Alcuni lettori che seguono più o
meno regolarmente i miei articoli, ritengono che il mio discorso sui
migranti e in particolare sull’accoglienza, l’inserimento, la formazione
professionale e lo sviluppo sostenibile manchi di realismo e non tenga conto delle effettive capacità
d’inclusione e realizzazione della società, specialmente di quella italiana.
Cercherò di chiarire il mio pensiero e di precisare alcuni concetti che lo
sostanziano. Premetto che rispetto qualunque visione del problema diversa dalla
mia, eccetto quelle che visibilmente confliggono col principio delle preminenza della dignità umana e col principio fondamentale per la convivenza umana dello Stato al servizio dell'uomo e non viceversa.
Migrazione, fenomeno complesso

Non tutte le migrazioni di massa
erano spontanee e pacifiche, anzi erano sovente precedute e seguite da guerre.
Il movimento era spesso generato da spinte esterne, come al tempo delle
invasioni barbariche (dal 166 al 476 d.C.), quando
l’invasione di un popolo provocava la fuga e l’invasione di un altro popolo,
che viveva magari pacificamente. I
fuggitivi-invasori non incontravano quasi mai una buona accoglienza per cui le
guerre per la sopravvivenza erano inevitabili. Anche gli Elvezi, nel primo
secolo avanti Cristo, pressati dai vicini Germani, cercarono di
spostarsi in massa verso la Gallia, ma la loro migrazione
fu bloccata da Giulio Cesare nella battaglia di Bibracte (58 a.C.) con decine
di migliaia di morti.
Dall’epoca postcoloniale le
migrazioni non sono più paragonabili alle invasioni barbariche, sono
generalmente pacifiche perché i migranti non sono armati, fuggono soltanto per
spirito di sopravvivenza da territori infestati da guerre, violenze,
persecuzioni e soprattutto miseria. Quando parlo di «migrazione» mi riferisco
non a un fenomeno astratto, ma alla realtà dolorosa di questi esseri umani
minacciati in alcuni valori costitutivi della persona, la vita, la dignità e la
speranza. Queste persone non possono essere discriminate in ciò che hanno di
più caro e di comune a tutti gli esseri umani. Esse vanno salvate e assistite.
Prima di tutto l’accoglienza
La mia realtà di riferimento sono
persone in carne e ossa che fuggono, che cercano la salvezza, che cercano
disperatamente un approdo sicuro in Europa e in Italia. Sono bambini ai quali
la vita ha concesso finora poche speranze di sopravvivenza. Sono madri e padri
che si ribellano a un destino crudele che sembra non lasciare scampo né a loro
né ai loro figli se non attraverso una fuga pericolosa e senza garanzia di
salvarsi. Sono le migliaia di disperati che alcune navi di soccorso generose e
pietose riescono a far salire a bordo e fanno sbarcare in qualche porto sicuro.
Li chiamo anch’io, come ormai in uso, sebbene inizialmente fossi contrario a
questa terminologia, «migranti».
A questi «migranti» vorrei che si
garantisse sempre il primo soccorso, in mare e in terra, pensando che si
tratta di persone come me e come te, che prima di essere eritrei, somali,
siriani o di qualsivoglia nazionalità, hanno la stessa dignità di tutti gli
esseri umani. Accogliere un tale «migrante» significa anzitutto difendere la
«nostra» dignità. Solo dopo la prima accoglienza può e deve seguire tutto il
resto, l’identificazione, gli esami, ecc. conformemente alle leggi e alle
possibilità.
Decidere già prima del soccorso e
dello sbarco se i «migranti» che si trovano quasi sempre «in cattive acque»
meritano o no di essere accolti mi sembra impietoso e disumano. Non è umano
negare al proprio simile il diritto alla vita e alla speranza, facendo appello
a responsabilità assolutamente sproporzionate come la «difesa dei confini»,
«tra i migranti si nascondono trafficanti di esseri umani», dobbiamo assistere
«prima i nostri», «l’Unione europea non ci aiuta abbastanza», e simili scuse.
Questi discorsi, semmai, si fanno dopo l’accoglienza, l’identificazione e la
prima sistemazione, non prima.
Per senso di concretezza non sono
contrario al rimpatrio di chi non ha titoli per restare, ma preferisco il
modello svizzero, che incoraggia i rimpatri
«volontari», piuttosto che praticare i difficili rimpatri forzati. «La
lunga esperienza della Svizzera mostra che i ritorni volontari funzionano, sono
più economici e, soprattutto, più umani. I rinvii forzati vanno applicati soltanto
come ultima ratio» (Simonetta Sommaruga, consigliera federale).
Anch’io sono convinto che
l’Italia non può farsi carico di tutti i profughi del mondo e nemmeno di tutti
quelli a cui assicura la prima accoglienza. Qualcosa però può fare, almeno a
una parte dei «migranti» che ne fanno richiesta e hanno i titoli per chiedere
l’asilo o il soggiorno. Oggi che si parla tanto di investimenti, perché non
investire almeno un po’ anche nell’integrazione degli immigrati?
La xenofobia danneggia l’Italia
Poiché ogni governo ha bisogno
del consenso popolare per governare, anche quello italiano, ma non è purtroppo
da solo, spera di conquistarsi il sostegno popolare (spendibile anche in altre
occasioni) diffondendo un’idea dei «migranti» falsa e tutto sommato dannosa per
il Paese. Quest’idea è che la «massa» dei migranti rappresenti una minaccia per
la società italiana, perché tra di loro si nascondono pericolosi criminali,
scafisti, spacciatori, clandestini, sbandati, potenziale manovalanza per la
criminalità organizzata, ecc. In altre parole, si alimenta tra la gente la
«paura dello straniero», ossia la xenofobia.
A chi non conosce da vicino la
storia dell’emigrazione italiana in Svizzera vorrei ricordare che negli anni
’60 e ’70 del secolo scorso la xenofobia colpiva soprattutto gli italiani. Si
tennero anche votazioni popolari per limitare la presenza degli stranieri
(allora erano soprattutto italiani) e la stampa italiana scriveva articoli
infuocati contro la xenofobia svizzera. Oggi, in Italia, i media sembrano ammutoliti,
forse perché gli stranieri sono africani, profughi, «migranti» senza arte né
parte, presunti «invasori» per portare via il lavoro e il benessere agli
italiani.
Eppure dovrebbe essere abbastanza
chiaro che la xenofobia, anche nelle forme più blande senza sfociare nel
razzismo e nell’odio, fa male all’Italia perché getta discredito su una parte
produttiva o potenzialmente produttiva di persone che contribuisce o
contribuirà ad assicurare il benessere di tutti, rischia di alimentare una
guerra tra poveri, crea un clima di pericolosi scontri sociali, dà fiato alle
voci che invocano le maniere forti.
Qualcuno potrebbe obiettare che
il governo è così perché così lo vuole la maggioranza degli italiani.
L’obiezione è solo in parte vera, nel senso cioè che il popolo italiano ha
votato indirettamente questo governo e non un altro; è falsa quando lascia
supporre che la maggioranza degli italiani sia xenofoba. Il popolo italiano è
infatti in grande maggioranza molto accogliente e generoso quando si tratta di aiutare
chi è nel bisogno. Lo sarebbe probabilmente ancora di più se si raccontasse in
modo diverso il fenomeno migratorio, facendogli capire per esempio che
dall’apporto degli stranieri dipende anche il nostro benessere, che spendere
risorse per l’inserimento degli immigrati è un ottimo investimento, che il
«nostro» futuro dipende anche dal loro presente.
L’integrazione è necessaria
La narrazione positiva
dell’immigrazione ovviamente non deve limitarsi al primo momento, quello
dell’accoglienza e della prima sistemazione, che vede prevalere soprattutto i
costi. Il discorso va ampliato all’intera vita dell’immigrato, tenendo conto
che almeno una parte, quella dell’infanzia, non è costata nulla o poco al Paese
di accoglienza e che per renderla positiva e produttiva occorrono una reale integrazione e investimenti
adeguati.
Anche al riguardo il mio discorso
è molto concreto. Non si può pretendere che un immigrato sia da subito
produttivo e utile alla società. Ha bisogno di tempo, se è un giovane adulto (come gran parte degli
immigrati), per orientarsi nella società, ha bisogno di imparare la lingua del
posto per comunicare, deve apprendere un mestiere perché il mondo del lavoro
occidentale è molto esigente, deve avere il tempo per crearsi una rete sociale,
ecc.
Il periodo
dell’inserimento sociale, formativo e professionale è delicato, fondamentale e necessario anche perché
il lavoro e un’adeguata formazione linguistica e professionale sono strumenti
formidabili d’integrazione. Una persona bene integrata, soddisfatta del lavoro
che svolge, è una persona che realizza non solo sé stessa e i suoi sogni, ma
contribuisce anche al benessere del Paese che lo ha accolto e di cui non potrà
che dir bene.
All’eventuale obiezione che
l’Italia non ha sufficienti risorse per far seguire questo percorso
d’integrazione, desidero rispondere che se il percorso è ritenuto utile e necessario le risorse
si trovano. L’esempio dell’apprendistato svizzero, che comprende periodi di
formazione e periodi di lavoro, è un modello anche sotto il profilo dei costi,
perché nel rapporto costi-benefici questi superano di gran lunga i primi: se ne
avvantaggiano gli apprendisti, i datori di lavoro, lo Stato (perché
l’apprendistato costa meno di un liceo o un’altra formazione teorica) e
l’intera società che può contare sui proventi di un’economia ad alto valore
aggiunto. L’Italia dovrebbe sperimentarlo e i risultati ne dimostreranno
facilmente l’utilità.
Giovanni LonguBerna, 16.10.2018