12 giugno 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 17. Propaganda comunista inutile, anzi dannosa



L’anticomunismo, in Svizzera, si era particolarmente accentuato durante la seconda guerra mondiale e nella seconda metà degli anni ’50, specialmente dopo la repressione della rivolta ungherese da parte dell’Unione Sovietica (1956), che aveva indignato profondamente l’opinione pubblica e allarmato gli ambienti economici e le autorità. Nel 1957, il presidente dell’Unione Sindacale Svizzera, Arthur Steiner, nel corso di una manifestazione per il 1° maggio auspicò l’espulsione dei comunisti dai sindacati. Per paura di scioperi e disordini nelle fabbriche gli imprenditori non esitavano a segnalare alle autorità i sospettati di propaganda comunista. L’ostilità verso gli attivisti stranieri (allora soprattutto italiani) considerati al servizio del comunismo sovietico divenne palpabile.

Esagerazioni? Comprensibili!
La propaganda del PCI era invisa alle autorità e all'opinione pubblica.
Oggi, alla luce di quanto emerso dopo la scoperta (1989) dello scandalo della schedatura
sistematica dei principali esponenti della sinistra non solo comunista ma anche socialista e sindacale, è facile sostenere che la paura dell’infiltrazione comunista fosse eccessiva, che fosse ingiustificato l’atteggiamento sospettoso e inquisitorio della polizia federale nei confronti degli attivisti comunisti italiani, che la loro capacità destabilizzante nella società e nelle fabbriche fosse esagerata, che fosse grottesco scambiare gli innocui incontri di molti italiani di Berna alla stazione principale per «cospirazioni politiche», che gran parte delle espulsioni fossero sproporzionate, ecc.
Con la stessa facilità si può tuttavia sostenere che la raccolta sistematica d’informazioni riguardanti gli «schedati» non fu solo una conseguenza del clima della «guerra fredda», ma corrispondeva a quel sentimento anticomunista diffuso in molti strati della popolazione svizzera, nelle chiese e nei sindacati, alimentato dal timore (per quanto infondato) di una sovversione comunista soprattutto attraverso gli immigrati italiani, allora in forte crescita, considerati grossolanamente «tutti comunisti» e perciò pericolosi.
L’anticomunismo svizzero era alimentato pure dalle notizie di stampa e dai racconti di rifugiati politici e semplici immigrati provenienti dai Paesi dell’est, che parlavano di misfatti, epurazioni, repressioni di ogni richiesta di maggiore libertà nei Paesi sotto il controllo dell’Unione Sovietica. Dalle autorità federali e dalla stampa di destra non veniva nemmeno sottovalutata la pericolosità del Partito comunista italiano, considerato il più influente e il meglio organizzato dopo quello sovietico.
Per capire la situazione, si può anche aggiungere che l’atteggiamento anticomunista non era tipico solo degli svizzeri, ma era diffuso in gran parte dei Paesi dell’Europa occidentale, Italia compresa. Era sicuramente presente anche in molti immigrati italiani. Del resto, la raccolta di così tante informazioni su connazionali di sinistra (spostamenti, partecipazioni a cortei, riunioni più o meno segrete, frequentazioni di personaggi e di luoghi «sospetti», ecc.) non poteva dipendere solo dalla bravura investigativa degli agenti svizzeri, ma anche dalla collaborazione di comuni cittadini, vicini di casa, colleghi di lavoro, anche italiani, e persino di attivisti disposti a fare qualche nome sotto minaccia o in cambio di chi sa quali garanzie.
Contrasti e lotte d’influenza all’interno dell’associazionismo
Bisogna inoltre ricordare che, finita la guerra, non solo gli antifascisti di sinistra (che nel 1943 avevano fondato la Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera - FCLIS) - ma anche i fuorusciti democristiani (che agli inizi del 1945 avevano costituito il «Partito democratico cristiano italiano in Svizzera» - Pdc) cercarono di attrarre dalla loro parte le organizzazioni italiane esistenti che cominciavano a liberarsi del fardello fascista.
Per decenni le autorità federali hanno controllato l'attività
politica (comunista) degli italiani in Svizzera (DoDiS 4183)
Le intenzioni degli uni e degli altri miravano al rafforzamento dei rispettivi partiti di riferimento in Italia, ritenendo che i cittadini italiani emigrati «temporaneamente» all’estero prima o poi sarebbero rientrati e che anche il loro voto sarebbe stato utile. Almeno inizialmente le grandi organizzazione del dopoguerra, compresa la FCLIS, erano orientate all’Italia, mancando allora totalmente la prospettiva di un’emigrazione definitiva in Svizzera e quindi la necessità di un sostegno durevole all’integrazione degli immigrati. Solo lentamente, dagli anni Sessanta, dietro la spinta delle seconde generazioni, buona parte delle associazioni si rese conto di dover cambiare orientamento e di occuparsi prevalentemente dei bisogni attuali degli immigrati
Poiché in Italia, nel dopoguerra, i due partiti principali erano la Democrazia cristiana (DC) e il Partito comunista italiano (PCI) sostenuto per un certo periodo anche dai socialisti, in Svizzera la lotta d’influenza si restrinse di fatto ai due partiti maggiori, che cercarono di attrarre nella propria area le associazioni più influenti, la FCLIS, le Case d’Italia (con le numeSocietà Dante Alighieri, le associazioni che gravitavano attorno alle Missioni cattoliche italiane (MCI) e poi, negli anni Sessanta, i patronati, i gruppi sindacali italiani, ecc. Solo le MCI e poche altre associazioni (sportive, assistenziali, filodrammatiche, musicali, ecc.) riuscirono a mantenere la loro indipendenza di giudizio.

La FCLIS ambita e contestata
In questa lotta per l’egemonia tra PCI e DC la preda più ambita, ma anche la più osteggiata, era la FCLIS, l’associazione più estesa e meglio organizzata della Svizzera.
Pur essendo formalmente apartitica e aconfessionale, era chiaramente orientata a sinistra e per questo osservata con sospetto non solo dal Pdc (che definiva le Colonie libere «prevalentemente comuniste, socialiste o anarchiche»), ma anche dalle autorità italiane (che la consideravano manipolata dai comunisti), dai sindacati svizzeri (che ne disapprovavano i metodi di lotta ritenuti incompatibili con la tradizione sindacale svizzera), dai datori di lavoro (che vedevano in molti suoi dirigenti pericolosi sobillatori), dalle chiese e specialmente dalle MCI (che si sentivano spesso ingiustamente attaccate), ma soprattutto dalle autorità svizzere (che la ritenevano controllata dal PCI).
Bisogna anche ricordare che molte associazioni sopravvissute al fascismo non vedevano di buon grado che la FCLIS aspirasse a divenire l’unica rappresentante degli immigrati italiani in Svizzera, escludendo, per esempio, le MCI da ogni processo decisionale.
Per le autorità svizzere, tuttavia, l’associazione rispettava nei suoi statuti e nella sua organizzazione la costituzione e le leggi svizzere, per cui non si tentò mai di attaccarla in quanto tale. Vennero invece controllati, schedati e talvolta espulsi suoi dirigenti non in quanto «comunisti» d’opinione, ma in quanto «propagandisti» comunisti.

Conseguenze pesanti
Le conseguenze di questa lotta d’influenza pesarono moltissimo sull’evoluzione dell’immigrazione italiana in Svizzera negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Si pensi, per esempio, alla frammentazione dell’associazionismo italiano che ne derivò, al suo indebolimento nell’analisi e nelle proposte di soluzione dei problemi dell’immigrazione italiana, al ritardo con cui si giunse alla creazione (1970) di una piattaforma d’intesa per i rapporti con le autorità italiane e, in parte, con le autorità svizzere, alla contrastata gestione dei problemi scolastici dei figli degli immigrati italiani, all’esclusione di una rappresentanza degli immigrati nelle trattative italo-svizzere, ecc.
I danni maggiori furono indiretti. L’atteggiamento fortemente contestatore e rivendicativo del PCI riuscì a influenzare la FCLIS, danneggiandola, perché contribuì a gettare sull’associazione, pur meritevole di tante attività di sostegno agli immigrati nei campi dell’assistenza, della scuola, della formazione professionale, della cultura, un’ombra di sospetto su tutto quello che faceva o intendeva fare.
Quest’ombra non favorì la comprensione e il sostegno dei sindacati, delle chiese, delle autorità sia svizzere che italiane ovunque la controparte svizzera risultava fondamentale. Nessuna rivendicazione «politica» fu mai portata avanti con successo al di fuori dei canali della diplomazia e degli accordi bilaterali. Soprattutto le autorità svizzere ritenevano fondamentale in ogni rivendicazione importante il carattere dell’ufficialità. Il sospetto d’ingerenze comuniste era oltremodo dissuadente.
Quanto fosse ritenuta inutile e dannosa la propaganda comunista, sia nel campo svizzero che nel campo italiano, lo dimostra la nascita del CISAP (Centro italo-svizzero di formazione professionale). Nella prima metà degli anni Sessanta i corsi di formazione professionale organizzati con successo dalla Colonia libera italiana di Berna non avrebbero potuto svilupparsi ulteriormente senza il contributo finanziario della Confederazione e questo, in quel momento, non sarebbe stato accordato per paura che favorisse soprattutto il PCI.
Perché il CISAP potesse sorgere e sviluppare l’attività di formazione professionale in un vero e proprio centro e con sufficienti garanzie pubbliche e private fu necessario lo «strappo» degli iniziatori del Centro dalla CLI e l’incontro collaborativo di tutte le parti interessate: autorità italiane e svizzere, sindacati e datori di lavoro, scuole professionali e ambienti dell’immigrazione. Grazie a questo incontro ha potuto diventare per alcuni decenni un modello di sinergie italo-svizzere nel settore della formazione professionale e dell’integrazione. (Segue)
Giovanni Longu
Berna 12 giugno 2019