30 settembre 2015

Capire la Svizzera: 1. Introduzione: conoscere e capire



Sarà capitato a tutti sentire o leggere giudizi, per lo più negativi, generici e perentori, su un popolo o su una nazione. Non sono quasi mai giustificati perché non tengono conto della complessità e del contesto. Molto spesso nascondono gravi lacune conoscitive e soprattutto l’incomprensione di quello che alcuni filosofi hanno chiamato «lo spirito di un popolo», fatto di storia, ideali ed essere.
Qualche anno fa, in un articolo intitolato «La Svizzera, questa sconosciuta», la giornalista ticinese Luciana Caglio sosteneva che «si può visitare un paese, risiedervi per motivi di lavoro o di convenienza, persino essere ufficialmente cittadini, senza però conoscerlo veramente». Ne sono convinto anch’io, preferendo tuttavia all’espressione «conoscere veramente» il verbo «capire».

Avvertenze preliminari
Con questo articolo inizio una serie di articoli sulla Svizzera, con la pretesa non di svelare l’essenza di questo Paese e del suo Popolo ma di offrire ai lettori alcuni elementi, soprattutto storici e interpretativi, che ritengo utili per tentare almeno di capirne i tratti essenziali e le motivazioni profonde.
Saranno prese in considerazione alcune caratteristiche tipiche della Svizzera moderna, se ne seguirà l’evoluzione fino alle espressioni attuali. Sarà interessante osservare, per esempio, l’evoluzione di alcuni concetti emblematici come «libertà», «neutralità», «identità nazionale», «coesione nazionale», «democrazia diretta», «solidarietà», «integrazione», «sviluppo», ecc.
Di ognuno di questi concetti si cercherà di cogliere il «significato» più comunemente inteso dalla maggioranza del popolo svizzero, oggi e nel passato, con alcune avvertenze preliminari: la prima: «capire» è qualcosa di più del semplice «conoscere»; la seconda: i concetti, per quanto apparentemente sempre identici nella sostanza, in realtà assumono connotazioni diverse nelle varie epoche; pertanto occorre stare molto attenti a «giudicare» il passato in base a criteri e valori di oggi; la terza: diffidare dalle «generalizzazioni».

Prima avvertenza: capire è più che conoscere
Conoscere e capire sono due verbi usati spesso come sinonimi perché entrambi fanno riferimento all’intelligenza. In questi articoli assumono invece due significati diversi, che emergeranno di seguito. La differenza principale è anzitutto temporale: prima si conoscono e si comprendono (nel significato originale di «prendere e mettere insieme») in un sistema coerente i vari elementi e solo dopo si forma nella mente il «concetto» (dal latino «cum capere»), ossia il risultato del capire. In questo processo la conoscenza è dunque condizione previa e indispensabile per capire, secondo il detto: «si può capire solo ciò che si conosce».
Tra conoscere e capire, sempre nel contesto di questi articoli, c’è anche una differenza qualitativa: mentre la conoscenza è di per sé illimitata, per capire è spesso sufficiente una conoscenza limitata, purché significativa. Talvolta per capire bastano pochi segnali. Per capire che si tratta di un incendio non occorre sapere come è stato provocato, chi l’ha provocato, che cosa sta andando in fumo, ma basta vedere anche di lontano il fumo e le fiamme.
Questo modello di conoscenza non è sempre facilmente applicabile, soprattutto quando l’oggetto del «capire» è una Nazione, uno Stato, un Popolo. Anche una conoscenza approfondita della storia, della geografia, delle istituzioni di un Paese non è di per sé sufficiente per «capire» lo spirito del suo Popolo. Gli eventi si possono studiare e conoscere nella loro origine e nelle loro conseguenze perché sono «determinati», lo spirito invece è per sua natura indeterminato, libero, vivo, mutevole.
Trattandosi della Svizzera, un Paese notoriamente complesso sotto molti punti di vista, l’intento potrebbe apparire azzardato, ma non è impossibile. La storia della Confederazione moderna presenta infatti tratti caratteristici piuttosto costanti, anche se continuano a risentire dei condizionamenti dell’evoluzione interna e internazionale. Seguire questa evoluzione faciliterà sicuramente il compito, anche se resta difficile.

Seconda avvertenza: i concetti assumono nel tempo connotazioni diverse
Osservando la storia svizzera si nota facilmente come una serie di valori ritenuti generalmente «fondamentali» cambino connotazioni col passare del tempo e il mutare del contesto nazionale e internazionale. E’ ovvio, perché di generazione in generazione anche il corpo sociale muta, si trasforma, evolve, si adatta alle mutate condizioni e reinterpreta di volta in volta anche i valori ritenuti fondamentali. Si pensi nella storia della Svizzera ai concetti di «libertà», di «patria», di «identità nazionale» e, in generale, a tutti i concetti evocati sopra.
In questo percorso conoscitivo, giunti alla conclusione in cui diciamo a noi stessi «ho capito», si può cadere nella tentazione di interpretare l’intero processo fin dall’inizio alla luce del punto di arrivo. Sarebbe un errore, che in questi articoli s’intende evitare, sperando di riuscirci.

Terza avvertenza: diffidare delle generalizzazioni
La tentazione di generalizzare sulla base di pochi casi disponibili è grande. Molti, anche esperti ricercatori, la praticano con una certa disinvoltura non necessariamente perché vogliono evitare la fatica di una ricerca più estesa e di un’analisi approfondita, ma magari perché i casi esaminati appaiono sufficienti, anche se pochi.
In realtà, soprattutto in certi campi delle scienze umane, la generalizzazione è un metodo di difficile utilizzazione. Per applicarlo correttamente bisognerebbe disporre di un numero di casi statisticamente significativi, di cui invece spesso non si dispone oppure di una serie di casi talmente convergenti nel loro significato da rendere inutile l’ulteriore ricerca. Occorre pertanto molta prudenza di fronte alla tentazione di generalizzare.

A titolo di esempio
Per rendere meglio l’idea di quanto detto e dello scopo di questi articoli, commenterò brevemente a titolo di esempio alcune espressioni contenute in un lungo articolo sulla disgrazia di Mattmark del 1965, pubblicato sul settimanale ticinese Il Caffè del 30 agosto 2015 a firma di tre ricercatori (Toni Ricciardi, Sandro Cattacin e Rémi Baudouï) che hanno a lungo indagato sul quella catastrofe.
Nell’articolo, che si riferisce all’epoca dei fatti, si legge fra l’altro (le sottolineature sono mie): «La Svizzera terra di ingiustizie? In un certo senso si può affermare oggi che la politica nei confronti della migrazione, prevalentemente italiana negli anni del secondo dopoguerra, introdusse un regime democratico di facciata, umano e giusto per gli svizzeri, ma anche una specie di Apartheid. Stagionali senza diritti di residenza, obbligati a nascondere la famiglia, sicurezza sociale parziale […], nessuna cittadinanza politica, anzi interdizione di organizzarsi politicamente in quanto stranieri, privilegio degli svizzeri sul mercato del lavoro. Queste erano solo le discriminazioni legali. A ciò si aggiunse un regime di sfruttamento fino all’esaurimento dei lavoratori e delle lavoratrici nell’industria e nelle costruzioni […]. In quel periodo, le italiane e gli italiani in Svizzera non furono solo discriminati legalmente e sfruttati nel mercato del lavoro, ma furono anche vittime della xenofobia quotidiana. Ad esempio, venne loro interdetta l’entrata in certi ristoranti quasi a ricordare il tristemente famoso “Juden werden nicht bedient” (gli ebrei non vengono serviti). Innumerevoli sono i racconti del disprezzo vissuto dagli italiani in Svizzera e Mattmark fu l’ennesimo schiaffo […]».
Questa citazione, ridotta per motivi di spazio, illustra bene ciò che un buono storico non dovrebbe fare, ossia utilizzare «concetti» attuali per giudicare una realtà del passato, in cui verosimilmente vigevano altri concetti o quantomeno avevano connotazioni diverse, e generalizzare casi poco omogenei o comunque non univoci, oltretutto senza tener conto del contesto.
A parte i richiami dell’Apartheid o peggio degli ebrei discriminati nei locali pubblici, che trovo del tutto fuori luogo e fuorvianti in riferimento agli immigrati italiani, ritengo infondate e perciò arbitrarie molte delle affermazioni riferite agli stagionali. Per sostenere che lo statuto dello stagionale era discriminatorio bisognerebbe infatti provare che violasse qualche legge svizzera o qualche accordo internazionale. Questo però non risulta, visto che era sicuramente conforme al diritto svizzero e anche al diritto internazionale. Del resto gli stessi stagionali, firmando liberamente il contratto di lavoro, venivano a conoscenza e accettavano tutte le limitazioni ch’esso comportava. Nessun immigrato era obbligato a sottoscriverlo, a prescindere dal fatto che le autorità diplomatiche e consolari, specialmente nel caso degli italiani, vigilavano sulla conformità del contratto alle leggi e agli accordi bilaterali sottoscritti. Al riguardo, le eccezioni che pure vi sono state, non fanno che confermare la regola.
Quanto poi alle affermazioni sulla presunta privazione di alcuni diritti, basterebbe rileggersi le leggi e le ordinanze dell’epoca per rendersi conto quanto siano infondate. Lo statuto dello stagionale non dava infatti diritto alla residenza (se s’intende con questo termine il domicilio), né al ricongiungimento familiare, né
alla cittadinanza politica (che significa?), ecc. Perché dunque gli autori dell’articolo parlano di «discriminazioni legali» al riguardo? Che dire poi quando essi affermano che gli stagionali erano «obbligati a nascondere la famiglia», senza dire chi li obbligava e senza ricordare che in punto di diritto nessuno straniero poteva risiedere in Svizzera senza autorizzazione? Questo lo sapevano anche gli stagionali. Che il fenomeno dei «bambini clandestini» sia stato molto triste per chi l’ha subito è innegabile, addossarne la responsabilità a una sola parte, in termini di discriminazione, mi pare demagogico.
Demagogico è anche parlare di «sfruttamento fino all’esaurimento», senza ricordare che molto spesso erano gli stessi lavoratori immigrati che si autosfruttavano preferendo il lavoro a cottimo, chiedendo di fare gli straordinari e persino praticando il doppio lavoro. La verità, quando si vuol dirla, la si dovrebbe dire tutta.
Tali esempi mi servono, in questo contesto, per dare l’idea di ciò che non intendo fare nei prossimi articoli, nella convinzione che per il rispetto che si deve al lettore sia preferibile fornire elementi utili per giudicare piuttosto che emettere giudizi azzardati e contestabili. Meglio attenersi ai fatti. Oltretutto un po’ di modestia non guasta mai! (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 30.09.2015