13 aprile 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 03. Integrazione: difficoltà e responsabilità

Nel primo articolo di questa serie si è accennato alle difficoltà incontrate da molti giovani della seconda generazione nel processo d’integrazione e alla conclusione a cui sono giunti alcuni sociologi di considerare l’integrazione difficilmente raggiungibile e quella generazione una «Weder-noch-Generation». Nel secondo articolo si è detto che per osservare risultati apprezzabili si sarebbe dovuto attendere il decennio successivo rispetto a quello in esame (1991-2000). In realtà, se tra la popolazione straniera si considera separatamente quella italiana, per questa già alla fine del decennio la situazione risulta decisamente migliore, sebbene anche i giovani della seconda generazione abbiano dovuto superare difficoltà notevoli. Di seguito si vogliono approfondire alcune delle principali difficoltà incontrate sia da parte svizzera che da parte italiana.

Svizzera Paese d’immigrazione

Col riorientamento della politica immigratoria svizzera negli anni Settanta, finalizzato alla stabilizzazione e all'integrazione della popolazione straniera, nessuno allora era in grado di prevedere quando entrambi gli obiettivi avrebbero potuto essere considerati raggiunti in misura almeno sufficiente. Prudenzialmente il Consiglio federale parlava quasi sempre solo di stabilizzazione e non d’integrazione, ritenendo la prima forse più facile da raggiungere, in base alle competenze federali, rispetto alla seconda, allora di competenza soprattutto dei Cantoni e dei Comuni, che presentava obiettivamente maggiori difficoltà.

E’ anche probabile che il Consiglio federale nutrisse inizialmente qualche dubbio sulla stessa possibilità (almeno in tempi brevi) di integrare centinaia di migliaia di stranieri. Del resto è sintomatico che fino al 2000 la Svizzera rifiutasse sistematicamente di considerarsi e di essere considerata un Paese d’immigrazione, sebbene fosse del tutto evidente che la crescente stabilizzazione di una parte considerevole della popolazione straniera avesse trasformato la Svizzera fin dagli anni Sessanta in un Paese d'immigrazione. Gli stranieri, ormai «domiciliati» nella stragrande maggioranza, erano divenuti parte integrante della società e dell'economia e nessuno nutriva dubbi che avrebbe continuato ad aver bisogno di lavoratori immigrati, a meno che le condizioni economiche non fossero radicalmente peggiorate. Nel 2000 anche la Confederazione finì per prenderne atto ufficialmente.

Già all'inizio del decennio in esame, tuttavia, il Consiglio federale dev'essersi reso conto che la forte presenza straniera rappresentava per la Svizzera una sfida particolarmente importante, da cogliere assolutamente: dalla soluzione del problema dell’integrazione sarebbe dipeso lo sviluppo globale dell’economia e della società svizzere. L’emarginazione e l’esclusione degli stranieri ne avrebbero potuto comportare un lento ma inesorabile logoramento del tessuto sociale, mentre un loro maggior coinvolgimento e la loro integrazione avrebbe potuto garantire e rafforzare lo sviluppo, la prosperità e la coesione dell’intera società.

Mosaico della cupola del Palazzo federale con al centro la croce svizzera e il motto
«UNUS PRO OMNIBUS /OMNES PRO UNO»  (uno per tutti, tutti per uno)

Come già ricordato, il Consiglio federale colse la sfida nel momento in cui decise di passare dagli aiuti di Stato (utilizzati dalla fine degli anni Sessanta per l’inserimento degli stranieri nella società elvetica) all'integrazione come «compito politico dello Stato».

Nel 1991, nel rapporto già citato (si veda l'articolo precedente) sulla politica in materia di rifugiati e di stranieri, il Consiglio federale aveva indicato i principi su cui doveva fondarsi la politica dell’integrazione. Su alcuni di essi merita soffermarsi, anche per capire quanta difficoltà avrebbe comportato nelle istituzioni e negli individui tradurli in pratica.

Principi fondamentali dell’integrazione

Trattandosi di una politica di lungo respiro e dagli effetti sperati molto promettenti, ma che avrebbe comportato anche notevoli costi, sarebbe stato molto utile poter disporre da subito di basi legali pertinenti. Dopo la bocciatura della legge sugli stranieri del 1978, agli inizi degli anni Novanta queste basi mancavano e crearne delle nuove, specialmente in un Paese federale, avrebbe richiesto molto tempo. Un’occasione si presentò a metà del decennio quando si dovette revisionare la legge sullasilo, ma il Consiglio federale riuscì solo a far inserire nella legge in vigore sugli stranieri un articolo specifico che autorizzava la Confederazione a cofinanziare progetti d’integrazione. Purtroppo, per avere una legge organica moderna e poter destinare maggiori risorse alla politica d’integrazione, si dovrà attendere il 2005. Ciò nonostante, i principi fondamentali dell’integrazione erano ormai sufficientemente chiari.

Non c’erano dubbi, per esempio, che l’integrazione dovesse essere considerata un compito comune della Confederazione, dei Cantoni e dei Comuni. Per essere efficace, però, doveva coinvolgere a vario titolo anche un gran numero di istituzioni, organizzazioni e gruppi di persone, nel presupposto che l’integrazione concerne la società intera ed «è possibile solo se tutte le sfere sociali collaborano e sono disposte a fornire il loro contributo».

In particolare dovevano essere coinvolti i partiti politici, le aziende e le associazioni delle parti sociali, le chiese e le comunità religiose, le associazioni di immigrati, i servizi di consulenza e d'aiuto agli stranieri, le società sportive e le associazioni della gioventù, i centri di formazione per stranieri, i media, la scuola, insomma l’intera società civile.

Un altro principio fondamentale già emerso negli anni Settanta e Ottanta era quello di dover considerare l’integrazione sempre più non un processo di «assimilazione» unilaterale, ma un processo «bilaterale», che coinvolge in ugual misura indigeni e stranieri, rifugge dagli estremi di una tolleranza assoluta da parte dei primi e di una subordinazione totale da parte dei secondi e favorisce la comprensione reciproca, la tolleranza, la collaborazione, le pari opportunità, la partecipazione e la responsabilità ad ogni livello.

Detto così, il principio dell’integrazione potrebbe apparire ovvio, ma non lo era certamente all’inizio degli anni Novanta, quando la disponibilità della popolazione svizzera a un cambiamento d'opinione sugli stranieri e a grandi trasformazioni sociali non era affatto scontata. Non è difficile immaginare le inevitabili resistenze all'idea che gli stranieri dovessero avere in molti campi le stesse opportunità degli svizzeri, la sicurezza del soggiorno, facilitazioni alla naturalizzazione e persino l’accesso ai diritti politici.

Anche per queste ragioni il Consiglio federale sottolineava in quegli anni il particolare ruolo dei media per la loro possibilità di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità e sui vantaggi economici e sociali dell’integrazione degli stranieri e specialmente dei più giovani. Anche alla scuola il Consiglio federale attribuiva un’importanza decisiva per la riuscita dell’integrazione: essa rappresentava il luogo più idoneo non solo per superare le difficoltà linguistiche e scolastiche, ma anche la sede più naturale per la conoscenza e la socializzazione di tutti i partecipanti.

Difficoltà e responsabilità degli italiani

Quando il Consiglio federale indicava tra i principi fondamentali la disponibilità delle due parti coinvolte a considerare l’integrazione un «rapporto bilaterale», lasciava intendere chiaramente che spettava anche alle istituzioni e ai cittadini svizzeri partecipare attivamente al processo d’integrazione degli stranieri, ma ovviamente questi erano i primi ad essere coinvolti. Infatti, sosteneva, «ogni migrazione è vincolata a determinati adeguamenti e trasformazioni, anche se conoscenze ed esperienze che accompagnano l'essere umano, in altri termini la propria cultura, non può semplicemente essere dismessa. In ogni caso devono però essere riconosciuti il nostro Stato di diritto e le sue norme».

Dovrebbe essere ovvia una tale disponibilità soprattutto da parte dello straniero che vuole stabilirsi durevolmente in un Paese e in una società diversa da quella originaria. Eppure, anche negli anni Novanta, per molti italiani l’idea dell’integrazione non risultava convincente anche se accuratamente depurata del vecchio concetto di «assimilazione» e di certi dubbi sulle reali conseguenze culturali e psicologiche di un inserimento senza riserve nel mondo culturale e sociale svizzero.

Sugli italiani pesava anche la tipica (fino ad allora) mentalità dell’emigrante. Se, infatti, la Confederazione fino al 2000 non era riuscita a prendere ufficialmente atto di essere diventata già da decenni un Paese d’immigrazione, non si può ignorare che anche gli stessi immigrati italiani avevano (quasi) sempre considerato la condizione migratoria come temporanea, provvisoria, escludendo quindi la stessa possibilità d’integrarsi nel Paese ospite. Purtroppo bisogna aggiungere che allora ben pochi si fecero carico di diffondere tra gli italiani serenità e chiarezza e magari sarebbe utile chiedersi perché!

Non deve apparire strano, a questo punto, che nella prima metà degli anni Novanta, anche dopo la certezza di poter conservare la nazionalità italiana, solo poche migliaia di italiani chiesero e ottennero la naturalizzazione. Solo nella seconda metà del decennio si osserverà un aumento significativo. 

Giovanni Longu
Berna 13.04.2022