17 novembre 2021

Immigrazione italiana 1970-1990: 61. La seconda generazione (2)

L’eccezionalità del fenomeno della «seconda generazione» di italiani sul finire degli anni Sessanta era dovuta sia alla sua straordinaria portata e sia all'impreparazione delle istituzioni soprattutto svizzere a fronteggiarla. La combinazione di questi due elementi rendeva qualsiasi soluzione particolarmente complessa e difficile. Si è già parlato della gravità del fenomeno per il numero elevato di bambini interessati (cfr. articoli precedenti), ma anche l’impreparazione delle istituzioni merita qualche spiegazione. Tanto più che nell'ormai secolare storia di Paese d’immigrazione, non è pensabile che la Svizzera abbia dovuto affrontare il tema dei figli degli stranieri per la prima volta solo a cavallo del 1970.

La seconda generazione fino al 1931

Figli di immigrati «ospiti» di uno dei tanti collegi lungo la frontiera italo-svizzera.
Effettivamente già in passato la Svizzera aveva dovuto occuparsi della seconda generazione di stranieri presenti sul suo territorio. Lo faceva nel suo interesse quando, negli accordi bilaterali con gli Stati vicini, per dovere di reciprocità accettava che gli stranieri e i loro figli continuassero a restare tali finché volevano e i propri cittadini e i loro figli continuassero a restare svizzeri anche vivendo in Germania, in Italia o altrove. Lo faceva pure suo malgrado, come nel Trattato di domicilio e consolare del 1868 tra l’Italia e la Svizzera, quando la Confederazione accettò che anche gli italiani naturalizzati in Svizzera, quindi svizzeri, non potessero sottrarsi all'obbligo del servizio militare in Italia.

La seconda generazione degli immigrati era divenuta un problema politico serio quando agli inizi del secolo scorso si cominciò a vedere nel crescente numero di stranieri (specialmente tedeschi e italiani) e dei loro figli nati in Svizzera un pericolo e per indicarlo s’inventò nel 1900 la parola Überfremdung, «inforestierimento». Per evitare che si diffondesse tra la popolazione un forte sentimento antistraniero, il dibattito politico si concentrava sulla ricerca del metodo più semplice e realizzabile per ridurre la crescita e possibilmente il numero totale di stranieri.

Poiché a causa dei vari accordi bilaterali era quasi impossibile intervenire direttamente sulla prima generazione, decisamente tedesca, italiana o francese e pressoché insensibile all'attrazione della cittadinanza svizzera, si pensò di agire quasi esclusivamente sui giovani stranieri, ritenendoli già sufficientemente integrati perché nati in Svizzera (benché frequentassero ambienti, scuole comprese, quasi esclusivamente non svizzeri). Si giunse persino ad approvare una legge federale (1903) che dava ai Cantoni, competenti in materia di cittadinanza, la facoltà di introdurre nell'ordinamento cantonale una sorta di jus soli, ossia la naturalizzazione automatica per gli stranieri di seconda generazione nati in Svizzera.

La legge rimase inapplicata per la contrarietà dei Cantoni (ma anche della popolazione immigrata interessata) e la Confederazione, di fronte a tali ostacoli, rinunciò per oltre un decennio a nuovi tentativi di soluzione generale, anche se il tema dell’Überfremdung era sempre presente nell'agenda del Consiglio federale. Da allora, tuttavia, cominciò a farsi strada il pensiero che alla naturalizzazione ciascuno dovesse arrivarci attraverso l’«assimilazione» individuale (il termine «integrazione» era ancora se non inesistente, scarsamente usato).

La legge sugli stranieri del 1931

Poiché nell'opinione pubblica svizzera la paura degli stranieri non era stata scacciata nemmeno dalle avversità della prima guerra mondiale e dalla vistosa diminuzione della popolazione straniera dal 14,7 per cento (nel 1910) all'8,7 per cento (nel 1930), l’Assemblea federale pensò di dare una soluzione pressoché definitiva al problema dell'inforestierimento attraverso una nuova legge federale sulla dimora (di durata limitata) e il domicilio (di durata illimitata) degli stranieri, approvata il 26 marzo 1931 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1934.

L’importanza di questa legge è facilmente comprensibile se si pensa che essa ha fissato i principi fondamentali della politica immigratoria svizzera per oltre settant'anni, ossia fino all'entrata in vigore della nuova legge sugli stranieri il 1° gennaio 2008. La sua durata e i principi in essa contenuti spiegano anche in larga misura l’impreparazione della Svizzera a gestire l’emergenza della seconda generazione alla fine degli anni Sessanta. Essi meritano pertanto di essere richiamati, almeno sommariamente.

Anzitutto, però, occorre ricordare che la legge sugli stranieri del 1931 doveva costituire per il Consiglio federale e per il legislatore una specie di muro contro l'«inforestierimento», ossia il pericolo che una massa di stranieri ritenuti «ospiti», Gastarbeiter, rimanesse in Svizzera a tempo indeterminato. La legge non era dunque destinata, come qualcuno potrebbe pensare, a contenere l’afflusso di stranieri (contro cui sarebbe stata largamente inefficace a causa dei trattati bilaterali con i Paesi vicini da cui provenivano nella stragrande maggioranza), ma a scoraggiare la loro permanenza in territorio svizzero.

I cardini della politica migratoria dal 1931 al 2008

Per raggiungere tale obiettivo non occorreva introdurre nuove modalità d’ingresso in Svizzera, ma bastava disciplinare le condizioni d’ingresso e della permanenza degli stranieri. Per esempio, vincolando l’ingresso e il soggiorno dei lavoratori stranieri non solo a un permesso di lavoro e a un permesso di soggiorno, ma anche a un reale interesse della Svizzera ad ospitarli. Per questo la legge prescriveva all'articolo 16 che «nelle loro decisioni, le autorità competenti a concedere i permessi terranno conto degli interessi morali, economici del paese nonché dell’eccesso della popolazione straniera». In altre parole, le nuove ammissioni dovevano avvenire unicamente in funzione della situazione del mercato del lavoro, del clima sociale, della situazione degli alloggi, della lotta all'inforestierimento.

Inoltre, venivano introdotte per la prima volta nella legge due caratteristiche determinanti per la successiva politica federale degli stranieri, la discrezionalità dei permessi e la precarietà. Con la prima si riconosceva un potere pressoché assoluto agli organi dello Stato di concedere o meno i permessi e di revocarli in base a criteri già allora ritenuti da taluni poco oggettivi. Con la seconda si stabiliva il principio della durata limitata dei permessi e della possibilità che venissero revocati o non venissero rinnovati.

L’articolo 4 precisava, a scanso di equivoci e di pretese ingiustificate che «l’autorità decide liberamente, nei limiti delle disposizioni di legge e dei trattati con l’estero, circa la concessione del permesso di dimora o di domicilio». Pertanto si stabiliva anche che l’autorità non era obbligata al rinnovo dei permessi, qualora fossero venute meno le condizioni per le quali erano stati rilasciati.

Si sa infine che a vigilare sull'osservanza della legge e dei regolamenti c’era un’attenta Polizia degli stranieri, che solo a nominarla incuteva timore. Del resto doveva apparire singolare che a presiedere alla sorveglianza di decisioni essenzialmente amministrative ci fosse una «Polizia» speciale. Il perché è invece chiaro: la nuova legge e tutte le misure ad essa collegate dovevano scoraggiare che molti stranieri prolungassero a tempo indeterminato il loro soggiorno in Svizzera.

L’emergenza della seconda generazione

Il risultato è stato che effettivamente la legge, le ordinanze e la polizia degli stranieri hanno consentito che milioni di lavoratori stranieri dimorassero in questo Paese per qualche stagione o anno finché l’economia ne aveva bisogno e poi se ne tornassero definitivamente al loro Paese d’origine, perché la Svizzera non voleva essere un Paese d’immigrazione senza ritorno.

Giovani  in formazione al Cisap (anni ’80)
Finché questa politica ha funzionato non c’è mai stato un serio problema della «seconda generazione» perché il continuo movimento di arrivi e partenze rendeva difficile anche solo pensare a costituire qui una famiglia, crescere dei figli, farsi una casa, integrarsi.

Solo nella seconda metà degli anni Sessanta, quando questo movimento incessante di migranti ha cominciato a rallentare perché l’economia aveva bisogno di personale stabile e fidelizzato all’azienda in cui lavorava, gli immigrati hanno cominciato dapprima a prolungare il loro soggiorno in Svizzera e poi a prendere il domicilio a tempo indeterminato, a costituire una famiglia, a fare figli o farsi raggiungere dai figli minorenni rimasti in Italia. In breve, l’emergenza della seconda generazione era inevitabile, soprattutto dopo che l’Italia durante il negoziato per un nuovo accordo di emigrazione/immigrazione (nella prima metà degli anni Sessanta) aveva chiesto espressamente alla controparte svizzera di prendere in considerazione i bisogni di formazione dei piccoli italiani.

Solo allora, ufficialmente nel 1970, come si vedrà nel prossimo articolo, la Confederazione prese coscienza del fenomeno in crescita della seconda generazione senza poter invocare leggi e regolamenti ormai travolti da una nuova generazione di stranieri, non più riconducibili alla categoria degli «immigrati» e più simili ai coetanei svizzeri che ai coetanei del Paese d’origine. (Segue).

Giovanni Longu
Berna, 17.11.2021