La costruzione della
galleria ferroviaria transalpina sotto il San Gottardo (1872-1882) fu percepita
dagli ambienti del trasporto ferroviario come un successo ripetibile. Progetti
di altre gallerie transalpine erano già pronti o in discussione prima ancora
che entrasse in esercizio quella del Gottardo. La «febbre ferroviaria» si stava
diffondendo in tutta la Svizzera. Il lavoro per minatori, muratori, carpentieri
e manovali italiani sembrava garantito almeno per qualche decennio, perché
senza di loro era impensabile aprire nuovi cantieri di montagna.
Italiani fidati ed
esperti
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Italiani al lavoro nella galleria della Jungfraubahn (1900) |
Durante i brindisi
ufficiali in occasione dei festeggiamenti per l’inaugurazione della galleria e
dell’intera ferrovia del Gottardo da Lucerna a Chiasso, alle maestranze e ai
lavoratori italiani si accennò appena, ma tutti, autorità e imprenditori, sapevano
che senza di essi quell’inaugurazione, in quel moment o e chi sa per quanto
tempo ancora, non ci sarebbe stata. Ed è probabile che anche gli stessi
italiani ne fossero consapevoli, perché proprio durante quei lavori si crearono
intensi legami con le imprese che li avevano ingaggiati. Diversamente non si
spiegherebbe perché molte di esse, chiuso un cantiere, erano pronte ad aprirne
un altro. Evidentemente partecipavano alle gare d’appalto sapendo di poter
contare su squadre di lavoratori italiani bravi e fidati, soprattutto minatori,
carpentieri, muratori, ecc. Del resto il lavoro non mancava.
Tra il 1872 (inizio dei lavori della galleria
del San Gottardo) e il 1914 (scoppio della prima guerra mondiale), la Svizzera
fu pervasa da una specie di febbre
ferroviaria. La Confederazione, i Cantoni, le Città
volevano proprie ferrovie, tranvie, funicolari, ferrovie di montagna. Le
reclamavano il progresso, interessi nazionali e internazionali, i commerci, le
comunicazioni, il turismo e persino il prestigio. Tra il 1872 e il 1914 furono costruiti
migliaia di chilometri di ferrovia e una sessantina di ferrovie di montagna per
migliorare le comunicazioni e a scopo eminentemente turistico e commerciale.
Italiani protagonisti indispensabili
Per la realizzazione di questa densa rete
ferroviaria il contributo dei lavoratori italiani fu determinante. Parteciparono
ai lavori di preparazione e realizzazione decine di migliaia di italiani, sia
come manovali che come operai specializzati. In alcuni cantieri la manodopera
era costituita quasi al 100% da italiani. Nel 1905, anno in cui venne
realizzato il primo censimento delle aziende in Svizzera, oltre la metà (51%)
degli 85.866 lavoratori italiani del settore secondario risultava addetta alla
costruzione delle linee ferroviarie e delle strade. Su poco più di 70.000
addetti a questa attività, gli italiani erano ben 45.321, gli svizzeri poco più
di 20.000, i tedeschi 1960, gli austriaci 1374, i francesi 584..
Dopo la galleria del San
Gottardo (1872-1882), gli italiani furono determinanti per la realizzazione
di tutti gli altri grandi trafori ferroviari: Sempione (1898-1906), Ricken
(1904-1910), Lötschberg (1906-1913), Mont d’Or, tra la Svizzera e
la Francia, (1910-1915), Grenchen-Moutier (1911- 1915), la galleria di
base dell’Hauenstein, tra Trimbach e Tecknau (1912-1916),
ecc.
I lavoratori italiani furono protagonisti
anche nelle costruzioni di gran parte delle ferrovie
di montagna, da quelle più celebri, come la Jungfraubahn (1889-1892) e
la ferrovia retica (1888-1910,
dal 2008 patrimonio mondiale dell’UNESCO) a quelle forse meno famose ma ancora
oggi molto efficienti come la Vitznau-Rigi-Bahn (1869-1871, la prima
ferrovia a cremagliera d’Europa),
la Arth-Rigi-Bahn (1873-1875),
l’Alpnachstad-Pilatus (1886-1889,
la ferrovia a cremagliera più ripida del mondo), la Gornergratbahn
(1896-1898, che collega Zermatt a Gornergrat nella regione
del Monte Rosa), la Brienz-Rothorn (1889-1891), la Furka-Oberalp (1911-1915), ecc.
Riconoscimenti federali
Ben a ragione, anni più tardi nel corso di una
cerimonia celebrativa, l’ex presidente della Confederazione Enrico Celio
poteva affermare: «Né la galleria ferroviaria del San Gottardo nel 1872, né
quella del Sempione (1905), né i ponti riallaccianti i dossi dei valloni nelle
nostre valli, né i diversi manufatti su cui si snodano le nostre strade
ferrate, automobilistiche, del piano ed alpine, né i muraglioni atti a
raccogliere le nostre acque nei bacini delle montagne, né molte opere edili
d’eccezionale o anche di minore consistenza sarebbero state materialmente
realizzate senza l’apporto di lavoro e di sacrificio della mano d’opera
italiana».
Della stessa opinione era anche il consigliere
nazionale ticinese Nello Celio, divenuto poi anche lui Presidente della
Confederazione, che nel 1965 ebbe a dire in Parlamento: «In collaborazione con l'eccellente operaio
svizzero, l'emigrazione italiana ha da noi impresso il marchio alle più grandi
opere, dalle gallerie ferroviarie agli impianti idrici, e le grandi costruzioni
del genio civile non avrebbero visto la luce se umili e meno umili lavoratori
di quella nazione che nei tempi illuminò il mondo con la sua civiltà, non vi
avessero posto mano. Il padronato svizzero non può misconoscere di avere,
grazie alla mano d'opera italiana, risolto il problema della espansione ed i
lavoratori del nostro paese, dopo aver fino a ieri predicato la solidarietà
internazionale, non avranno dimenticato il contributo dell'estero
all'incremento del prodotto sociale di cui essi stessi hanno beneficiato in
larga misura».
Italiani sempre più numerosi
La costruzione della galleria del San
Gottardo aveva inaugurato, per così dire, la grande immigrazione in
Svizzera degli italiani, dapprima principalmente dalle regioni del nord
(Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna), poi anche dal centro e dal sud.
Per la galleria del Sempione furono fatti
arrivare anche dal sud, specialmente dalla Calabria, ritenendo che i
meridionali avrebbero sopportato meglio le alte temperature che si prevedevano
in galleria. Per la costruzione della galleria del Lötschberg, in cui furono
ancora impiegati quasi esclusivamente lavoratori italiani, il 40% proveniva dal
Sud, il 30% dall’Italia centrale e il 27% dal Nord.
Cippo commemorativo e targa (v. sotto) con i nomi delle vittime della sciagura del Lötschberg, nel cimitero di Kandersteg (gl). |
Condizioni di vita e di lavoro pessime
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La targa dedicata "Ai Figli d'Italia Martiri del lavoro per l'unione dei vincoli internazionali nel traforo del Lötschberg..." (gl) |
I salari, inizialmente molto bassi, salirono
in seguito lentamente soprattutto a seguito di lunghi scioperi. Anche le
condizioni abitative dei lavoratori, ancora pessime durante il traforo del
Sempione, migliorarono in seguito con significativi progressi già nei cantieri
per lo scavo del Lötschberg.
Durante la costruzione di queste opere
grandiose del lavoro umano gli italiani pagarono un grande contributo di
sangue. Oltre alle centinaia di morti collegate allo scavo del Gottardo, 67
furono gli operai deceduti durante il traforo del Sempione (ma almeno altri 200
morirono in seguito di pneumoconiosi, un’affezione dei polmoni provocata
dall’inalazione di polvere). Durante i lavori nella galleria del Lötschberg i
morti furono 64, 25 dei quali travolti da un’improvvisa e imprevista (!) massa
di circa 10 mila metri cubi di acqua, fango e detriti che invase la galleria dove
stavano lavorando. 29 italiani (su 30 in tutto) morirono durante la realizzazione
della Jungfraubahn. Complessivamente, tuttavia, gli italiani caduti sul lavoro
in Svizzera furono migliaia.
Può essere illuminante, a questo punto, un
breve dialogo contenuto in un romanzo dello scrittore Bolt già menzionato. Il
romanzo, del 1913, è intitolato «Svizzero» anche in tedesco e racconta la
storia di uno dei pochi svizzeri che lavorarono in galleria insieme agli
italiani. Si chiamava Christen Abplanalp, ma gli italiani lo chiamavano
«Svizzero». Prima di cominciare a lavorare, uno svizzero adulto aveva cercato
invano di dissuaderlo perché ancora minorenne con queste parole: «Senti,
ragazzo, sei quassù fra neve e ghiaccio, è terribilmente pericoloso: non vedi
quanti sono già caduti ed hanno braccia o la testa fasciate? Ci devono essere
uomini che si sacrificano e mettono a repentaglio la loro vita per compiere
un’opera così grandiosa, ma gli italiani sono più abituati di noi». Ma il
ragazzo, nel racconto di Bolt, replicò: «Sono più abituati a morire? Rimango
proprio, non posso cedere».
A distanza di oltre un secolo, il ricordo di
quelle imprese resta affidato unicamente a qualche scritto e a qualche lapide
commemorativa. Raramente se ne ricordano i protagonisti, quasi tutti italiani
rimasti per lo più anonimi, che le realizzarono in condizioni di estrema
durezza. Eppure essi furono, per lo più inconsapevolmente, artefici delle
principali linee ferroviarie di collegamento tra Nord e Sud dell’era moderna.
Giovanni
Longu
Berna, 7.2.2017