Nel primo articolo di questa serie si è accennato alle
difficoltà incontrate da molti giovani della seconda generazione nel processo
d’integrazione e alla conclusione a cui sono giunti alcuni sociologi di
considerare l’integrazione difficilmente raggiungibile e quella generazione una
«Weder-noch-Generation». Nel secondo articolo si è detto che per
osservare risultati apprezzabili si sarebbe dovuto attendere il decennio
successivo rispetto a quello in esame (1991-2000). In realtà, se tra la
popolazione straniera si considera separatamente quella italiana, per questa
già alla fine del decennio la situazione risulta decisamente migliore, sebbene
anche i giovani della seconda generazione abbiano dovuto superare difficoltà
notevoli. Di seguito si vogliono approfondire alcune delle principali
difficoltà incontrate sia da parte svizzera che da parte italiana.
Svizzera Paese d’immigrazione
Col riorientamento della politica immigratoria svizzera
negli anni Settanta, finalizzato alla stabilizzazione e all'integrazione della
popolazione straniera, nessuno allora era in grado di prevedere quando entrambi
gli obiettivi avrebbero potuto essere considerati raggiunti in misura almeno
sufficiente. Prudenzialmente il Consiglio federale parlava quasi sempre solo di
stabilizzazione e non d’integrazione, ritenendo la prima forse più facile da
raggiungere, in base alle competenze federali, rispetto alla seconda, allora di
competenza soprattutto dei Cantoni e dei Comuni, che presentava obiettivamente
maggiori difficoltà.
E’ anche probabile che il Consiglio federale nutrisse
inizialmente qualche dubbio sulla stessa possibilità (almeno in tempi brevi) di
integrare centinaia di migliaia di stranieri. Del resto è sintomatico che fino
al 2000 la Svizzera rifiutasse sistematicamente di considerarsi e di essere
considerata un Paese d’immigrazione,
sebbene fosse del tutto evidente che la crescente
stabilizzazione di una parte considerevole della popolazione straniera avesse trasformato
la Svizzera fin dagli anni Sessanta in un Paese d'immigrazione. Gli stranieri, ormai «domiciliati» nella
stragrande maggioranza, erano divenuti parte integrante della società e
dell'economia e nessuno nutriva dubbi che avrebbe continuato ad aver bisogno di
lavoratori immigrati, a meno che le condizioni economiche non fossero
radicalmente peggiorate. Nel 2000 anche la Confederazione finì per prenderne
atto ufficialmente.
Già all'inizio del
decennio in esame, tuttavia, il Consiglio federale dev'essersi reso conto che
la forte presenza straniera rappresentava per la Svizzera una sfida
particolarmente importante, da cogliere assolutamente: dalla soluzione del
problema dell’integrazione sarebbe dipeso lo sviluppo globale dell’economia e
della società svizzere. L’emarginazione e l’esclusione degli stranieri ne
avrebbero potuto comportare un lento ma inesorabile logoramento del tessuto
sociale, mentre un loro maggior coinvolgimento e la loro integrazione avrebbe
potuto garantire e rafforzare lo sviluppo, la prosperità e la coesione
dell’intera società.
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Mosaico della cupola del Palazzo federale con al centro la croce svizzera e il motto «UNUS PRO OMNIBUS /OMNES PRO UNO» (uno per tutti, tutti per uno) |
Come già ricordato, il
Consiglio federale colse la sfida nel momento in cui decise di passare dagli
aiuti di Stato (utilizzati dalla fine degli anni Sessanta per l’inserimento
degli stranieri nella società elvetica) all'integrazione come «compito politico
dello Stato».
Nel 1991, nel rapporto
già citato (si veda l'articolo precedente) sulla politica in materia di rifugiati e
di stranieri, il Consiglio federale aveva indicato i principi su cui doveva
fondarsi la politica dell’integrazione. Su alcuni di essi merita soffermarsi,
anche per capire quanta difficoltà avrebbe comportato nelle istituzioni e negli
individui tradurli in pratica.
Principi fondamentali dell’integrazione
Trattandosi di una
politica di lungo respiro e dagli effetti sperati molto promettenti, ma che
avrebbe comportato anche notevoli costi, sarebbe stato molto utile poter
disporre da subito di basi legali pertinenti. Dopo la bocciatura della legge sugli
stranieri del 1978, agli inizi degli anni Novanta queste basi mancavano e
crearne delle nuove, specialmente in un Paese federale, avrebbe richiesto molto
tempo. Un’occasione si presentò a metà del decennio quando si dovette
revisionare la legge sullasilo, ma il Consiglio federale riuscì solo a far
inserire nella legge in vigore sugli stranieri un articolo specifico che
autorizzava la Confederazione a cofinanziare progetti d’integrazione.
Purtroppo, per avere una legge organica moderna e poter destinare maggiori
risorse alla politica d’integrazione, si dovrà attendere il 2005. Ciò
nonostante, i principi fondamentali dell’integrazione erano ormai
sufficientemente chiari.
Non c’erano dubbi, per
esempio, che l’integrazione dovesse essere considerata un compito
comune della Confederazione, dei Cantoni e dei Comuni. Per essere efficace, però, doveva
coinvolgere a vario titolo anche un gran numero di istituzioni, organizzazioni
e gruppi di persone, nel presupposto che l’integrazione concerne la società
intera ed «è possibile solo se tutte le sfere sociali collaborano e sono disposte a fornire il loro contributo».
In particolare
dovevano essere coinvolti i partiti politici, le aziende e le associazioni
delle parti sociali, le chiese e le comunità religiose, le associazioni di immigrati, i servizi di consulenza e d'aiuto agli
stranieri, le società
sportive e le associazioni della gioventù, i centri di formazione per stranieri, i media, la
scuola, insomma l’intera società civile.
Un altro principio
fondamentale già emerso negli anni Settanta e Ottanta era quello di dover
considerare l’integrazione sempre più non un processo di «assimilazione»
unilaterale, ma un processo «bilaterale», che coinvolge in ugual misura
indigeni e stranieri, rifugge dagli estremi di una tolleranza assoluta da parte
dei primi e di una subordinazione totale da parte dei secondi e favorisce la
comprensione reciproca, la tolleranza, la collaborazione, le pari opportunità,
la partecipazione e la responsabilità ad ogni livello.
Detto così, il
principio dell’integrazione potrebbe apparire ovvio, ma non lo era certamente
all’inizio degli anni Novanta, quando la disponibilità della popolazione svizzera
a un cambiamento d'opinione sugli stranieri e a grandi trasformazioni sociali
non era affatto scontata. Non è difficile immaginare le inevitabili resistenze
all'idea che gli stranieri dovessero avere in molti campi le stesse opportunità
degli svizzeri, la sicurezza del soggiorno, facilitazioni alla naturalizzazione
e persino l’accesso ai diritti politici.
Anche per queste
ragioni il Consiglio federale sottolineava in quegli anni il particolare ruolo
dei media per la loro possibilità di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla
necessità e sui vantaggi economici e sociali dell’integrazione degli stranieri
e specialmente dei più giovani. Anche alla scuola il Consiglio federale
attribuiva un’importanza decisiva per la riuscita dell’integrazione: essa
rappresentava il luogo più idoneo non solo per superare le difficoltà
linguistiche e scolastiche, ma anche la sede più naturale per la conoscenza e
la socializzazione di tutti i partecipanti.
Difficoltà e responsabilità degli italiani
Quando il Consiglio
federale indicava tra i principi fondamentali la disponibilità delle due parti
coinvolte a considerare l’integrazione un «rapporto bilaterale», lasciava
intendere chiaramente che spettava anche alle istituzioni e ai cittadini
svizzeri partecipare attivamente al processo d’integrazione degli stranieri, ma
ovviamente questi erano i primi ad essere coinvolti. Infatti, sosteneva, «ogni
migrazione è vincolata a determinati adeguamenti e trasformazioni, anche se
conoscenze ed esperienze che accompagnano l'essere umano, in altri termini la
propria cultura, non può semplicemente essere dismessa. In ogni caso devono
però essere riconosciuti il nostro Stato di diritto e le sue norme».
Dovrebbe essere ovvia
una tale disponibilità soprattutto da parte dello straniero che vuole
stabilirsi durevolmente in un Paese e in una società diversa da quella originaria.
Eppure, anche negli anni Novanta, per molti italiani l’idea dell’integrazione
non risultava convincente anche se accuratamente depurata del vecchio concetto
di «assimilazione» e di certi dubbi sulle reali conseguenze culturali e
psicologiche di un inserimento senza riserve nel mondo culturale e sociale
svizzero.
Sugli italiani pesava
anche la tipica (fino ad allora) mentalità dell’emigrante. Se, infatti, la
Confederazione fino al 2000 non era riuscita a prendere ufficialmente atto di
essere diventata già da decenni un Paese d’immigrazione, non si può ignorare
che anche gli stessi immigrati italiani avevano (quasi) sempre considerato la
condizione migratoria come temporanea, provvisoria, escludendo quindi la stessa
possibilità d’integrarsi nel Paese ospite. Purtroppo bisogna aggiungere che
allora ben pochi si fecero carico di diffondere tra gli italiani serenità e
chiarezza e magari sarebbe utile chiedersi perché!
Non deve apparire strano, a questo punto, che nella prima metà degli anni Novanta, anche dopo la certezza di poter conservare la nazionalità italiana, solo poche migliaia di italiani chiesero e ottennero la naturalizzazione. Solo nella seconda metà del decennio si osserverà un aumento significativo.
Giovanni Longu
Berna 13.04.2022