21 ottobre 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 27. Il futuro della seconda generazione

Dopo la crisi della metà degli anni Settanta, la seconda generazione degli italiani sembrava avviata a ricalcare le orme della prima. Così avrebbero voluto molti svizzeri, altrimenti, chi avrebbe svolto i lavori pesanti, pericolosi o anche solo ripetitivi che gli svizzeri non volevano più svolgere? E c’erano persino genitori, per fortuna pochi, disposti a che i loro figli, terminata la scuola dell’obbligo, trovassero subito un lavoro e si rendessero finanziariamente indipendenti. Gli immigrati, allora, sapevano ben poco di orientamento professionale, di differenti forme di apprendistato, di perfezionamento professionale, di scuole superiori e della stessa possibilità di accedere a studi universitari. Quasi tutti, però, volevano evitare ai loro figli di dover rifare le loro esperienze negative e per questo dovevano solo «studiare». Il loro futuro doveva essere diverso!

Clima difficile

Per molti genitori immigrati era chiaro che i propri figli
dovessero prima studiare... e poi cercarsi un lavoro qualificato.


Quanto fosse diffusa, tra gli svizzeri, la convinzione che la seconda generazione fosse come predestinata a continuare la prima lo provano una serie di elementi sui quali è stato steso ormai il velo dell’oblio, mentre bisognerebbe tenerli presente in una rievocazione oggettiva del periodo in esame (1970-1990), anche per non dimenticare il contributo enorme fornito dagli stessi stranieri alla soluzione del problema.

Per esempio, si tende a dimenticare che le iniziative antistranieri non sono finite nel 1970 (iniziativa Schwarzenbach), ma sono proseguite anche dopo e tutte, nella sostanza, miravano a bloccare la popolazione straniera nella sua posizione tradizionale di subalternità. Soprattutto nei periodi di crisi, nessuno metteva in dubbio il principio «prima i nostri»… e riguardava molto spesso anche i giovani della seconda generazione. Tanto è vero che in una iniziativa popolare si chiedeva che il numero delle naturalizzazioni fosse limitato a 4 mila l’anno.

Tutte le iniziative antistranieri, anche se venivano sistematicamente respinte, facevano aumentare la distanza tra stranieri e svizzeri. La difficoltà dei rapporti e il disagio, soprattutto tra gli immigrati, era evidente. Anche i figli, inevitabilmente, ne risentivano e non poteva essere altrimenti. Nemmeno la scuola riusciva ad avvicinare le distanze ed ancora oggi molte testimonianze parlano di una bassa considerazione dei piccoli stranieri nella scuola dell’obbligo.

Purtroppo anche il Governo, come intimorito dai movimenti xenofobi, esitava ad intervenire con decisione per migliorare le condizioni degli immigrati e s’illudeva di poter implementare una politica d’integrazione quando fosse riuscito, con le sue ordinanze e l’introduzione di rigidi contingenti, a limitare e stabilizzare la popolazione straniera. Avrà sicuramente ringraziato la crisi economica della metà degli anni Settanta per il grande contributo dato alla diminuzione degli stranieri senza nemmeno costringere i disoccupati a lasciare la Svizzera. Intanto per gli immigrati i miglioramenti tardavano ad arrivare.

Quale alternativa?

Chi ha avuto l’occasione di partecipare, negli anni Settanta e Ottanta, a qualcuno dei numerosi dibattiti riguardanti il futuro professionale dei figli di immigrati in presenza di funzionari comunali o cantonali ricorderà certamente con quanta insistenza questi suggerivano ai genitori stranieri di prospettare ai loro figli almeno una seconda possibilità e non solo studiare (o mirare a un solo tipo di apprendistato). Questo discorso, già di per sé abbastanza complicato, non faceva presa sulla maggioranza degli immigrati, che era sicura di una cosa: i loro figli non dovevano fare i manovali, i lavapiatti, gli aiutanti, i «tuttofare». Per evitare tutto ciò dovevano solo studiare.

Per alcuni fu certamente un errore, in un’ottica svizzera, non prospettare un’alternativa. D’altra parte, era difficile, in quegli anni, far capire a molti genitori immigrati che anche un buon apprendistato era una forma di studio di livello superiore, che numerosi apprendistati davano buone prospettive di sviluppo e di carriera.

Spesso non vi riuscivano nemmeno gli uffici di orientamento professionale, anche per la loro insufficiente conoscenza della psicologia dei genitori immigrati. In molti casi liquidavano la questione sulla base del rendimento scolastico: solo chi poteva esibire una buona pagella era indirizzato a un tipo di apprendistato esigente di quattro anni, mentre per chi presentava voti mediocri o scarsi le prospettive erano un tirocinio breve o comunque non molto esigente o addirittura una formazione pratica.

Le misure adottate dal Consiglio federale per limitare l’immigrazione e soprattutto la crisi economica della metà degli anni Settanta aveva indotto numerosi datori di lavoro a ristrutturare la loro azienda. «Ristrutturare», però, significava spesso fare a meno di una parte del personale di cui si disponeva e inevitabilmente a «restare a casa» erano soprattutto coloro che non erano più ritenuti indispensabili alla produzione perché erano solo «aiutanti», non professionisti.

Gli stranieri, tra i quali si contavano le principali vittime delle ristrutturazioni, avevano ben capito la lezione e non erano disposti a consentire che i loro figli corressero simili rischi. Confrontati con una scelta difficile per il futuro dei propri figli, nella loro semplicità e responsabilità non avevano però scelta: i loro figli dovevano studiare o fare un buon apprendistato.

In effetti, già negli anni Settanta molti immigrati si rendevano conto dell’importanza dell’apprendistato e capivano che chi ha imparato un buon mestiere, lo sa svolgere bene, ne coglie via via gli sviluppi e segue gli aggiornamenti… è anche più protetto contro i rischi della disoccupazione.

Percorso a ostacoli

I giovani stranieri oggi incontrano incomparabilmente meno difficoltà nel seguire la loro scelta di studio o di apprendimento professionale e sarebbe esagerato negare loro una sostanziale parità di trattamento nei confronti dei coetanei svizzeri e meno ancora parlare di discriminazione. Negli anni Settanta e Ottanta era ben diverso, anche se le differenze erano dovute più che a una volontà discriminatoria a una diffusa disinformazione.

Molti giovani italiani scelsero per il loro futuro una formazione
professionale qualificata in strutture private (foto Cisap)

Verso la fine della scuola obbligatoria tutti gli allievi sapevano dell’esistenza di stage e di servizi di orientamento scolastico e professionale, ma non lo sapevano moltissimi genitori stranieri e quelli che lo sapevano guardavano spesso con diffidenza (purtroppo non sempre immotivata!) quei servizi. Non esistevano, però, altri servizi alternativi (salvo in qualche grande città) a cui gli stranieri potevano rivolgersi, nemmeno nei consolati o n
elle grandi associazioni. Per molti genitori dev’essere stato un dramma anche solo consigliare i loro figli quale professione scegliere o di proseguire gli studi.

D’altra parte, per gente venuta qui principalmente per lavorare, guadagnare e tornarsene quanto prima al proprio paese, era obiettivamente difficile capire ad esempio gli stretti legami fra rendimento scolastico (tipo di scuola frequentata) e tipo di apprendistato o possibilità di proseguire gli studi. Com’era difficile capire che un regolare avanzamento nell’apprendimento scolastico presupponeva una buona conoscenza della lingua locale e un assiduo sostegno dei genitori. Per non parlare della difficoltà di capire la sostanziale parità di grado tra un buon apprendistato e una scuola superiore.

Dovendo affrontare queste e altre difficoltà, a distanza di anni è possibile capire quanto sia stato pieno di ostacoli il percorso scolastico e di formazione professionale della seconda generazione. Tuttavia va riconosciuto ai genitori stranieri e ai loro figli il merito di non essersi mai arresi, incoraggiati dai continui miglioramenti e dalla crescente consapevolezza anche tra gli immigrati che la riuscita scolastica è fondamentale per una parità di opportunità nella scelta professionale e nella vita.

Risultati garantiti

Un primo risultato è stato conseguito, prima ancora dei giovani della seconda generazione, dagli stessi immigrati. Molti, infatti, sono stati di esempio ai loro figli migliorando la loro formazione scolastica, linguistica e professionale. Soprattutto negli anni Settanta e Ottanta molti adulti hanno conseguito la licenza media, frequentando corsi di lingua, corsi professionali per adulti, corsi di specializzazione, corsi di aggiornamento.

Negli anni Ottanta, in alcune città, le organizzazioni dei genitori sono riuscite persino ad ottenere una rappresentanza, sia pure senza diritto di voto, nelle Commissioni scolastiche, alle quali si accedeva normalmente su designazione dei partiti politici. Fu un risultato importante perché bastava la presenza di un genitore immigrato per far modificare l’atteggiamento generale della Commissione nei confronti degli allievi stranieri.

Un’altra difficoltà incontrata da molti genitori stranieri, soprattutto italiani, riguardava la relativamente alta percentuale di loro figli nelle «scuole speciali». Sono mica più stupidi degli svizzeri, reagivano alcuni, ed era difficile spiegare loro che non si trattava di stupidità ma di inadeguatezza a seguire un programma scolastico esigente perché, per esempio, scarseggiavano le conoscenze linguistiche necessarie. La verità era che soprattutto alcune formazioni erano molto impegnative. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 21.10.2020