L’articolo precedente
ha evidenziato l’impegno della Svizzera e dell’Italia a facilitare
l’integrazione dei cittadini italiani immigrati e dei loro figli (seconda generazione)
attraverso gli strumenti della formazione scolastica generale e della
formazione tecnico-professionale. Poiché per costatarne l’effettiva riuscita su
vasta scala si dovettero attendere gli anni Novanta, è lecito chiedersi il
perché di una così lunga attesa. Oltre alle ragioni già preconizzate dalla
delegazione svizzera nel 1972 nel corso di una riunione della Commissione mista
italo-svizzera prevista dall'Accordo del 1964 (cfr. articolo precedente), negli
anni Settanta e Ottanta ce n’erano evidentemente anche altre, che meritano
alcune considerazioni che saranno sviluppate in questo e nei prossimi articoli.
Partenza svantaggiata per gli stranieri
Anni '70 e '80: il sogno di molti italiani era diventare automeccanici! |
Del resto, per molti
immigrati italiani il concetto stesso di «formazione professionale» era molto
vago. Non si conosceva la procedura per attivare un contratto di apprendistato,
non si comprendeva perché l’apprendimento di un mestiere richiedesse
tre-quattro anni di teoria e di pratica, non si sapeva valutare quanto valesse
una qualifica professionale rispetto a un titolo di studio a parità di anni di
formazione, spesso non si comprendeva perché un lavoratore qualificato dovesse
guadagnare più di uno senza qualifica anche se molto bravo, non si conoscevano
le possibili specializzazioni successive, ecc.
Per quanto si possa e
persino si debba ritenere logica e coerente la politica seguita dal Consiglio
federale e condivisa dalle autorità italiane sull'integrazione della seconda
generazione, non si può dimenticare che in gran parte della collettività
italiana degli anni Settanta mancava l’interesse. Probabilmente nessun
immigrato era venuto in Svizzera per stabilirvisi e addirittura mettere al
mondo figli che avrebbero potuto considerare questo Paese come la loro patria.
Secondo numerose inchieste, quasi tutti gli immigrati del secondo dopoguerra si ritenevano e si comportavano come italiani provvisoriamente
all'estero. Perché dunque investire tanto tempo e denaro per imparare un
mestiere da esercitare in Svizzera, senza sapere se eventualmente sarebbe stato
possibile esercitarlo anche in Italia?
Campo di scelta limitato
Sicuramente anche a
qualche svizzero la scelta del mestiere da imparare deve aver posto qualche
problema, ma mentre gli svizzeri erano generalmente ben supportati dalla
famiglia e dal servizio di orientamento professionale ufficiale, gli stranieri
ne erano in gran parte privi. Quanto agli orientatori professionali, bisogna
dire che non erano stati preparati per consigliare adeguatamente giovani
stranieri con problematiche particolari di tipo scolastico e psicologico.
Spesso non riuscivano a superare la correlazione tra prestazioni scolastiche e
reali possibilità di apprendimento e di riuscita dei richiedenti, anche se
molto motivati, per cui questi venivano spesso indirizzati su professioni non desiderate
ad esigenze medio-basse.
Va aggiunto che gli
immigrati italiani allora erano concentrati in pochissimi rami economici
(metalmeccanica, costruzioni, turismo e ristorazione, commercio, riparazione
autoveicoli e pochi altri) per cui non avevano una visione sufficientemente
ampia del mercato del lavoro globale per prospettare ai loro figli professioni
anche in altri rami. Così, mentre per i giovani svizzeri l’offerta era molto
ampia, per i giovani italiani era alquanto ristretta. Se le preferenze degli svizzeri
si concentravano su una ventina di professioni, per gli italiani la scelta era
limitata a meno della metà e concerneva per lo più, ad eccezione di alcune
professioni (per es. meccanica e automeccanica), mestieri il cui apprendistato
durava meno di 4 anni con livelli di qualifica medio-bassi (per es. muratore,
installatore d’impianti sanitari, parrucchiere, venditore, cuoco, servizi
domestici e di cura).
Si può inoltre
osservare che alcune scelte degli italiani venivano fatte in funzione della
possibilità di esercitare la professione in modo autonomo e, soprattutto negli
anni Settanta e Ottanta, si limitavano praticamente a due campi l’edilizia (per
diventare imbianchini, piastrellisti, gessisti, ecc.) e l'automeccanica (per
poter un domani avviare un’attività autonoma in un proprio garage). (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 22.12.2021