Nel 1960 i lavoratori
immigrati rappresentavano oltre il 20% della popolazione attiva, nel 1970 oltre
il 30% e in alcuni rami economici superavano il 50%, ossia una proporzione
considerevole. Nonostante questa massa critica teoricamente rilevante, nel
periodo considerato (1950-1970) il loro «potere contrattuale» è sempre rimasto
quasi nullo. Non riuscivano a partecipare nemmeno alle decisioni riguardanti
l’organizzazione del lavoro, i salari, le garanzie assicurative. La
spiegazione: «perché gli stranieri non avevano una sufficiente rappresentanza
sindacale», è vera, ma insufficiente. Per essere soddisfacente, anche se non
esaustiva, è necessario esaminare la complessa situazione degli immigrati
italiani nei primi decenni del dopoguerra e il loro difficile rapporto con i
sindacati svizzeri.
La situazione
generale

Nell'immaginario collettivo svizzero
l’immigrato era un lavoratore straniero impiegato provvisoriamente in Svizzera,
un lavoratore ospite, un «Gastarbeiter» che prima o poi doveva
tornarsene al proprio Paese. Gli unici diritti che aveva erano quelli previsti
dal contratto di lavoro e dagli accordi internazionali. Ma non aveva i mezzi,
né individualmente né collettivamente, per esigere che almeno quelli fossero
pienamente rispettati.
E’ vero che anche i lavoratori immigrati
avevano la possibilità di ricorrere ai tribunali, ma come potevano preparare un
ricorso e affrontare un giudizio? Si sapeva che i sindacati erano preposti alla
difesa dei diritti dei lavoratori, ma nei loro confronti gli immigrati erano
scettici e perciò poco sindacalizzati. Gli italiani, che costituivano il
gruppo straniero più numeroso, potevano anche riferirsi alle
autorità diplomatiche e consolari e ad alcune organizzazioni di tutela, ma già
contattarle era problematico e un eventuale loro intervento avrebbe richiesto
una documentazione ben circostanziata difficile da fornire.
La situazione lavorativa
La condizione dell’emigrato era
oggettivamente difficile. Del resto non va dimenticato che a quell'epoca
le stesse donne svizzere non avevano ancora il diritto di voto a livello
federale, che sarà loro concesso solo nel 1971. Ma fu
probabilmente un errore fatale non aver aderito in massa ai sindacati. Alle
rivendicazioni degli italiani (parità di trattamento salariale rispetto ai colleghi
svizzeri, garanzia di non essere licenziati per primi in caso di crisi,
migliori condizioni abitative, ricongiungimento familiare, ecc.) difficilmente
avrebbero risposto negativamente, anche tenendo conto che la congiuntura
economica era allora particolarmente favorevole e si reggeva anche grazie al
lavoro degli stranieri.
I sindacati sapevano infatti benissimo che la percentuale
degli stranieri addetti all'industria, allora il settore trainante
dell’economia svizzera, già elevata nel 1960 (24%), nel 1970 aveva raggiunto il
36% e in alcuni rami economici superava il 50%. Nell'industria tessile, per
esempio, la percentuale era poco al di sotto del 50%, ed era particolarmente
alta nella ristorazione (75% dei camerieri) e nel ramo alberghiero (75% delle cameriere),
con punte dell’86% tra il personale ausiliario di cucina. Nelle costruzioni la
percentuale superava il 60% (61% dei muratori, 73% dei manovali).
Nell'industria delle macchine era straniero il 70% dei saldatori. Nella
metallurgia gli stranieri addetti alle fonderie sfioravano il 100%.
La maggior parte (oltre il 60%) di questi stranieri attivi
era rappresentata dagli italiani (1960: 346.223;
1970: 583.855). Sarebbe stato possibile ai sindacati svizzeri non sostenere le
loro rivendicazioni se fossero stati iscritti? Certamente no. Perché, dunque,
non si iscrissero? E perché i sindacati trascurarono a lungo il potenziale di
iscritti stranieri? Perché non si resero conto che la loro adesione andava
favorita fin dagli anni Cinquanta, quando molti italiani che avevano conosciuto
le lotte sindacali del dopoguerra in Italia, si rendevano certamente conto
dell’indispensabile sostegno sindacale per ogni conquista in campo economico e
sociale?
Diffidenza verso i sindacati
Non è facile rispondere a simili domande, ma qualche
spiegazione è doverosa. In alcuni documenti e in alcune narrazioni si dà come
risposta all'esitazione degli italiani ad iscriversi ai sindacati il
proverbiale senso del risparmio dell’emigrato, disposto a privarsi anche di
cose utili ma non necessarie per accumulare il famoso gruzzolo da portarsi a
casa al termine della sua esperienza emigratoria. Si tratta di una risposta
plausibile, ma non sufficiente. Il sindacato, infatti, da molti immigrati era
ritenuto addirittura inutile e di parte, allineato sulle posizioni padronali, poco
interessato alle problematiche dei lavoratori stranieri e propenso a difendere soprattutto
i lavoratori svizzeri.
In realtà i sindacati svizzeri non hanno mai escluso
esplicitamente dai loro interessi i lavoratori stranieri, anzi, come risulta da
un rapporto del 1948, hanno sempre rivendicato ufficialmente di voler
rappresentare gli interessi di tutti i lavoratori. Nel 1966, il settimanale
FOMO della «Federazione degli operai metallurgici e degli orologiai», in un editoriale
intitolato «Fraternità sindacale», lanciava un appello ai militanti per
interessarsi maggiormente della «manodopera ospite». Nella pratica, tuttavia,
agli occhi degli stranieri i sindacati difendevano sempre prioritariamente gli
interessi degli svizzeri.
Del resto, anche quando apparentemente sembravano
preoccupati che gli immigrati potessero assumere contratti di lavoro non
conformi a quelli stabiliti dai contratti collettivi di lavoro (in relazione
soprattutto, al salario minimo, alla durata del lavoro e alle tutele), i
sindacati non facevano che difendere gli interessi degli svizzeri. Volevano
infatti evitare che i lavoratori stranieri venissero usati per comprimere in
generale i salari, anche quelli degli svizzeri.
I sindacati e gli stranieri
L’atteggiamento dei sindacati verso gli stranieri era
giustificato, dal loro punto di vista, perché si sentivano obbligati a
difendere prioritariamente gli interessi degli affiliati e purtroppo gli
stranieri non lo erano perché non pagavano i contributi sindacali. Poiché però
le conquiste sociali andavano a beneficio di tutti, i sindacati cercarono di
far pagare anche a loro un contributo di solidarietà.
Inoltre, dal 1948 (anno del primo accordo italo-svizzero
d’immigrazione) consideravano gli immigrati, in quanto soprattutto stagionali,
meno stabili degli operai svizzeri e pertanto anche meno interessati all’azione
sindacale. E’ probabile che questa considerazione abbia frenato l’attività di
sensibilizzazione e di reclutamento degli stranieri.
E’ possibile ma improbabile che i sindacati svizzeri non si
rendessero conto dell’immagine negativa che trasmettevano agli stranieri,
soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, con le loro scelte di evidente
difesa prioritaria degli interessi degli svizzeri. Perché dunque, al di là
delle affermazioni ufficiali d’interessarsi a tutti, non cercavano almeno di
motivare chiaramente tali scelte? Quando i sindacati dichiaravano di voler
proteggere il mercato del lavoro svizzero proteggendo in primo luogo i propri
membri svizzeri, non si rendevano conto di fare un torto a quella parte
importante costituita dagli stranieri, senza la quale anche l’altra parte
sarebbe crollata?
Quanto ha pesato la paura della Überfremdung?
E’ difficile dare delle risposte certe, ma non si può
escludere che anche nel sindacato si fosse insinuato il pregiudizio che la
minaccia più pericolosa potesse venire da un eccesso d’immigrazione. E’ invece
certo che in alcuni ambienti sindacali si aveva paura che aprendo facilmente le
porte agli stranieri (italiani) si correva il rischio d’infiltrazioni comuniste,
per cui era opportuno tenere gli occhi bene aperti e non sollecitare affatto
un’adesione in massa degli immigrati.
Questi atteggiamenti, facilmente documentabili, spiegano
quanto insistentemente, fin dagli inizi degli anni Sessanta, il sindacato chiedesse
al governo federale d’intervenire per limitare l’immigrazione. Del resto anche
nel linguaggio sindacale degli anni Sessanta è spesso presente il termine Überfremdung, inforestierimento.
Sorge pertanto il
dubbio, a questo punto, se non sarebbe stato più vantaggioso per il sindacato,
negli anni Sessanta, più che lottare contro l'inforestierimento contrastare con
ogni mezzo la xenofobia crescente perché, quella sì, rappresentava un vero
pericolo. Contemporaneamente sarebbe stato certamente utile coinvolgere tutti
gli stranieri già iscritti al sindacato in un’azione determinata e mirata alla
sindacalizzazione del maggior numero possibile d’immigrati, facendo loro
comprendere che la migliore difesa dei propri diritti sociali poteva essere
garantita dal sindacato meglio che da qualunque altra organizzazione.
Solo lentamente,
negli anni Settanta, l’atteggiamento dei sindacati verso gli stranieri
comincerà a mutare radicalmente e anche gli immigrati cominceranno a
partecipare più attivamente alla vita sindacale.
Giovanni Longu
Berna 23.10.2019
Berna 23.10.2019