04 settembre 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 24. Schwarzenbach e gli italiani (prima parte)


La parabola dell’immigrazione di massa degli italiani in Svizzera, iniziata in crescendo alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1970 ha rischiato di concludersi nel peggiore dei modi, con la cacciata di un gran numero di italiani qui residenti ritenuti di troppo. Chiamati per consentire all’economia svizzera di svilupparsi, sul finire degli anni Sessanta vennero presi di mira quali elementi inquinanti del mercato del lavoro e della cultura della Svizzera. A lanciare la più pericolosa iniziativa popolare contro gli stranieri (allora soprattutto italiani) fu il politico nazionalista James Schwarzenbach, la persona più detestata dagli immigrati italiani. La situazione, le reazioni, quell’iniziativa e quel personaggio meritano alcuni chiarimenti per comprendere meglio l’immigrazione italiana in Svizzera nel periodo in esame (1950-1970) e la svolta avvenuta proprio a cavallo di quell’anno cerniera.

La situazione degli italiani

Gli anni tra il 1950 e il 1970 furono caratterizzati in Svizzera da uno straordinario sviluppo economico, basato soprattutto sull’aumento della manodopera straniera piuttosto che sull’innovazione tecnologica. In vent’anni il numero di stranieri residenti stabilmente (esclusi dunque gli stagionali e i frontalieri) era quasi quadruplicato, passando da 285.446 a 1.080.076. Nello stesso periodo l’incremento degli italiani residenti era stato ancora maggiore, essendo passati da 140.280 a 583.855.
Per evitare un accrescimento incontrollato degli stranieri residenti, dal dopoguerra il maggior numero dei nuovi permessi di lavoro rilasciati aveva un carattere stagionale. Anche gli stagionali erano in gran parte italiani (1950: 31.568, 1960: 128.725, 1970: 80.770). Nel 1964, nel mese di agosto, su oltre 200.000 stagionali oltre 170.000 erano italiani; l’anno precedente erano oltre 175.000. Nel 1965, nel solo Cantone di Zurigo risultavano 85.120 lavoratori italiani sottoposti a controllo (annuali, stagionali, frontalieri); nel Cantone di Berna ce n’erano 48.259 e nel Ticino 47.881.
Il boom economico richiamava ogni anno decine di migliaia di lavoratori stranieri, nonostante le misure restrittive introdotte dalle autorità federali (percentuali massime di stranieri per azienda, contingenti, ecc.). Benché i nuovi arrivati fossero soprattutto stagionali, che non venivano conteggiati tra la popolazione residente, questa non faceva che aumentare sia per il numero crescente di trasformazioni dei permessi stagionali in permessi annuali che per l’arrivo di nuovi immigrati titolari di un permesso di soggiorno annuale, ma anche per i numerosi ricongiungimenti familiari, divenuti più facili dalla metà degli anni Sessanta, e per l’incremento naturale (i nati italiani negli anni Sessanta sono stati oltre 157.000; cfr. http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2019/08/immigrazione-italiana-1950-1970-22-la.html).
Il continuo aumento della popolazione residente totale (svizzeri e stranieri) era evidente, com’era evidente il crescente fabbisogno di nuove abitazioni, scuole, chiese, centri commerciali, ospedali, strade, centrali elettriche, ecc. D’altra parte era facile individuarne la causa nella crescita degli stranieri (1950: 285.446, 1960: 584 739, 1970: 1.080. 076) e specialmente degli italiani (1950: 140.280, 1960: 346.223; 1970: 583.855). Se nel 1950 la popolazione straniera residente stabilmente (quindi esclusi gli stagionali e i frontalieri) rappresentava il 6,1% della popolazione residente totale, vent’anni dopo ne costituiva il 17,2%. 

Reazioni politiche e sindacali
Fin verso la fine degli anni Cinquanta i lavoratori italiani, pur non essendo particolarmente graditi, erano accettati e riconosciuti utili, talvolta indispensabili, per lo sviluppo dell’economia svizzera. Con l’arrivo incessante di immigrati specialmente dal Sud Italia e l’aumento della popolazione residente straniera, crebbe tra la popolazione svizzera un’avversione istintiva dapprima soprattutto verso gli italiani, in seguito in generale verso gli stranieri, considerati pericolosi per gli equilibri sociali della Svizzera.
Questa situazione cominciò ben presto ad allarmare i sindacati svizzeri, preoccupati per una sorta di dipendenza che si stava delineando tra l’economia svizzera e la manodopera straniera ritenuta in alcuni ambienti addirittura indispensabile, ma soprattutto per la perturbazione del mercato del lavoro che sembrava obbligare i lavoratori svizzeri ad una concorrenza impossibile, sul piano occupazionale e soprattutto salariale, con i lavoratori stranieri. Specialmente in alcuni ambienti operai del settore secondario diveniva sempre più palpabile e generava frequenti proteste e manifestazioni pubbliche. I sindacati non potevano ignorarle.

Per una riduzione del numero dei lavoratori stranieri
Willi Ritschard
Tra i primi a reagire politicamente fu il sindacalista (Federazione svizzera dei lavoratori edili e del legno, oggi Sindacato edilizia e legno SEL) e consigliere nazionale socialista Willi Ritschard (1918-1983), che diventerà più tardi consigliere federale. Insoddisfatto della politica del Consiglio federale in materia d’immigrazione e osservando il deterioramento dei rapporti tra lavoratori indigeni e stranieri, il 21 giugno 1962 chiese al Consiglio federale con un postulato la riduzione del numero dei lavoratori stranieri.
In campo politico-sindacale fu tuttavia soprattutto il consigliere nazionale socialista di Berna Ernst Wüthrich (1905-1978), presidente del maggiore sindacato di categoria affiliato all’Unione sindacale svizzera, la Federazione degli operai metallurgici e degli orologiai (FOMO), ad intervenire con forza sulla politica immigratoria del Consiglio federale. Era preoccupato, oltre che delle tensioni già presenti nei posti di lavoro tra svizzeri e stranieri, dei possibili conflitti sociali che avrebbero potuto scatenare le paure e l’odio che stavano diffondendo i movimenti xenofobi verso gli stranieri.
Ernst Wüthrich
Wüthrich era anche preoccupato del futuro dell’economia esposta più che mai al rischio del venir meno dei lavoratori italiani qualificati, che trovavano sempre più facilmente lavoro in patria o nei Paesi della Comunità Economica Europea. In tal modo sarebbe stata a rischio anche la produttività e la qualità del lavoro non solo a causa della minore qualificazione professionale degli ultimi arrivati, ma anche perché il cospicuo ricorso alla manodopera estera invogliava molti svizzeri qualificati «a lasciare l’officina per gli uffici o per lavori tecnici».
In occasione del Congresso del sindacato, tenuto a Zurigo nel settembre 1963, Wüthrich affrontò direttamente il tema della forte presenza straniera, «una delle ragioni che più assillano i capi del movimento operaio svizzero» e che suscitava in molti svizzeri tedeschi forte preoccupazione. Del resto, osservava il sindacalista, «ci si può chiedere se sia normale e sano il fatto che la Svizzera non sia più in grado di alimentare il suo apparato produttivo senza ricorrere - e per di più in misura imponente - alla mano d'opera d'altri Paesi».
Messo sotto pressione da più parti, il 1° marzo 1963 il Consiglio federale intervenne con un decreto, valido un anno, per limitare l’ammissione di lavoratori stranieri entro il livello della manodopera estera raggiunto nel dicembre 1962. In effetti il numero dei nuovi permessi accordati scese a 445.000 (ossia quasi 11.000 in meno del 1962). L’esito però fu ritenuto un po’ da tutti insoddisfacente.
Due anni più tardi, nel 1965, intervenne sulla questione del numero di lavoratori stranieri occorrenti all’economia svizzera un altro grande rappresentante della politica e del sindacato, Ezio Canonica (1922-1978), segretariato centrale della Federazione svizzera dei lavoratori edili e del legno. Fece notare al Consiglio federale che la Commissione di studio incaricata dal governo di esaminare il problema della mano d'opera estera era «giunta alla conclusione che, nel 1970, il fabbisogno dell'economia svizzera potrebbe variare tra un minimo di 350.000 e un massimo di 910.000 lavoratori stranieri». E aggiungeva: «Non vogliamo essere né troppo ottimisti né troppo pessimisti, per cui, escludendo questi due dati estremi, crediamo di collocare il numero delle forze di lavoro straniere occorrenti in futuro tra i 500.000 e i 600.000».

James Schwarzenbach
Interventi del Consiglio federale
Il Consiglio federale ascoltava, prendeva nota, si dichiarava persino d’accordo con le richieste di Willi Ritschard e interveniva, nei limiti dei suoi poteri, per frenare l’incremento incessante degli stranieri (fissando ogni anno tetti massimi di nuovi immigrati). Purtroppo non vi riusciva, perché la manodopera estera serviva, era indispensabile all’economia e in quel momento gli interessi dell’economia prevalevano su quelli della politica. I sindacati continuavano a sperare e non potevano certo dichiarare guerra agli industriali con i quali aveva firmato la «pace del lavoro» nel 1937.
James Schwarzenbach (1911-1994), abile politico di estrema destra, riteneva invece che occorresse invertire le priorità, ridando alla politica la preminenza che le spetta quale espressione della volontà popolare e frenando, democraticamente, lo sconsiderato sviluppo dell’economia finalizzata al profitto. E, come si vedrà in seguito, cercherà di riuscirvi. (Segue).
Giovanni Longu
Berna, 4.9.2019