La parabola dell’immigrazione di massa degli italiani in Svizzera, iniziata
in crescendo alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1970 ha rischiato di
concludersi nel peggiore dei modi, con la cacciata di un gran numero di
italiani qui residenti ritenuti di troppo. Chiamati per consentire all’economia
svizzera di svilupparsi, sul finire degli anni Sessanta vennero presi di mira
quali elementi inquinanti del mercato del lavoro e della cultura della
Svizzera. A lanciare la più pericolosa iniziativa popolare contro gli stranieri
(allora soprattutto italiani) fu il politico nazionalista James
Schwarzenbach, la persona più detestata dagli immigrati italiani. La
situazione, le reazioni, quell’iniziativa e quel personaggio meritano alcuni
chiarimenti per comprendere meglio l’immigrazione italiana in Svizzera nel
periodo in esame (1950-1970) e la svolta avvenuta proprio a cavallo di
quell’anno cerniera.
La situazione degli italiani

Gli anni tra il 1950 e il 1970 furono caratterizzati in
Svizzera da uno straordinario sviluppo economico, basato soprattutto
sull’aumento della manodopera straniera piuttosto che sull’innovazione
tecnologica. In vent’anni il numero di stranieri residenti stabilmente (esclusi
dunque gli stagionali e i frontalieri) era quasi quadruplicato, passando da 285.446
a 1.080.076. Nello stesso periodo l’incremento degli italiani residenti era
stato ancora maggiore, essendo passati da 140.280 a 583.855.
Per evitare un accrescimento incontrollato degli stranieri
residenti, dal dopoguerra il maggior numero dei nuovi permessi di lavoro rilasciati
aveva un carattere stagionale. Anche gli stagionali erano in gran parte
italiani (1950: 31.568, 1960: 128.725, 1970: 80.770). Nel 1964, nel mese di
agosto, su oltre 200.000 stagionali oltre 170.000 erano italiani; l’anno
precedente erano oltre 175.000. Nel 1965, nel solo Cantone di Zurigo
risultavano 85.120 lavoratori italiani sottoposti a controllo (annuali,
stagionali, frontalieri); nel Cantone di Berna ce n’erano 48.259 e nel Ticino
47.881.
Il boom economico richiamava ogni anno decine di migliaia
di lavoratori stranieri, nonostante le misure restrittive introdotte dalle
autorità federali (percentuali massime di stranieri per azienda, contingenti,
ecc.). Benché i nuovi arrivati fossero soprattutto stagionali, che non venivano
conteggiati tra la popolazione residente, questa non faceva che aumentare sia
per il numero crescente di trasformazioni dei permessi stagionali in permessi
annuali che per l’arrivo di nuovi immigrati titolari di un permesso di
soggiorno annuale, ma anche per i numerosi ricongiungimenti familiari, divenuti
più facili dalla metà degli anni Sessanta, e per l’incremento naturale (i
nati italiani negli anni Sessanta sono stati oltre 157.000; cfr. http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2019/08/immigrazione-italiana-1950-1970-22-la.html).
Il continuo aumento della popolazione residente totale
(svizzeri e stranieri) era evidente, com’era evidente il crescente fabbisogno
di nuove abitazioni, scuole, chiese, centri commerciali, ospedali, strade,
centrali elettriche, ecc. D’altra parte era facile individuarne la causa nella
crescita degli stranieri (1950: 285.446, 1960: 584 739, 1970: 1.080. 076) e
specialmente degli italiani (1950: 140.280, 1960: 346.223; 1970: 583.855). Se nel
1950 la popolazione straniera residente stabilmente (quindi esclusi gli
stagionali e i frontalieri) rappresentava il 6,1% della popolazione
residente totale, vent’anni dopo ne costituiva il 17,2%.
Reazioni politiche e sindacali
Fin verso la fine degli
anni Cinquanta i lavoratori italiani, pur non essendo particolarmente graditi,
erano accettati e riconosciuti utili, talvolta indispensabili, per lo sviluppo
dell’economia svizzera. Con l’arrivo incessante di immigrati specialmente dal Sud
Italia e l’aumento della popolazione residente straniera, crebbe tra la
popolazione svizzera un’avversione istintiva dapprima soprattutto verso gli
italiani, in seguito in generale verso gli stranieri, considerati pericolosi
per gli equilibri sociali della Svizzera.
Questa situazione cominciò ben presto ad allarmare i sindacati
svizzeri, preoccupati per una sorta di dipendenza che si stava
delineando tra l’economia svizzera e la manodopera straniera ritenuta in alcuni
ambienti addirittura indispensabile, ma soprattutto per la perturbazione del
mercato del lavoro che sembrava obbligare i lavoratori svizzeri ad una
concorrenza impossibile, sul piano occupazionale e soprattutto salariale, con i
lavoratori stranieri. Specialmente in alcuni ambienti operai del settore
secondario diveniva sempre più palpabile e generava frequenti proteste e
manifestazioni pubbliche. I sindacati non potevano ignorarle.
Per una riduzione del numero dei lavoratori stranieri
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Willi Ritschard |
Tra i primi a reagire politicamente fu il sindacalista (Federazione
svizzera dei lavoratori edili e del legno, oggi Sindacato edilizia e
legno SEL) e consigliere nazionale socialista Willi Ritschard
(1918-1983), che diventerà più tardi consigliere federale. Insoddisfatto della
politica del Consiglio federale in materia d’immigrazione e osservando il
deterioramento dei rapporti tra lavoratori indigeni e stranieri, il 21 giugno
1962 chiese al Consiglio federale con un postulato la riduzione del numero dei
lavoratori stranieri.
In campo politico-sindacale fu tuttavia soprattutto il consigliere nazionale
socialista di Berna Ernst Wüthrich (1905-1978), presidente
del maggiore sindacato di categoria affiliato all’Unione sindacale svizzera, la
Federazione degli operai metallurgici e degli orologiai (FOMO), ad
intervenire con forza sulla politica immigratoria del Consiglio federale. Era
preoccupato, oltre che delle tensioni già presenti nei posti di lavoro tra
svizzeri e stranieri, dei possibili conflitti sociali che avrebbero potuto
scatenare le paure e l’odio che stavano diffondendo i movimenti xenofobi verso
gli stranieri.
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Ernst Wüthrich |
Wüthrich era anche preoccupato del futuro dell’economia
esposta più che mai al rischio del venir meno dei lavoratori italiani
qualificati, che trovavano sempre più facilmente lavoro in patria o nei Paesi
della Comunità Economica Europea. In tal modo sarebbe stata a rischio anche la
produttività e la qualità del lavoro non solo a causa della minore
qualificazione professionale degli ultimi arrivati, ma anche perché il cospicuo
ricorso alla manodopera estera invogliava molti svizzeri qualificati «a
lasciare l’officina per gli
uffici o per lavori tecnici».
In occasione del Congresso del sindacato, tenuto a Zurigo
nel settembre 1963, Wüthrich affrontò direttamente il tema della forte presenza
straniera, «una delle ragioni che più assillano i capi del movimento operaio
svizzero» e che suscitava in molti svizzeri tedeschi forte preoccupazione. Del
resto, osservava il sindacalista, «ci si può chiedere se sia normale e sano il
fatto che la Svizzera non sia più in grado di alimentare il suo apparato
produttivo senza ricorrere - e per di più in misura imponente - alla mano
d'opera d'altri Paesi».
Messo sotto pressione da più parti, il 1° marzo 1963 il Consiglio federale
intervenne con un decreto, valido un anno, per limitare l’ammissione di
lavoratori stranieri entro il livello della manodopera estera raggiunto nel
dicembre 1962. In effetti il numero dei nuovi permessi accordati scese a 445.000
(ossia quasi 11.000 in meno del 1962). L’esito però fu ritenuto un po’ da tutti
insoddisfacente.

Il Consiglio federale ascoltava, prendeva nota, si
dichiarava persino d’accordo con le richieste di Willi Ritschard e interveniva,
nei limiti dei suoi poteri, per frenare l’incremento incessante degli stranieri
(fissando ogni anno tetti massimi di nuovi immigrati). Purtroppo non vi
riusciva, perché la manodopera estera serviva, era indispensabile all’economia
e in quel momento gli interessi dell’economia prevalevano su quelli della
politica. I sindacati continuavano a sperare e non potevano certo dichiarare
guerra agli industriali con i quali aveva firmato la «pace del lavoro» nel 1937.
James Schwarzenbach (1911-1994), abile politico di
estrema destra, riteneva invece che occorresse invertire le priorità, ridando
alla politica la preminenza che le spetta quale espressione della volontà
popolare e frenando, democraticamente, lo sconsiderato sviluppo dell’economia
finalizzata al profitto. E, come si vedrà in seguito, cercherà di riuscirvi.
(Segue).
Giovanni Longu
Berna, 4.9.2019
Berna, 4.9.2019