06 novembre 2013

70° della FCLIS: 3. Successi e ostacoli


A pochi anni dalla costituzione della FCLIS, superato lo smarrimento conseguente al rientro in Italia di gran parte degli esponenti dell’antifascismo che erano stati all’origine delle Colonie libere, il movimento riprende vigore, modificando via via il principale centro d’interessi, ma conservando l’entusiasmo iniziale. Se nella visione degli iniziatori c’era stata soprattutto la preparazione del rientro in Italia per la ricostruzione in senso democratico di un Paese distrutto anche moralmente, la FCLIS del dopoguerra sente come propria missione irrinunciabile anzitutto la «sfascistizzazione» delle organizzazioni degli immigrati italiani in Svizzera compromesse col fascismo.

Missione difficile
Purtroppo il compito si rivelò assai più difficile del previsto e l’«epurazione» trovò ostacoli di non facile superamento anche nel prudente atteggiamento delle autorità elvetiche, preoccupate ormai più della «minaccia comunista» che dei rigurgiti fascisti. Del resto, proprio i «residui fascisti», ripresisi a loro volta insieme alle loro associazioni dopo la fine ingloriosa del regime, cercarono da subito di gettare discredito sui «rossi delle colonie libere», considerandoli il vero pericolo in grado di minare la pace sociale che sembrava regnare anche tra gli immigrati italiani.
La FCLIS respingeva qualsiasi connotazione partitica ricordando che gli iniziatori antifascisti avevano voluto fondare a Olten «non un partito bensì un centro di attivismo democratico che non legava a nessun determinato programma politico ma che presupponeva solo la fede delle libertà fondamentali del cittadino». Voleva essere apartitica sì, ma non apolitica. «La Colonia non è apolitica perché non abdica al pensiero. La Colonia, eccetto per i fascisti, è la Casa naturale di tutti, è il Paese, qui in terra elvetica. Non apolitica né agnostica, ma accoglie tutti i pensieri e tutte le tendenze politiche».
In effetti, questo cercava di essere la FCLIS e per questo riscosse da subito molto credito tra gli immigrati italiani, soprattutto tra coloro che possedevano una certa formazione (anche politica) e un buon livello culturale. La forza di attrazione delle Colonie era dovuta non solo alla novità che rappresentavano nel panorama dell’associazionismo tradizionale, ma anche per la convinzione con cui i dirigenti si presentavano, denunciavano, rivendicavano e proponevano. Nei loro discorsi non c’era alcuna esitazione, si sentivano come investiti di una missione «storica», «fatale»: erano convinti di compiere un dovere incondizionato, quello di instaurare nelle «colonie italiane» della Svizzera la democrazia e la pratica della libertà. «Questa funzione di iniziare alla pratica della libertà le collettività italiane uscenti da una specie di medioevo spirituale, è una delle funzioni più nobili e più attuali delle colonie libere», scriveva Libera Stampa nel 1946.
Lo stesso quotidiano ticinese, che ospitava settimanalmente informazioni sulle Colonie libere italiane, preciserà una settimana più tardi: «Chi poteva portare ai nostri connazionali la prima parola di libertà? I cancellieri ed i segretari dei consolati? I consoli fascisti preoccupati della sfuggente pagnotta? I cavalieri ed i commendatori delle colonie [fasciste]? Di gruppi cattolici o liberali organizzati che avessero condotto in Svizzera una lotta politica durante i lunghi anni della dittatura non v'era traccia da noi. E allora? Dov'erano gli uomini? Era nella logica della storia che quegli italiani, i quali per un ventennio avevano tenuta viva la fede nella libertà e che per essa avevano sofferto, fossero i primi ad iniziare il risveglio democratico delle colonie. Era fatale che fossero essi e se non avessero agito avrebbero mancato ad un dovere».

Problematiche migratorie in un’ottica italiana
Tutte le Colonie, che andavano costantemente aumentando, incoraggiate dalle risoluzioni dei Congressi annuali e dagli appelli degli organi centrali, si sentirono coinvolte in questa missione di libertà e tutte cercavano in varie forme di occuparsi non solo della vecchia immigrazione ma anche della nuova.


L’attenzione alle problematiche migratorie era divenuta ormai assolutamente preminente, sebbene sempre in un’ottica che considerava ancora gli immigrati italiani in Svizzera come una «colonia italiana», una sorta di enclave in terra elvetica, che doveva essere difesa e protetta per evolversi secondo parametri che l’antifascismo aveva identificato nei valori della libertà riconquistata e della democrazia, ma sempre mantenendo legami stretti con la madrepatria. Del resto, soprattutto nel dopoguerra fino agli anni Sessanta, l’emigrazione in Svizzera era considerata dagli italiani (istituzioni e individui) una fase temporanea, non solo per effetto della politica immigratoria svizzera di allora, basata sulla rotazione della manodopera, ma anche perché il proposito o il miraggio di quasi tutti gli emigrati (prima generazione) era il rientro in patria. La nuova politica italiana, dal punto di vista soprattutto delle sinistre, avrebbe dovuto eliminare alla radice le cause dell’emigrazione. Anche per questo, almeno fino agli anni Settanta, la parola d’ordine del Partito comunista italiano (PCI), fatta propria anche dalla FCLI era «Ritornare per votare, votare per ritornare!»

In effetti, dopo il 1946 e per almeno un ventennio, le CLI affrontarono in quest’ottica gran parte delle problematiche degli immigrati italiani, soprattutto all'inizio molto complesse e obiettivamente di difficile soluzione. Si pensi anche solo ai problemi che lasciava aperti l’Accordo di emigrazione tra la Svizzera e l’Italia del 1948 (sul quale la FCLIS si mostrò alquanto critica), ai problemi che poneva la stagionalità dei contratti (statuto di stagionale), alle difficili condizioni di lavoro di molti immigrati soprattutto in alcuni rami economici (agricoltura, alberghi e ristoranti, dove talvolta si era costretti a lavorare anche 10-12 ore e più al giorno), alle difficoltà legate alla penuria di alloggi a buon mercato, e poi via via ai problemi che investiranno dagli anni ’60 in poi la seconda generazione, ecc. ecc.

Condizioni del successo: diffusione e organizzazione
Per poter intervenire efficacemente su ogni problematica la FCLIS riteneva indispensabile un’ampia diffusione sul territorio con molte Colonie e soprattutto molte adesioni in modo da legittimare i singoli interventi in rappresentanza di tutta l’emigrazione. Aveva inoltre bisogno di un’efficiente organizzazione interna e un proprio organo di stampa (Bollettino per i soci, poi Bollettino delle Colonie Libere Italiane e successivamente Emigrazione italiana) in grado di informare e sensibilizzare sulle problematiche migratorie non solo i membri delle Colonie ma anche l’opinione pubblica e persino una parte della classe politica italiana, quella di sinistra da sempre più attenta alle rivendicazioni sociali della classe operaia.
Forte di un ampio consenso e di un apparato organizzativo efficiente ed efficace, la FCLIS è riuscita a mobilitare in più occasioni migliaia di italiani e a sottoporre alle autorità italiane (molto meno a quelle svizzere) una serie impressionante di rivendicazioni, alcune destinate magari non immediatamente a buon fine, altre all'insuccesso per impraticabilità oggettiva o disattese in nome del superiore interesse dei buoni rapporti tra l’Italia e la Svizzera o per esplicito rifiuto di quest’ultima.
Si possono citare, a titolo di esempio, le battaglie per l’epurazione dei fascisti, la petizione per il rilascio del passaporto gratuito a tutti gli emigrati, le rivendicazioni di assicurazioni sociali identiche a quelle degli svizzeri, il riconoscimento del diritto all'assistenza sanitaria per i familiari residenti in Italia e degli assegni per i figli a carico anche se rimasti in Italia, la richiesta della FCLIS di partecipare in rappresentanza dell’emigrazione alla trattative bilaterali tra l’Italia e la Svizzera, per non parlare della costante richiesta dell’abolizione dello statuto di stagionale.

Ostacoli svizzeri e italiani
Va tuttavia ricordato che questa linea contestataria e rivendicativa della FCLIS non era sempre ben vista né dalla parte svizzera né da quella italiana.
Per gli svizzeri, almeno dal 1948 esisteva nei confronti di tutte le organizzazioni di sinistra, soprattutto quelle straniere, una pregiudiziale anticomunista che le rendeva quantomeno sospette e inaffidabili. Molti degli italiani espulsi negli anni ’50 e ’60 per «attività comunista» facevano parte delle Colonie e molti dei suoi attivisti erano schedati dalla polizia. Forse anche per questo la FCLIS non fu mai accettata al tavolo delle trattative bilaterali.
Non si può nemmeno dimenticare che alcune posizioni della FCLIS urtavano la sensibilità dei sindacati svizzeri, come quando nel 1972, vennero accusati esplicitamente di essere troppo vicini al padronato. Per tutta risposta venne accusata (insieme alle ACLI e ad altre organizzazioni) di non fare abbastanza per invitare i compatrioti ad aderire ai sindacati svizzeri. L’anno seguente fu lo stesso presidente dell’Unione Sindacale Svizzera (USS) Ezio Canonica, molto stimato negli ambienti italiani, a mettere in guardia le organizzazioni italiane e in particolare la FCLIS dal volersi sostituire al sindacato. E un altro esponente del sindacalismo elvetico, Ernst Wüthrich, si meravigliava che si desse ancora tanto ascolto alle Colonie Libere Italiane.
Nemmeno la parte italiana, tuttavia, era disposta a dare sempre seguito alle rivendicazioni delle Colonie, in parte perché sarebbero state ritenute inaccettabili dalla controparte svizzera e quindi inopportune e in parte perché, a livello parlamentare, a Roma, venivano strumentalizzate soprattutto dal PCI in funzione antigovernativa, quando a dirigere la politica migratoria e la politica in generale c’erano governi democristiani anticomunisti.

Ciononostante…
Ciononostante, almeno fino agli anni Settanta, le Colonie Libere Italiane godevano in Svizzera di un grande seguito. Quando nel 1968 si celebrò il XXV anniversario della fondazione, la FCLIS contava ben 116 associazioni con circa 15.000 tesserati. Al loro interno, le Colonie organizzavano di tutto: incontri, dibattiti, conferenze, consulenza, assistenza, letture, corsi professionali, feste per bambini, feste ricreative, sport, tornei, proiezioni cinematografiche, esposizioni, ecc.
Alla fine degli anni Settanta, quando molte associazioni tradizionali erano ormai in crisi di ricambio e disertate dalle seconde generazioni, le Colonie Libere Italiane erano ancora tra le poche che vantavano per lo meno una certa notorietà tra i giovani, insieme alle Missioni Cattoliche Italiane e a poche altre associazioni sportive.
(Continua nel prossimo numero)

Giovanni Longu
Berna, 6 novembre 2013

05 novembre 2013

Chiude l’INCA-Svizzera, nato sotto una cattiva stella


E’ noto che l’INCA-CGIL sede svizzera chiude le attività per fallimento. E’ sempre triste leggere simili notizie quando riguardano istituzioni nate per la difesa dei lavoratori, ma lo è ancor di più quando la notizia del fallimento si aggiunge a quella del malaffare e della truffa accertata proprio nei confronti di lavoratori che cercavano assistenza.


Evidentemente la sede svizzera dell’INCA (Istituto Nazionale Confederale di Assistenza) non era nata sotto una buona stella. In quanto emanazione del sindacato italiano CGIL, che la Polizia federale svizzera riteneva «comunista e molto potente», il patronato era considerato anch'esso comunista, anzi una sorta di centrale di propaganda. Allora, il semplice sospetto che qualcuno e a maggior ragione un’associazione o un gruppo organizzato fosse «comunista» o di estrema sinistra era sufficiente per allertare la Polizia federale e avviare indagini.
L’INCA, consapevole che sarebbe andato incontro a un netto rifiuto se avesse chiesto di aprire a Zurigo un proprio ufficio con una struttura propria, nell'immediato dopoguerra agì attraverso un cartello sindacale locale che si occupava anche dei lavoratori italiani. Bastò tuttavia che un certo Regolini, delegato dell’Unione Sindacale Svizzera (USS), fosse intervenuto nel 1948 a un congresso organizzato a Milano dall’INCA-CGIL per insospettire la Legazione (ambasciata) di Svizzera in Italia. L’Ufficio federale delle arti e mestieri e del lavoro (UFIAML) chiese informazioni all’USS. Questa rispose affermando che il delegato svizzero aveva in effetti rappresentato la posizione dei sindacati svizzeri che consideravano la difesa dei lavoratori italiani nei confronti del padronato come «uno dei loro compiti principali», anche nell'interesse dei lavoratori svizzeri. Se infatti i sindacati, con il sostegno delle autorità, erano riusciti ad ottenere che i lavoratori stranieri dovessero essere impiegati «alle stesse condizioni salariali e di lavoro degli svizzeri», questo evitava che i lavoratori stranieri potessero venir usati, come era avvenuto spesso in passato, per comprimere i salari anche degli svizzeri.
Solo nella seconda metà degli anni ’50 l’INCA poté aprire un proprio ufficio a Zurigo. Vi riuscì senza troppe difficoltà perché a dirigerlo venne chiamato un avvocato svizzero, tale Bernhard Weck, il quale si era cercato come collaboratore un altro svizzero, un ticinese. Sebbene il Weck fosse noto per le sue «opinioni di estrema sinistra», non rischiava l’espulsione dalla Svizzera, come sarebbe stato il caso se si fosse trattato di un cittadino italiano.
All'ufficio INCA di Zurigo non riuscì invece, per diversi anni, di ottenere il permesso di far venire funzionari direttamente dall'Italia né di aprire nuovi uffici in altre città svizzere. La pregiudiziale anticomunista in quel periodo era molto forte, tanto che nel 1962 il Ministero pubblico della Confederazione incaricò la polizia zurighese d’indagare sulle reali attività del patronato. Ne risultò che i responsabili dell’ufficio «non tentavano d’influenzare politicamente i lavoratori italiani e si occupavano correttamente della difesa dei loro interessi». Dunque via libera alle sue attività e ai suoi funzionari? Niente affatto.
Nel gennaio 1963 si tenne a Berna un incontro riservato fra rappresentanti della Polizia federale, della Polizia federale degli stranieri, dell’UFIAML e dell’Ufficio federale delle assicurazioni sociali riguardante «attività dei sindacati italiani in Svizzera» e in particolare del patronato INCA. Benché non risultasse «alcuna agitazione comunista tra i lavoratori italiani», tutti i partecipanti concordarono che «l’attività in Svizzera dell’INCA (come pure quella degli altri due sindacati italiani) non era auspicabile» e che «la polizia federale dovesse continuare a sorvegliare gli uffici dei sindacati italiani». Inoltre, il responsabile dell’UFIAML fu incaricato di invitare «discretamente» le associazioni padronali a non intrattenere alcun contatto con i sindacati italiani in Svizzera. Che tempi!
Ciononostante, da allora l’INCA-CGIL ha operato in Svizzera per cinquant'anni tutelando migliaia di lavoratori, fino al recente «caso Giacchetta», il funzionario di Zurigo accusato e condannato per aver truffato numerosi lavoratori italiani. E’ dunque triste apprendere che il primo ente di patronato italiano insediatosi in Svizzera nel dopoguerra sia costretto a chiudere definitivamente i battenti per «fallimento», non solo sotto il peso dei debiti e della condanna dei tribunali, ma anche della vergogna per il danno arrecato alle decine di famiglie dei lavoratori truffati. E qui la cattiva stella non c’entra.

Giovanni Longu
Berna, 5.11.2013