16 settembre 2020

Inforestierimento: se ne parla da 120 anni


In Svizzera si parla d’«inforestierimento» (Überfremdung) e di immigrazione di massa almeno da 120 anni. Molti non sanno che a preoccupare una parte della popolazione svizzera all’inizio del secolo scorso non era tanto l’aumento degli immigrati, necessari per garantire lo sviluppo economico, quanto l’aumento degli stranieri (italiani) senza lavoro e indigenti a carico dell’assistenza pubblica. Pochi, probabilmente, hanno notato che dopo 120 anni, la propaganda di destra in vista delle prossime votazioni federali sulla limitazione della libera circolazione delle persone tra l’Unione europea (UE) e la Svizzera si nutre ancora della paura che il benessere raggiunto venga ridotto da poveri, indigenti, disoccupati stranieri (europei). Un argomento allora come oggi decisamente insostenibile.

Premessa storica: il «problema degli italiani»

Per capire la situazione migratoria all’inizio del secolo scorso va ricordato che già allora tra la Svizzera e i Paesi vicini vigevano accordi di libera circolazione delle persone. Per esempio, un trattato del 1868 tra la Svizzera e l’Italia garantiva ai cittadini svizzeri e italiani la piena «libertà di domicilio e di commercio» in entrambi i Paesi. Inizialmente, ad approfittarne furono soprattutto gli italiani perché, alle prese con una forte disoccupazione, riuscivano facilmente a trovar lavoro in Svizzera e non potevano essere bloccati alla frontiera grazie a quel trattato. A beneficiarne, però, fu l’intera popolazione residente in questo Paese che in poche decine d’anni raggiunse il livello di benessere degli Stati europei più avanzati.

Nel 1900 gli italiani residenti in Svizzera, pur essendo già più di centomila, non costituivano il gruppo straniero più numeroso (i tedeschi erano quasi 170.000), ma apparivano i più problematici, anche se decisamente meno influenti dei tedeschi e dei francesi. Evidentemente gli italiani, per quanto bravi lavoratori, non erano ben visti.

A dare nell’occhio non era solo il loro incessante aumento ma la loro diversità rispetto soprattutto agli altri immigrati. Essi erano diversi culturalmente, conducevano una vita separata, non si integravano volentieri e raramente chiedevano la naturalizzazione. Con i loro modi di fare, di vivere e anche di lavorare creavano problemi di concorrenza e di convivenza e suscitavano spesso disprezzo, paura e persino odio. Basti pensare alle numerose aggressioni («tumulti») che subirono sul finire dell’Ottocento a Berna (1983: Käfigturm-Krawall) e a Zurigo (1896: Italiener-Krawall o Tschinggen-Krawall).

Nascita di un concetto con molte sfaccettature

Solo gli italiani, a quanto sembra dalla lettura delle cronache dell’epoca, rappresentavano un problema, tant’è che solo nei loro confronti fu usata l’espressione «la questione degli italiani» (die Italienerfrage) e furono considerazioni sulla situazione migratoria specialmente degli italiani, sul finire dell’Ottocento, a ispirare il neologismo «Überfremdung» (tradotto in italiano inforestierimento), che ha segnato per oltre un secolo la politica migratoria svizzera.

L’origine di quel termine è illuminante per capire gran parte delle numerose iniziative antistranieri, compresa l’ultima che si andrà a votare prossimamente. Merita dunque un breve richiamo puntuale.

Anzitutto è interessante osservare che non è stato un politico a introdurre quel neologismo nel vocabolario della politica elvetica, ma un funzionario amministrativo, il segretario responsabile dell’assistenza pubblica della città di Zurigo, Carl Alfred Schmid. In un libretto pubblicato nel 1900 ripeteva quanto aveva già detto qualche anno prima in una relazione all’assemblea annuale della Schweizerische gemeinnützige Gesellschaft / Società svizzera di utilità pubblica sul tema: «Die Unterstützung der Ausländer in der Schweiz» (l’assistenza degli stranieri in Svizzera). Schmid sosteneva che la massa di stranieri in continua crescita (a cui probabilmente voleva alludere col termine inforestierimento) minacciasse seriamente «il benessere e la sicurezza della Svizzera».

La paura nasceva probabilmente dalla costatazione che lo sviluppo economico, se da una parte faceva aumentare il benessere generale e riusciva ad occupare molte migliaia di stranieri, dall’altra, creava anche disoccupati e indigenti, specialmente italiani. Infatti, affermava Schmid, induceva «un numero non meno importante di operai italiani» a venire in Svizzera alla ricerca di un lavoro, «attratti dal miraggio di un salario elevato».

Benvenuti purché utili

Sembrerebbe, dunque, contrariamente a quel che comunemente si pensa e talvolta si scrive, che agli inizi del secolo scorso il problema maggiore dell’immigrazione di massa non derivasse tanto dal crescente numero di stranieri presenti in Svizzera per paura di una possibile dipendenza dell’economia (e magari della politica) dalla manodopera straniera, ma perché nei periodi di minore occupazione cresceva il numero dei senza lavoro (spesso con famiglia a carico), cioè delle persone «non attive», che si aggiungeva al numero degli infortunati, dei malati e degli indigenti a carico dell’assistenza pubblica comunale e cantonale e a scapito del benessere generale.

Gli italiani «attivi» godevano della stima dei datori di lavoro e persino le autorità federali e cantonali li trattavano con rispetto. Quando nel 1906 venne inaugurata la galleria del Sempione la «questione degli italiani» non fu evocata né si parlò di «pericolo d’inforestierimento», ma si inneggiò all’«eterna amicizia» tra i due popoli. Ai grandiosi festeggiamenti a Domodossola e a Briga parteciparono il re d’Italia Vittorio Emanuele III e l’intero Consiglio federale.

Evidentemente «la questione degli italiani» non dipendeva dal loro numero e nemmeno dalla loro dinamica di crescita (1880: 41.530, 1900: 117.059, 1910: 202.809). Se fossero stati tutti lavoratori «attivi» (solo «braccia», come avrebbe detto molti anni più tardi Max Frisch) non avrebbero creato alcun problema; ma non tutti erano attivi e questo disorientava, anzi  il «popolo di signori» che chiedeva «braccia» e non «uomini» si sentiva «in pericolo» (Max Frisch, 1965).

Il problema dell’assistenza

Anche Schmid non metteva in dubbio la loro utilità (bastava pensare alla realizzazione della rete ferroviaria), purché non divenissero indigenti a carico dell’assistenza pubblica, allora riservata in primo luogo agli indigeni. Evidentemente il problema dell’indigenza interamente a carico dei Comuni e dei Cantoni era una questione molto seria e purtroppo spesso riguardava proprio gli italiani, come risulta da più fonti. Non tanto, però, gli italiani che perdevano il lavoro a seguito d'infortuni (a Zurigo, nel 1897, su 2515 persone infortunate, più della metà, 1371, erano italiane), quanto gli italiani che erano alla ricerca di un lavoro che non trovavano.

Nelle grandi città svizzere era facile incontrare italiani che non trovando alcuna occupazione

girovagavano «estenuati dallo scoraggiamento e dalla fame» e finivano per ess

ere presi a carico dall’assistenza pubblica. Infatti le istituzioni assistenziali italiane (alcune fondate da Mons. Geremia Bonomelli dopo il 1900) erano poche e potevano assistere solo un esiguo numero di persone per periodi brevi. I consolati italiani, a loro volta, non potevano assistere tutti i bisognosi e non potevano nemmeno rimpatriarli a spese dello Stato (a meno che si trattasse di «emigranti ammalati o convalescenti incapaci al lavoro», in base al «Regolamento Consolare» dell’epoca).

Gran parte degli indigenti italiani finiva perciò a carico dell’assistenza comunale e cantonale. Comuni e Cantoni, che avrebbero potuto rinviarli al loro Paese (l'indigenza poteva essere motivo di espulsione), a corto di mezzi, spesso non riuscivano nemmeno a pagare le spese di rimpatrio e chiedevano (sovente invano) il sostegno finanziario della Confederazione, anch’essa però con risorse limitate.

In questa situazione è comprensibile che i responsabili dell’assistenza pubblica fossero preoccupati. E’ invece sorprendente che il primo a lamentarsi pubblicamente degli italiani indigenti sia stato il responsabile di Zurigo. Non esitava, infatti, a dichiarare che gli italiani, oltre a pesare «in misura significativa» sulle casse pubbliche e a comportare un enorme lavoro amministrativo, erano «oltremodo ingrati». Eppure, proprio la Città e il Cantone di Zurigo erano tra i maggiori beneficiari del lavoro degli immigrati italiani, generalmente molto apprezzato sia prima che dopo la famosa ondata di violenza del 1896. Per il resto, il benessere raggiunto, non solo a Zurigo ma in tutta la Svizzera, non era certo a rischio a causa dei relativamente pochi indigenti stranieri.

Paura della povertà

La paura della povertà, in molte sue forme, è una presenza costante nella popolazione svizzera. Dapprima, per quasi tutto l’Ottocento, ha indotto decine di migliaia di confederati ad emigrare in cerca di fortuna specialmente in America. Dall’inizio del Novecento ad oggi, con l’attenuarsi della paura (grazie al sistema di sicurezza sociale) e l’aumento della prosperità generale (dovuto a uno sviluppo straordinario dell’economia), molti svizzeri vedono il maggior pericolo di perdita del benessere raggiunto (senza chiedersi come) nell’immigrazione di massa incontrollata (anche se non c’è).

Tutta la storia delle iniziative antistranieri può essere letta come un reiterato tentativo dei nazionalisti svizzeri (spesso con molti seguaci inconsapevoli) di ridurre tale pericolo limitando, anche massicciamente, il numero di immigrati stranieri, divenuti nel tempo oltre che produttori, anche consumatori di beni e servizi e percettori dei benefici del sistema assicurativo nazionale. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 16.9.2020

14 settembre 2020

Statue, storia e compromessi*


La prima metà di quest’anno è stata agitata in molte parti del mondo da distruzioni o imbrattamenti di statue di personaggi «illustri». Si è trattato di episodi clamorosi perché sono state prese di mira statue di
Cristoforo Colombo, presidenti americani come George Washington e Theodore Roosevelt, statisti come Winston Churchill e altri. Ne è seguito un acceso dibattito non solo sui personaggi contestati, ma anche sul significato delle statue, sul genere di narrazione storico-celebrativa che i personaggi raffigurati spesso rappresentano e sull’opportunità che essi continuino a designare parchi e piazze.

Questione complessa 

Boston, statua decapitata di Cristoforo Colombo

Ad avviare l’abbattimento e l’imbrattamento delle statue negli Stati Uniti è stata la barbara uccisione di un afro-americano da parte di poliziotti bianchi. I personaggi raffigurati in quelle statue erano visti come espressione di un passato condannabile, ma attraverso la loro distruzione o deturpazione si voleva colpire e distruggere più che i personaggi il suprematismo bianco e più in generale ogni forma di oppressione e di razzismo. L’ondata contestatrice si è poi diffusa anche in alcuni Paesi ex coloniali d’Europa, con strascichi anche in Italia, in Svizzera e persino in Groenlandia.

Al di là della condanna quasi unanime degli atti di vandalismo indiscriminato, l’opinione pubblica si è divisa sulla rappresentatività di certe statue e sull’opportunità di mantenerle al loro posto o di trasferirle in luoghi più appartati. In effetti, è lecito chiedersi se sia opportuno ostentare ancora in luogo pubblico statue di personaggi controversi per presunti comportamenti oggi insostenibili. Non sarebbe più appropriato, si chiedono in molti, rimuoverle dai parchi e dalle piazze e collocarle nei musei? Inoltre, è possibile scindere i personaggi «incriminati» dalla cultura che secondo i contestatori rappresenterebbero?

Non è sicuramente facile rispondere a queste e a simili domande, trattandosi di questioni molto complesse. Basti pensare che tutte le civiltà antiche hanno cercato di tramandare un’immagine positiva di sé attraverso monumenti dedicati a miti, eroi, geni dell’arte e della conoscenza. Anche gli Stati moderni non rinunciano ai miti di fondazione, agli eroi che li hanno incarnati, ai patrioti e ai «figli illustri», dedicando loro piazze, vie, monumenti e statue a profusione. Sono state fatte scelte sbagliate? E’ possibile rimediare?

Statue, personaggi e contesto

Idealmente, per rispondere a queste e alle precedenti domande bisognerebbe conoscere bene non solo i personaggi «denunciati», ma anche il contesto storico, culturale e sociale delle loro azioni, delle loro intenzioni, dei metodi adottati, dei risultati ottenuti e non da ultimo della percezione che ne ebbero i contemporanei e le comunità che ne hanno chiesto o comunque accettato le statue. Impresa non facile anche per gli storici di professione, perché le statue non rappresentano soltanto personaggi, ma anche la mentalità politica, economica, sociale dell’epoca in cui sono state realizzate.

Del resto, già i personaggi costituiscono una difficoltà in sé perché figure generalmente molto complesse e controverse, sulle quali la ricerca storica non ha ancora pronunciato un giudizio definitivo e persino sui «tiranni» e sui «dittatori» la discussione resta aperta. Anch’essi, infatti, fin da quando erano ancora in vita, hanno avuto sostenitori (pure tra il popolo) e detrattori (per lo più ricchi e potenti) e non è raro che personaggi un tempo ritenuti negativi siano stati in seguito riabilitati. La difficoltà maggiore è data tuttavia dal contesto storico-culturale in cui hanno agito, talvolta molto diverso da quello attuale, e dal rischio di non saperlo valutare obiettivamente.

Forse per queste ragioni, nelle discussioni il parere degli storici (prevalentemente orientati ad «assolvere» dai capi d’accusa più gravi i personaggi «incriminati») non è stato determinante, mentre hanno contato molto le accuse rivolte a quei personaggi dai contestatori, benché li abbiano trattati come fossero contemporanei. Certamente un errore, che non giustificherebbe, tuttavia, una sottovalutazione dell’opinione pubblica o una negazione incondizionata delle loro richieste.

Rispetto delle sensibilità popolari

Nella questione che si sta esaminando, infatti, ciò che conta è l’opinione dei cittadini, ai quali una statua può piacere o dare fastidio per le idee che rappresenterebbe il personaggio raffigurato. Del resto, negli episodi evocati non si è trattato tanto di una vera e propria contestazione dei personaggi raffigurati e nemmeno di una pretesa di riscrivere la storia, ma semplicemente di una manifestazione clamorosa di molte persone che rifiutano idee e comportamenti oggi ritenuti insostenibili come lo schiavismo, il colonialismo, il razzismo, l’oppressione etnica, politica, economica e simili prevaricazioni.

Dal dibattito sull’argomento è anche emerso chiaramente che numerose persone (difficile da quantificare) oggi interpretano diversamente la storia patria e mal sopportano, per esempio, una narrazione trionfalistica dei fatti avvalendosi di personaggi «gloriosi» anche se nella loro vita hanno avuto, approvato o tollerato comportamenti oggi disapprovati da tutte le società democratiche. Sarebbe miope e inopportuno non tenerne conto nella rilettura e riscrittura delle storie nazionali o di singoli personaggi, anche se è sempre difficile fornire una narrazione dei fatti (per non parlare delle idee e delle intenzioni) obiettiva e imparziale, «sine ira et studio» (Tacito), dunque convincente.

Resta il problema della conservazione o della rimozione delle statue per ragioni di opportunità, ma anche al riguardo le opinioni sono contrastanti. Scartata da quasi tutti la soluzione estrema della distruzione, restano due opzioni principali, quella di lasciarle nel posto in cui si trovano e quella di rimuoverle per collocarle in un museo come testimonianze di personaggi rappresentativi di un’epoca e di una cultura storica ben definite. Perché la scelta sia il più possibile condivisa si dovrebbe avviare un confronto civile tra i sostenitori delle varie opzioni, tenendo conto che in situazioni simili il compromesso può essere una soluzione ragionevole.

Dialogo indispensabile

Per un confronto serio finalizzato al successo il punto di partenza potrebbe essere un sondaggio sui sostenitori e i contrari dell’una o dell’altra opzione. Da solo non basterebbe, ma stabilirebbe un minimo di proporzioni nell’opinione pubblica e aiuterebbe a desistere da posizioni radicali di tipo manicheo e aprirsi al compromesso, quasi sempre possibile.

L’opinione pubblica, anche quando fosse maggioritaria, non va necessariamente sempre seguita, ma va ascoltata. Ciò non significa che si debba accettare qualunque compromesso, perché anche nelle nostre società ci sono valori irrinunciabili. Significa che il dialogo va proseguito fino a quando si trova un compromesso soddisfacente per entrambe le parti. Persino nei riguardi della Croce il dialogo è spesso proficuo.

La Croce di Auschwitz

La Croce di Auschwitz

Forse nessuno ricorda più la clamorosa controversia degli anni 1986-1997 tra l’episcopato polacco e alcune potenti organizzazioni ebraiche, ma in questo contesto merita senz’altro un rapido cenno. Quando nel 1979 il papa polacco Giovanni Paolo II, da poco eletto, fece visita al campo di sterminio di Auschwitz, nella spianata adiacente al campo principale dove fu celebrata la messa era stata eretta una grande croce (8,6 metri), poi rimossa dopo le cerimonie. Sullo stesso luogo, qualche anno dopo, le suore carmelitane aprirono un convento e ripiantarono la croce, ormai nota come «croce del Papa».

La reazione degli ebrei di tutto il mondo fu immediata, ma i cattolici oltranzisti polacchi, sostenuti da politici (compreso Lech Walesa) ed ecclesiastici (anche il cardinale Jozef Glemp) si opposero alle richieste ebraiche di chiudere il convento e rimuovere la croce. Nella vicenda intervennero molte personalità di tutto il mondo e lo stesso Papa chiedendo tolleranza. La controversia durò a lungo, ma fu avviata a soluzione grazie al compromesso proposto dal gesuita Stanislaw Musial che convinse i connazionali a delocalizzare il convento carmelitano e gli «amici» ebrei a lasciare la croce al suo posto. Compromesso riuscito!

* Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Insieme (MCLI, Berna) n. 9, Settembre 2020, p. 23.

Giovanni Longu
Berna, settembre 2020