14 novembre 2012

Italianità del Ticino e della Svizzera: 6. Contributo italiano all’italianità del Ticino

Dopo le «Rivendicazioni ticinesi» del 1924, reiterate anche negli anni seguenti, la Confederazione si rese certamente conto delle particolari esigenze economiche e culturali del Cantone Ticino, ma anche dell’impossibilità di risolvere a Berna i problemi ticinesi, soprattutto in campo economico. Nel sistema federalistico svizzero, la Confederazione interviene solo in base al principio di sussidiarietà. Spettava dunque al Cantone fare i primi passi, ma il Ticino si muoveva ancora lentamente, per mancanza di risorse ma anche d’iniziative valide.Ci vollero parecchi decenni prima che il Ticino potesse avvicinarsi agli standard degli altri Cantoni e della Lombardia. In questo sforzo di avvicinamento il contributo italiano fu notevole non solo come forza lavoro, ma anche come imprenditori e finanziatori di opere

Immigrati e imprenditori italiani
La manodopera italiana divenne una componente indispensabile dell’economia ticinese fin dall'inizio dei lavori della ferrovia del San Gottardo (1872). Nel 1908 il quotidiano del partito conservatore ticinese Popolo e Libertà cominciò a preoccuparsi non tanto per la forte presenza dei «forestieri» italiani («ogni quattro abitanti vi è un suddito di Vittorio Emanuele»), quanto per il loro tasso di crescita, perché «la popolazione indigena, in 12 anni, è scemata di 2287 anime, mentre i forestieri sono aumentati di 12.174!». Intanto gli italiani erano divenuti indispensabili.
Questi forestieri costituivano infatti, nel 1911, quasi la metà degli operai di fabbrica perché, giova ricordarlo, molti ticinesi preferivano ancora, come nell'Ottocento, l’emigrazione al lavoro in fabbrica, sebbene le destinazioni non fossero più la Lombardia o le Americhe, ma la Svizzera interna dove le condizioni di lavoro e di salario erano migliori. E ad emigrare non erano solo muratori, artigiani ed operai, ma anche imprenditori in cerca di mercati più favorevoli. Sicché, almeno fino agli anni Trenta del secolo scorso, il Ticino non aveva personalità imprenditoriali capaci di rilanciare l’economia del Cantone.
L'apporto italiano (soprattutto lombardo) all'economia ticinese non fu solo di manodopera, ma anche di imprenditoria e finanziario. Già nel 1847 esuli politici lombardi avevano dato vita, insieme ad alcuni ticinesi, alla «Fabbrica di tabacchi in Brissago». Un altro esempio d’imprenditoria lombarda in territorio ticinese fu la fabbrica di linoleum di Giubiasco, avviata nel 1905 da una società milanese. Persino nell’attività tipicamente ticinese dell’estrazione del granito, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, molte imprese erano state fondate da italiani. Addirittura, secondo lo storico R. Ceschi, «i proprietari delle cave erano in gran parte ex scalpellini italiani che si erano improvvisati impresari contraendo debiti, oppure confederati che avevano fiutato buoni affari con le pietre ticinesi; gli imprenditori locali erano solo quattro o cinque sopra una cinquantina».
Anche la storia della Banca della Svizzera Italiana (BSI) – oggi in mano al gruppo assicurativo italiano Generali e purtroppo in vendita (!) - è riconducibile a capitali italiani. Poco dopo la sua fondazione a Lugano nel 1873, la BSI entrò nell'orbita della Banca Commerciale Italiana, che ne fece una sorta di filiale estera utilissima, soprattutto tra le due guerre e durante la seconda guerra mondiale, per gli affari internazionali. Ma oltre alla BSI, anche altre società finanziarie e industriali con sede in Ticino dipendevano in larga misura dalla Commerciale.

Una presenza costante e attiva per l’italianità
La presenza italiana in Ticino è cresciuta in tutte le sue forme nel secondo dopoguerra ed è tuttora la componente demografica straniera più numerosa e più integrata, anche se gli attriti con i ticinesi non sono rari.
Il contributo maggiore gli italiani l’hanno dato tuttavia nel rafforzamento dell’identità linguistica e culturale dei ticinesi. Anche senza tener conto dell’integrazione naturale fra i due elementi fondamentali, quello ticinese autoctono e quello esogeno italiano, che comunque affondano entrambi le proprie radici in una matrice linguistica e culturale comune, non c’è dubbio che nella lunga battaglia per il riconoscimento dell’italianità del Ticino gli italiani sono stati sempre a fianco dei ticinesi.
In certi momenti l’elemento esogeno poteva sembrare (e forse lo era davvero) interessato in una visione vagamente irredentista, ma non credo che l’abbia mai danneggiato. Mi riferisco soprattutto agli anni tra il 1908 e il 1912 (quando venne proposta la creazione di una sezione ticinese della Dante Alighieri e di una «Università Ticinese») e al periodo fascista (in cui si tentò persino di sostituire l’espressione tradizionale di «Svizzera italiana» con quello di «Italia svizzera»).

L’apporto degli antifascisti
Proprio in quest’ultimo periodo il livello di consapevolezza dell’italianità autonoma dei ticinesi crebbe notevolmente. Forse anche per reazione all'aggressività fascista, si rafforzò ovunque sia il senso di appartenenza all'entità politica svizzera e sia l’appartenenza alla cultura italiana. A questa crescita pure hanno contribuito non pochi italiani. Infatti, grazie all'apertura delle autorità ticinesi e alla generosità della popolazione nell'accogliere migliaia di esuli antifascisti, e nonostante alcune restrizioni alla libertà di stampa imposte dalle autorità federali, molti di essi contribuirono ad arricchire con i loro articoli tutti i giornali ticinesi dell’epoca e a stimolare prestigiose iniziative culturali quali il Premio di Lugano, la rivista di cultura «Svizzera italiana», in cui scrissero anche profughi del calibro di Luigi Einaudi, Franco Fortini, Mario Fubini, Bruno Caizzi, ecc. Un altro illustre «emigrato» in Svizzera di quel periodo fu il giornalista e direttore del Corriere della Sera Eugenio Balzan, alla cui memoria è dedicato il prestigioso riconoscimento italo-svizzero «Premio Balzan» di un milione di franchi, che alcuni ritengono addirittura più prestigioso del Nobel.
Nel 1945, il Ticino contava poco più di 160 mila abitanti (il 3% della popolazione svizzera). Alle prese con una povertà strutturale riusciva a dare lavoro solo a 75 mila persone. Per l’eccedenza di manodopera restava aperta solo la via dell’emigrazione (soprattutto stagionale) e molti ticinesi l’intrapresero sino agli anni ‘50 in direzione dei grandi centri di Zurigo, Berna, Losanna, Ginevra, ecc. dove si aggiunsero agli immigrati italiani nelle attività edili.

Contributo al miracolo economico ticinese
Negli anni ‘50, tuttavia, nel Ticino si avviò un formidabile sviluppo economico, che ha fatto dimenticare in poco tempo secoli di arretratezza. Molti hanno pure dimenticano che anche in questo sviluppo il contributo italiano fu notevole. Ci vollero, è vero, generose agevolazioni fiscali per le nuove imprese, nuove capacità imprenditoriali e una volontà politica decisa a portare il Cantone a un livello d’industrializzazione e di prosperità vicino a quello del resto della Svizzera, ma ci vollero anche molta manodopera italiana, imprenditori italiani e forse soprattutto ingenti capitali italiani. Giusto per citare un esempio, una delle prime grandi imprese a creare occupazione in Ticino fu la Monteforno di Bodio-Giornico (siderurgia), avviata nel 1946 da imprenditori italiani con capitali, tecnici e operai italiani.
Nei decenni seguenti, si è assistito in Ticino a una sorta di miracolo economico che ha visto un notevole incremento industriale, una forte espansione dell’edilizia nei centri urbani e nelle località di villeggiatura, la realizzazione di grandi impianti idroelettrici, l’ampliamento e l’ammodernamento della rete ferroviaria e autostradale, lo sviluppo dell’offerta turistica, artistica e culturale che danno al Ticino valenza e rinomanza internazionali, l’espansione persino eccessiva della piazza finanziaria, un diffuso benessere per una popolazione in forte crescita, anche grazie all'immigrazione.
Oggi, nell'opinione pubblica ticinese è quasi scomparso il ricordo delle condizioni di un tale sviluppo e del contributo italiano, in una sorta di autoesaltazione che tende a valorizzare una non ben definita «ticinesità» piuttosto che l’«italianità», come se si volesse una totale emancipazione della figlia dalla madre.

Italianità come «Weltanschauung»
Per decenni non si è nemmeno tentato di definire o quantomeno descrivere l’«italianità» del Ticino e della Svizzera e solo di recente si cerca faticosamente di ricuperare il tempo perduto, anche perché si sente più acuto che mai il bisogno di una maggiore visibilità e rappresentanza dell’italianità a livello federale. Un’italianità, ormai, che va ben oltre la «ticinesità» e la stessa Svizzera italiana perché diffusa e attiva su scala nazionale.
Recentemente si fa strada, anche nel linguaggio politico, quella che a mio modo di vedere è la chiave interpretativa dell’italianità più appropriata, ossia il sentimento di appartenenza alla cultura italiana e che il senatore Filippo Lombardi ha descritto qualche mese fa, come una «componente culturale, una sensibilità politica, una Weltanschauung  istituzionale che unita alle altre fa la forza e la ricchezza di questo Paese, così particolare e unico al centro dell’Europa».
Mi risulta che anche altri politici ticinesi, a cominciare da Ignazio Cassis, copresidente dell’intergruppo parlamentare «Italianità», si muovono ormai in questa direzione, pur senza rinnegare la loro «ticinesità», ma superandola in un contesto culturale e identitario nazionale. Non c’è dubbio, infatti, che tradizionalmente, a livello identitario svizzero non è tanto significativa l’appartenenza a questo o a quel Cantone, ma l’appartenenza a una delle tre maggiori culture europee che trovano una sintesi politico-istituzionale nella Confederazione Svizzera. (Continua)
Giovanni Longu
Berna, 14.11.2012

Emigrati italiani: li abbiamo chiamati… e sono venuti!


Mi riferisco al titolo del volume di Paolo Barcella: Venuti qui per cercare lavoro. Gli emigrati italiani nella Svizzera del secondo dopoguerra, pubblicato della Fondazione Pellegrini-Canevascini (cfr. CdT del 9.11.2012, p. 40). Non avendo letto il libro, non entro nel merito e prendo solo lo spunto dal titolo, che trovo a prima vista fuorviante e infondato. Esso infatti suggerisce l’idea che nel secondo dopoguerra gli italiani si siano precipitati in massa alle frontiere con la Svizzera in cerca di lavoro e addirittura che questa ricerca di un lavoro sia la caratteristica di tutti «gli emigrati italiani in Svizzera del secondo dopoguerra». Ritengo questa idea del tutto o in massima parte infondata.
Basterebbe infatti ricordare che durante la guerra le frontiere della Svizzera erano chiuse e quando, alla fine del conflitto, furono riaperte, i controlli erano strettissimi. Nemmeno gli italiani, nonostante il trattato di libera circolazione tra l’Italia e la Svizzera del 1868, potevano entrare liberamente. Si entrava solo con permessi regolari. Perché allora nel secondo dopoguerra arrivarono in questo Paese decine di migliaia di immigrati italiani? La risposta è semplice: perché chiamati! La Svizzera aveva allora un disperato bisogno di manodopera estera, essendo quella indigena assolutamente insufficiente. Non potendola ottenere dalla Germania e dall'Austria (perché le potenze occupanti non concedevano permessi di emigrazione) e nemmeno dalla Francia (perché non aveva esuberi da collocare all'estero), la Svizzera si rivolse all'Italia, in cui la manodopera era disponibile.
Controllo alla frontiera
Si potrebbe anche ricordare che già nel 1946 la Svizzera mise a disposizione degli italiani diverse migliaia di autorizzazioni di cui poterono beneficiare 48.808 lavoratori immigrati. Le autorizzazioni furono portate a oltre 126 mila nel 1947, ma solo 105.112 furono effettivamente sfruttate a causa della lenta e farraginosa burocrazia italiana del dopoguerra. Oltre agli immigrati che potremmo chiamare «regolari» ce ne furono sicuramente altri che giunsero in Svizzera senza alcun permesso, ma non «clandestinamente». Anche a questi, infatti, bastava un passaporto turistico per entrare legalmente in Svizzera e cercare un posto di lavoro, evitando le lungaggini della burocrazia italiana. Ottenuto il permesso di lavoro, generalmente tramite familiari o amici, era facile ottenere anche le necessarie autorizzazioni svizzere.
Del resto lo stesso Ufficio federale del lavoro si lamentava con le autorità diplomatiche italiane della lentezza con cui venivano assegnati i permessi di emigrazione e del ritardo negli arrivi in Svizzera dei lavoratori autorizzati. Fu anche per questa ragione che molti imprenditori svizzeri furono indotti a cercarsi direttamente sul posto, tramite le Camere del lavoro e gli Uffici del lavoro italiani o reclutatori propri, la manodopera di cui abbisognavano e a provvedere direttamente ai relativi permessi.
Potrei infine ricordare che il grande scrittore svizzero Max Frisch, nella sua celebre frase sugli immigrati non scrisse: «son venuti qui per cercare lavoro…», ma «abbiamo chiamato …».
Giovanni Longu
(Corriere del Ticino, 14.11.2012)

Aggiunta. Purtroppo l'idea dei poveri disoccupati italiani del dopoguerra che si accalcano alla frontiera svizzera in cerca di lavoro è assai diffusa in molta letteratura sull'immigrazione in Svizzera. E' un'idea che non ha alcun fondamento.
E' vero infatti che nel dopoguerra, soprattutto nell'Italia del nord c’era molta disoccupazione, perché molte fabbriche non erano state ancora convertite da un’economia di guerra a una produzione per usi civili; ma è anche vero che gran parte di questi disoccupati erano lavoratori qualificati. E’ vero soprattutto che nell'immediato dopoguerra, per le ragioni suesposte, all'economia svizzera faceva gola questa manodopera qualificata e si è adoperata attraverso le autorità svizzere e italiane, le organizzazioni professionali e propri emissari per accaparrarsela. Di fatto le autorità svizzere misero a disposizione degli italiani un numero di permessi di soggiorno ben superiore a quello realmente utilizzato. Soprattutto nei primi anni del dopoguerra i lavoratori italiani erano ricercati, altro che «venuti per cercare lavoro». La situazione mutò, sotto questo profilo, negli anni ’50, quando cominciarono ad arrivare gli immigrati meridionali non qualificati e poco scolarizzati, molti senza ancora un permesso di soggiorno e di lavoro. Ma pure loro, in qualche modo erano «chiamati», perché fino agli anni ’70 l’economia svizzera aveva bisogno di molta manodopera anche generica.