Uno dei maggiori
problemi che l’aumento della seconda generazione ha fatto esplodere fin dagli
anni Sessanta è stato certamente quello della penuria di abitazioni. E’ facile
immaginare che inizialmente l’edilizia abitativa destinata agli immigrati non
costituisse una priorità né per le autorità federali, cantonali e comunali,
impreparate ad affrontare quella problematica, né per l’economia svizzera
orientata al profitto. Solo lentamente ci si rese conto della necessità di
trovare soluzioni serie e durevoli per dare una sistemazione soddisfacente alla
massa di immigrati in continua crescita. Le difficoltà da superare erano
tuttavia enormi.
Con gli stranieri la carenza di alloggi si acuisce
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Interno di una baracca degli anni Sessanta |
La Svizzera soffriva della carenza di alloggi (per
eccesso di domanda) già durante la guerra, ma divenne una vera emergenza con
l’immigrazione in massa degli italiani nel secondo dopoguerra. Il Consiglio
federale ne era consapevole e avviò un ampio programma per migliorare il
mercato delle abitazioni e ampliare l’edilizia popolare. Con esso intendeva non
solo smorzare la protesta di molti svizzeri che attribuivano la carenza di
abitazioni alla forte presenza di stranieri, ma anche sostenere la nuova
politica federale di «stabilizzazione» della manodopera straniera.
In realtà la politica del Consiglio federale
era più complessa. Riteneva infatti che senza imporre un freno allo sviluppo
economico e conseguentemente ai nuovi arrivi di immigrati, non sarebbe stato
possibile né stabilizzare quelli già arrivati né offrire loro abitazioni
accessibili. Senza queste misure, per costruire nuove abitazioni sarebbero
occorsi altri immigrati: un circolo vizioso!
Com’è noto la politica del governo federale
non ebbe il risultato auspicato – non da ultimo a causa della libertà economica
costituzionalmente garantita e delle autonomie cantonali e comunali - e anche
il problema degli alloggi si protrasse più a lungo del previsto. Ciononostante,
dal 1946 al 1966 furono costruite oltre 710.000 abitazioni e molte altre ne
sarebbero state costruite in seguito, perché la crescita della popolazione
stabile continuava.
Alcune cifre significative
Nel periodo considerato la situazione abitativa
era certamente difficile, ma non si può dimenticare l’incremento straordinario
della popolazione totale svizzera tra il 1950 e il 1970, passata da 4.714.992 a
6.193.064 residenti, grazie soprattutto all’aumento degli stranieri, passati
nello stesso periodo da 285.446 a 1.080.076 persone (italiani: 140'280 /
583'855). Se a questi residenti stabili si aggiungono mediamente ogni anno 150-200
mila stagionali è evidente che nessun governo avrebbe potuto garantire alloggi
confortevoli a tutti e soprattutto a buon mercato.
Le condizioni abitative più disagiate era
sicuramente quelle degli stagionali, perché le baracche dove molti alloggiavano
erano talvolta prive di confort, ma non erano normalmente tali da poter essere
definite «pessime» (Toni Ricciardi), «topaie e tristi baraccamenti (Dario
Robbiani), «famigerate baracche» in cui «i lavoratori stagionali sono
ammucchiati, di solito in precarie condizioni igieniche» (Delia
Castelnuovo-Frigessi), o tali da far pensare addirittura alle baracche di
Dachau e Auschwitz (Luciano Alban). Infatti, normalmente le baracche del
dopoguerra erano costituite di stanze ben tramezzate e isolate comprendenti 4 o
al massimo 6 letti e disponevano di toelette, lavabi, docce, ecc. Soprattutto
costavano poco (cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/search?q=baracche;
https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2017/10/italiani-in-svizzera-25-condizioni_11.html).
In alcune narrazioni, fin troppo generiche, si
legge che le baracche degli stagionali erano sporche, umide, puzzolenti, incivili,
ma non si dice che la pulizia e l’ordine dipendevano soprattutto dagli stessi
inquilini e dai capibaracca, per cui c’erano baracche pulite («lucide e
pulitissime», Vasco Fraccanelli) e baracche sporche. Va inoltre corretta
l’opinione molto diffusa che tutti gli stagionali alloggiassero in baracche,
infatti, secondo un’indagine del 1966, solo il 28% degli stagionali alloggiava in una
baracca (tra gli annuali solo l’8%).
Opinioni contrastanti in Italia
Nel Parlamento italiano, negli anni Sessanta,
ci fu chi come l’on. Giuseppe Pellegrino (del PCI) qualificò le abitazioni
degli immigrati italiani: «abituri fangosi … stalle… baracche umide e sconnesse»,
ma ci fu anche chi come l’on. Giuseppe Lupis (PSI), pur riconoscendo la gravità
del problema delle abitazioni, non esitò a indicare nel «profondo senso del
risparmio» una delle principali motivazioni che spingevano molti immigrati a
non cercare nemmeno abitazioni più confortevoli e ovviamente più costose. Per
superare le difficoltà Lupis auspicava un attenuamento dell’«umanissimo desiderio
dei nostri lavoratori di guadagnare il più possibile per sé e la propria
famiglia». Si sa che quell’auspicio sarà sempre più seguito.
Giovanni Longu
Berna, 21 agosto 2019
Berna, 21 agosto 2019