Nel
1914 un immigrato italiano residente a Zurigo dedicò alla poetessa Ada Negri,
che risiedeva allora anch’essa a Zurigo, una «poesia lirica sull’emigrazione
italiana» intitolata «Le rondinelle». In una nota spiegava che «Rondinelle venivano
chiamati da tanti anni i nostri operai, specialmente i muratori e i manovali,
al loro arrivo in Isvizzera, forse perché arrivano a sciami poche settimane
prima delle rondinelle vere». L’immagine suggestiva delle rondini in arrivo a
primavera rende bene l’idea dell’ingresso in Svizzera di migliaia di stagionali
italiani ai valichi di Briga e Chiasso durante i mesi di marzo e aprile. Il
paragone, però, non va oltre. Alla libertà incontrastata delle rondini di
volare di qui e di là, ignare dei confini degli Stati, per gli stagionali si
contrapponeva infatti la sosta obbligata in stazione per il controllo dei
documenti e il controllo sanitario.
Una visita traumatica
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Stagionali in attesa della visita medica alla frontiera svizzera |
Il
ricordo della visita medica alla frontiera italo-svizzera è rimasto indelebile
nella memoria di moltissimi immigrati del dopoguerra, anche perché era il
primo contatto fisico con gli svizzeri. I resoconti tramandati oralmente o per iscritto si
rassomigliano molto e concordano nel ritenere quella visita medica «disumana», «umiliante».
Leggendoli non si fa fatica a comprendere il senso di frustrazione dei giovani
e soprattutto dei meno giovani, uomini e donne, all’annuncio di mettersi in
fila per la visita medica. Dopo un viaggio tutt’altro che comodo, all’immigrato
che aveva forse sognato di andare in Svizzera per lavorare, risparmiare e
guardare al futuro con fiducia, quello stop alla frontiera dev’essere stato
traumatico.
Un immigrato dell’immediato dopoguerra racconta il repentino
passaggio dal sogno alla delusione tra Domodossola (dov’era giunto «in un treno
composto di carri bestiame» ed era salito su un treno dove «le carrozze erano
vecchie ma pur sempre accoglienti») e Briga. Ricorda: «Sembrava di entrare in
un nuovo mondo e i nostri animi esultavano di gioia e di speranza che purtroppo
sarebbe durata poco. Solo il tragitto Domodossola-Briga. Qui si scende; per
entrare in Svizzera è necessario fare il controllo medico. Forse è una giusta
precauzione presa dalla autorità elvetiche, ma quando fanno entrare nella
baracca adibita allo scopo un nodo prende alla gola e a stento si reprime il
desiderio di tornare indietro. Tutti in fila a spogliarsi nudi, questo è
l’ordine. Entrare nella doccia e lavarsi. All’uscita dalla doccia ti irrorano
tutto il corpo di polvere disinfettante. Si cercano i vestiti: aspettare, sono
nel forno di disinfezione con tutto il contenuto della valigia. Che vergogna,
la nuova biancheria che con grande amore e sacrificio le madri, le spose hanno
procurato è finita nel forno. Ci trattano come se fossimo dei Lanzichenecchi,
portatori di peste anziché uomini portatori di lavoro e quindi di benessere. Si
risale in treno e si parte, ognuno per la propria destinazione…».
Frustrazione e proteste
Il senso di frustrazione provato prima, durante e dopo il
controllo sanitario risulta da gran parte delle testimonianze di quella che un
emigrato ha definito «la famigerata visita medica». E’ comprensibile perché,
sebbene si sapesse che entrando in Svizzera per motivi di lavoro c’era questo
controllo obbligatorio, esso avveniva spesso in condizioni che non tenevano
conto del sentimento di pudore e di intimità di molti interessati.
La visita medica alla frontiera, prevista dall’Accordo di
emigrazione/immigrazione del 1948 (art. 15), suscitava molto malcontento tra
gli interessati. Nel 1961 il ministro del lavoro Fiorentino Sullo ne
chiese la soppressione ritenendola «vessatoria e umiliante», ma la richiesta non
fu accolta. Nell’Accordo di emigrazione/immigrazione del 1964 si preciserà,
tuttavia, che «il controllo sanitario
all’ingresso in Svizzera, richiesto per ragioni di sanità pubblica e nello
stesso interesse dei lavoratori, sarà limitato allo stretto necessario» (art.
14). In effetti la visita sanitaria sarà resa da allora sempre più dignitosa e
accettabile.
Perché un «controllo sanitario»?
Contrariamente a quel che spesso si dice e si scrive, la
visita medica non era finalizzata principalmente a verificare l’idoneità fisica
all’esercizio della professione che gli immigrati andavano a svolgere, ma a
escludere eventuali malattie trasmissibili, specialmente tubercolosi. Essa era
stata introdotta in base alla legge sulle epidemie del 1886. Nel dopoguerra
riguardava inizialmente soprattutto le donne destinate ai servizi domestici e
alberghieri, poi venne generalizzata e finalizzata all’accertamento di malattie
trasmissibili quali la tubercolosi e la sifilide.
Un’altra ragione del controllo medico era di poter
eventualmente accertare che una futura malattia (professionale) era stata
contratta in Svizzera e non importata. Era dunque anche nell’interesse degli
immigrati disporre di questo accertamento d’idoneità in caso di malattia o
d’infortunio. Questo aspetto fu sottolineato anche dall’on. Mario Toros durante
la discussione alla Camera dei deputati per la ratifica dell’Accordo del 1964: «d’ora
in poi … la visita sanitaria prevista dal nuovo accordo potrà suscitare delle
contrarietà in alcuni lavoratori, ma essa darà la possibilità di superare tutte
le difficoltà che sono state incontrate nella soluzione di certi problemi che
interessavano alcuni lavoratori italiani, i quali si trovavano
nell'impossibilità di dimostrare che la malattia era insorta durante la
residenza in Svizzera».
Giovanni Longu
Berna, 17.04.2019