali italiane
a risolvere i loro problemi.
Nelle associazioni si sviluppò una sorta di
sentimento di appartenenza a una comunità, si sviluppò il dialogo, l’orgoglio
di appartenere a una classe sociale non parassitaria ma contribuente e
determinante, ancorché priva dei diritti politici. L’associazione era anche il
luogo dei dibattiti, dell’apertura al mondo, dell’ascolto e dell’incontro di
figure prestigiose della politica, del sindacalismo, del giornalismo,
dell’arte. Alcune associazioni ospitarono ambasciatori, ministri, capi di
Stato, vescovi, scrittori, premi Nobel.
Senza le associazioni, oggi la collettività
italiana presente in Svizzera sarebbe certamente diversa. L’associazionismo ha
infatti rappresentato, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del secolo
scorso, molto di più di quel che può rappresentare oggi qualunque forma di
organizzazione professionale o del tempo libero. L’associazione costituiva per
moltissimi italiani l’ambiente vitale in cui si poteva «respirare»
l’aria nostrana, si potevano «mangiare» prodotti italiani, si poteva «parlare»
la nostra lingua, si potevano stringere amicizie, in cui si poteva essere sé
stessi.
Le feste e la «dolce vita»
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Una delle femifestazioni più seguite in Svizzera e in Italia era il Festivale della canzone ditaliana di Zurigo (1957-1967) |
A distanza ormai di decenni, anche molti
svizzeri si rendono conto delle ingiustificate sofferenze procurate agli
italiani, ma anche del prezioso contributo d’italianità ch’essi hanno dato all’intera
società e che la settimana scorsa un grande quotidiano zurighese ha
sintetizzato in due parole: «dolce vita». Del resto, chi ha la
possibilità di confrontare gli stili di vita di oggi e di 40-50 anni fa non può
non ammettere che gli italiani hanno introdotto in questo Paese non solo la
pizza, l’espresso, il cappuccino e la cucina mediterranea, ma nuovi modi di
pensare, sperare e sognare, un tipo socialità un po’ chiassosa ma sincera prima
quasi inesistente, il passeggio domenicale sfoggiando i vestiti della festa, il
bel canto, la passione per le belle auto, la volontà di non arrendersi mai, l’ottimismo,
la certezza, più che la speranza, che dopo ogni tempesta torna il sereno, come
dice la canzone napoletana ‘O sole mio (n'aria serena doppo na tempesta!) e il sole torna a risplendere (che
bella cosa na jurnata ‘e sole) perché ogni giorno «’o sole mio /
sta’nfronte a te».
Giovanni Longu
Berna, 15.11.2017
Berna, 15.11.2017