L’anticomunismo, in Svizzera, si era particolarmente
accentuato durante la seconda guerra mondiale e nella seconda metà degli anni
’50, specialmente dopo la repressione della rivolta ungherese da parte
dell’Unione Sovietica (1956), che aveva indignato profondamente l’opinione
pubblica e allarmato gli ambienti economici e le autorità. Nel 1957, il presidente
dell’Unione Sindacale Svizzera, Arthur Steiner, nel corso di una manifestazione
per il 1° maggio auspicò l’espulsione dei comunisti dai sindacati. Per paura di
scioperi e disordini nelle fabbriche gli imprenditori non esitavano a segnalare
alle autorità i sospettati di propaganda comunista. L’ostilità verso gli
attivisti stranieri (allora soprattutto italiani) considerati al servizio del
comunismo sovietico divenne palpabile.
Esagerazioni? Comprensibili!
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La propaganda del PCI era invisa alle autorità e
all'opinione pubblica. |
Con la stessa facilità si può tuttavia sostenere che la
raccolta sistematica d’informazioni riguardanti gli «schedati» non fu solo una
conseguenza del clima della «guerra fredda», ma corrispondeva a quel sentimento
anticomunista diffuso in molti strati della popolazione svizzera, nelle chiese
e nei sindacati, alimentato dal timore (per quanto infondato) di una
sovversione comunista soprattutto attraverso gli immigrati italiani, allora in
forte crescita, considerati grossolanamente «tutti comunisti» e perciò
pericolosi.
L’anticomunismo svizzero era alimentato pure dalle notizie
di stampa e dai racconti di rifugiati politici e semplici immigrati provenienti
dai Paesi dell’est, che parlavano di misfatti, epurazioni, repressioni di ogni richiesta
di maggiore libertà nei Paesi sotto il controllo dell’Unione Sovietica. Dalle
autorità federali e dalla stampa di destra non veniva nemmeno sottovalutata la
pericolosità del Partito comunista italiano, considerato il più
influente e il meglio organizzato dopo quello sovietico.
Per capire la situazione, si può anche aggiungere che
l’atteggiamento anticomunista non era tipico solo degli svizzeri, ma era
diffuso in gran parte dei Paesi dell’Europa occidentale, Italia compresa. Era
sicuramente presente anche in molti immigrati italiani. Del resto, la raccolta
di così tante informazioni su connazionali di sinistra (spostamenti,
partecipazioni a cortei, riunioni più o meno segrete, frequentazioni di
personaggi e di luoghi «sospetti», ecc.) non poteva dipendere solo dalla
bravura investigativa degli agenti svizzeri, ma anche dalla collaborazione di
comuni cittadini, vicini di casa, colleghi di lavoro, anche italiani, e persino
di attivisti disposti a fare qualche nome sotto minaccia o in cambio di chi sa
quali garanzie.
Contrasti e lotte d’influenza all’interno
dell’associazionismo
Bisogna inoltre ricordare che, finita la guerra, non solo
gli antifascisti di sinistra (che nel 1943 avevano fondato la Federazione
delle Colonie Libere Italiane in Svizzera - FCLIS) - ma anche i fuorusciti
democristiani (che agli inizi del 1945 avevano costituito il «Partito
democratico cristiano italiano in Svizzera» - Pdc) cercarono di attrarre
dalla loro parte le organizzazioni italiane esistenti che cominciavano a
liberarsi del fardello fascista.
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Per decenni le autorità federali hanno controllato l'attività politica (comunista) degli italiani in Svizzera (DoDiS 4183) |
Poiché in Italia, nel dopoguerra, i due partiti principali
erano la Democrazia cristiana (DC) e il Partito comunista italiano (PCI)
sostenuto per un certo periodo anche dai socialisti, in Svizzera la lotta d’influenza
si restrinse di fatto ai due partiti maggiori, che cercarono di attrarre nella
propria area le associazioni più influenti, la FCLIS, le Case d’Italia (con le
numeSocietà Dante Alighieri, le
associazioni che gravitavano attorno alle Missioni cattoliche italiane (MCI) e
poi, negli anni Sessanta, i patronati, i gruppi sindacali italiani, ecc. Solo
le MCI e poche altre associazioni (sportive, assistenziali, filodrammatiche,
musicali, ecc.) riuscirono a mantenere la loro indipendenza di giudizio.
La FCLIS ambita e contestata
In questa lotta per l’egemonia tra PCI e DC la preda più
ambita, ma anche la più osteggiata, era la FCLIS, l’associazione più estesa e
meglio organizzata della Svizzera.
Pur essendo formalmente apartitica e aconfessionale, era chiaramente orientata a sinistra e per questo osservata con sospetto non solo dal Pdc (che definiva le Colonie libere «prevalentemente comuniste, socialiste o anarchiche»), ma anche dalle autorità italiane (che la consideravano manipolata dai comunisti), dai sindacati svizzeri (che ne disapprovavano i metodi di lotta ritenuti incompatibili con la tradizione sindacale svizzera), dai datori di lavoro (che vedevano in molti suoi dirigenti pericolosi sobillatori), dalle chiese e specialmente dalle MCI (che si sentivano spesso ingiustamente attaccate), ma soprattutto dalle autorità svizzere (che la ritenevano controllata dal PCI).
Pur essendo formalmente apartitica e aconfessionale, era chiaramente orientata a sinistra e per questo osservata con sospetto non solo dal Pdc (che definiva le Colonie libere «prevalentemente comuniste, socialiste o anarchiche»), ma anche dalle autorità italiane (che la consideravano manipolata dai comunisti), dai sindacati svizzeri (che ne disapprovavano i metodi di lotta ritenuti incompatibili con la tradizione sindacale svizzera), dai datori di lavoro (che vedevano in molti suoi dirigenti pericolosi sobillatori), dalle chiese e specialmente dalle MCI (che si sentivano spesso ingiustamente attaccate), ma soprattutto dalle autorità svizzere (che la ritenevano controllata dal PCI).
Bisogna anche ricordare che molte associazioni sopravvissute
al fascismo non vedevano di buon grado che la FCLIS aspirasse a divenire
l’unica rappresentante degli immigrati italiani in Svizzera, escludendo, per
esempio, le MCI da ogni processo decisionale.
Per le autorità svizzere, tuttavia, l’associazione
rispettava nei suoi statuti e nella sua organizzazione la costituzione e le
leggi svizzere, per cui non si tentò mai di attaccarla in quanto tale. Vennero
invece controllati, schedati e talvolta espulsi suoi dirigenti non in quanto
«comunisti» d’opinione, ma in quanto «propagandisti» comunisti.
Conseguenze pesanti
Le conseguenze di questa lotta d’influenza pesarono
moltissimo sull’evoluzione dell’immigrazione italiana in Svizzera negli anni
Sessanta e Settanta del secolo scorso. Si pensi, per esempio, alla
frammentazione dell’associazionismo italiano che ne derivò, al suo
indebolimento nell’analisi e nelle proposte di soluzione dei problemi
dell’immigrazione italiana, al ritardo con cui si giunse alla creazione (1970)
di una piattaforma d’intesa per i rapporti con le autorità italiane e, in parte,
con le autorità svizzere, alla contrastata gestione dei problemi scolastici dei
figli degli immigrati italiani, all’esclusione di una rappresentanza degli
immigrati nelle trattative italo-svizzere, ecc.
I danni maggiori furono indiretti. L’atteggiamento
fortemente contestatore e rivendicativo del PCI riuscì a influenzare la FCLIS,
danneggiandola, perché contribuì a gettare sull’associazione, pur meritevole di
tante attività di sostegno agli immigrati nei campi dell’assistenza, della
scuola, della formazione professionale, della cultura, un’ombra di sospetto su
tutto quello che faceva o intendeva fare.
Quest’ombra non favorì la comprensione e il sostegno dei
sindacati, delle chiese, delle autorità sia svizzere che italiane ovunque la
controparte svizzera risultava fondamentale. Nessuna rivendicazione «politica»
fu mai portata avanti con successo al di fuori dei canali della diplomazia e
degli accordi bilaterali. Soprattutto le autorità svizzere ritenevano
fondamentale in ogni rivendicazione importante il carattere dell’ufficialità.
Il sospetto d’ingerenze comuniste era oltremodo dissuadente.
Quanto fosse ritenuta inutile e dannosa la propaganda
comunista, sia nel campo svizzero che nel campo italiano, lo dimostra la
nascita del CISAP (Centro italo-svizzero di formazione professionale).
Nella prima metà degli anni Sessanta i corsi di formazione professionale organizzati
con successo dalla Colonia libera italiana di Berna non avrebbero potuto
svilupparsi ulteriormente senza il contributo finanziario della Confederazione
e questo, in quel momento, non sarebbe stato accordato per paura che favorisse
soprattutto il PCI.
Perché il CISAP potesse sorgere e sviluppare l’attività di
formazione professionale in un vero e proprio centro e con sufficienti garanzie
pubbliche e private fu necessario lo «strappo» degli iniziatori del Centro
dalla CLI e l’incontro collaborativo di tutte le parti interessate: autorità
italiane e svizzere, sindacati e datori di lavoro, scuole professionali e
ambienti dell’immigrazione. Grazie a questo incontro ha potuto diventare per
alcuni decenni un modello di sinergie italo-svizzere nel settore della
formazione professionale e dell’integrazione. (Segue)
Giovanni Longu
Berna 12 giugno 2019
Berna 12 giugno 2019