26 giugno 2013

Kyenge e il principio di realtà


In Italia il dibattito sulla cittadinanza degli stranieri di seconda generazione continua, purtroppo anche con toni ed espressioni esacerbati e incivili. La legittimità di manifestare liberamente le proprie idee è fuori discussione; ma un confronto civile e democratico non dovrebbe oltrepassare mai i limiti che impone il rispetto delle persone. Per un sano principio di realtà, bisognerebbe tuttavia anche evitare di insistere su temi troppo controversi, per di più senza usare l’accortezza di circoscriverli, definirli e spiegarli. Diversamente le interpretazioni possono trasformarsi facilmente in semplici rifiuti con o senza argomentazioni e in contrapposizioni inconciliabili.

Quanta confusione!
Cecile Kyenge, ministra dell'integrazione
Proprio sulla vaghezza (vera o presunta) della proposta della ministra dell'integrazione Kyenge e sul suo facile fraintendimento (talvolta in malafede?) si fondano, a mio parere, alcune affermazioni di esponenti della Lega Nord, secondo cui lo «jus soli» potrebbe diventare «una potente calamita per l’immigrazione di ogni sorta e indurre molti a credere di poter venire qui da noi per avere una cittadinanza facile». Oppure: «La vera integrazione degli stranieri residenti nel nostro Paese non si ottiene attribuendo la cittadinanza a tutti, svilendola e svendendola, ma a conclusione di un percorso che impone la regolarizzazione, l’accettazione delle nostre regole e leggi, la conoscenza della nostra realtà civile, sociale e culturale, a partire dalla lingua. Va poi tenuto conto della capacità del nostro territorio di accogliere nuovi arrivi».
Senza dire che alcuni esponenti leghisti ne approfittano per introdurre nella discussione elementi che dovrebbero starne fuori, come i motivi economici di cui parla il governatore del Piemonte Roberto Cota (secondo cui «lo jus soli è sbagliato anche per motivi economici, visto che la crisi è molto forte e dobbiamo tutelare la nostra gente») o motivi di ordine pubblico (troppi stranieri).

Priorità all’informazione
Già da queste citazioni tratte da «La Padania» (organo della Lega Nord) si capisce subito quanta confusione regna attorno al tema che si vorrebbe discutere senza conoscerne nemmeno i termini essenziali. Ma anche nell'altro campo favorevole allo «jus soli» la chiarezza difetta, come quando si parla (Piero Fassino, sindaco di Torino) di «cittadinanza civica» (che significa?). Tanto varrebbe suggerire alla ministra dell’integrazione Kyenge di non insistere tanto sulla necessità d’introdurre in Italia lo «jus soli» per garantire la cittadinanza italiana agli stranieri di seconda generazione, quanto piuttosto sulla necessità di porre mano decisamente a una vera politica d’informazione e d’integrazione.
Andrebbe anzitutto precisato che il tema della cittadinanza in discussione non riguarda genericamente gli immigrati stranieri, ma i loro figli nati in Italia. Si deve dire anche chiaramente che la cittadinanza per uno straniero entra in linea di conto solo in collegamento con l’integrazione e non a prescindere da questa. Non avrebbe senso oggi in Italia parlare di cittadinanza concessa agli stranieri senza un minimo di garanzie e anche senza che essa venga esplicitamente richiesta dagli interessati o dai loro genitori. La nascita in Italia potrebbe essere «una» condizione non «la» condizione per l’ottenimento facilitato della cittadinanza.
La ministra Kyenge mi potrebbe obiettare che non intende legare automaticamente la cittadinanza alla nascita in Italia, ma subordinarla anche ad altre condizioni, quali l’integrazione, il rispetto delle leggi, la conoscenza della lingua, ecc. Ma allora, obietterei a mia volta, non sarebbe molto più semplice eliminare dalla discussione l’espressione «jus soli» (che per altro non è univoca, visti i diversi usi che se ne fanno anche solo nei Paesi europei) e concentrarsi maggiormente sulle condizioni richieste per facilitare l’acquisizione della cittadinanza agli stranieri di seconda generazione, escludendo ogni automatismo?
Nella sostanza non cambierebbe nulla, perché lo scopo resta quello di riconoscere «cittadini italiani» gli stranieri nati in Italia da persone straniere immigrate, residenti stabilmente (da un certo numero di anni) e ben integrate nella società italiana. I vantaggi di un cambio di prospettiva e di discorso sarebbero invece numerosi e ne beneficerebbe il clima sociale.

Politica d’integrazione efficace
In questo approccio è tuttavia anche evidente che l’intervento principale dello Stato richiesto in questa prospettiva non è tanto la modifica della legge sulla cittadinanza, ma una legge e strumenti giuridici vincolanti per sviluppare in tutta Italia e non solo in alcune regioni una vera politica d’integrazione degli stranieri.
Non so se la ministra Kyenge dia per scontata l’integrazione degli stranieri di seconda generazione, come sostengono i suoi oppositori, ma ritengo quanto meno giudizioso non dare nulla per scontato su questo terreno. Ho già avuto occasione di ricordare in questa rubrica che Stati di lunga esperienza di politica immigratoria come la Svizzera, da tempo si sono dotati di leggi, ordinanze, linee guida e strumenti vari per realizzare una politica capillare d’integrazione degli stranieri. E poiché la riuscita di una politica si misura solo dai risultati che produce, questo Paese con una percentuale molto alta di stranieri si è dotato anche di un sistema di monitoraggio di 67 «indicatori dell’integrazione della popolazione con passato migratorio».
A questo punto mi verrebbe da chiedere alla ministra dell’integrazione: Signora ministra Kyenge, perché non (ri)comincia la sua crociata dai dati concreti e verificati sugli stranieri e da una politica su scala nazionale che favorisca il riconoscimento pieno della dignità di ogni immigrato, la lotta a ogni forma di discriminazione sociale ed economica, la piena integrazione soprattutto dei giovani della seconda generazione? Vedrà che anche la conquista della cittadinanza facilitata agli stranieri integrati sarà una logica conseguenza.

Giovanni Longu
Berna, 26.06.2013

Letta apre al dialogo italo-svizzero: «è il momento giusto!»


Dopo mesi e anni perduti in attesa di tempi migliori, sembra giunto «il momento giusto» per la ripresa del dialogo italo-svizzero sulla questione fiscale e non solo. Lo ha detto pochi giorni fa il presidente del Consiglio dei ministri italiano Enrico Letta e c’è da augurarsi che alle parole seguano i fatti. Oltre tutto, è specialmente nell’interesse dell’Italia che il dialogo riprenda.

Ottimismo e preoccupazione di Letta
Il Presidente del Consiglio italiano Enrico Letta
Il presidente Enrico Letta ha fatto tale dichiarazione nel corso di un suo intervento alla stampa estera al rientro dal G8, tenutosi nell'Irlanda del Nord, in cui si era parlato della lotta all'evasione e ai «paradisi fiscali» e della necessità di estendere il sistema degli scambi di informazione. Il clima generale del vertice gli era sembrato «molto positivo» per la soluzione delle vertenze tra Stati in materia fiscale.
E’ probabile che dopo il G8 Letta si sia convinto che fosse giunto il «momento giusto» per riprendere la trattativa con la Svizzera. «Sono convinto che con le autorità svizzere ci possano essere intese positive», ha affermato, non solo nel «recupero di risorse», ma anche nell'attuazione di un «sistema di relazioni che consenta di combattere efficacemente i fenomeni dell’evasione e dell’elusione».
Nell'incontro con la stampa, tuttavia, Letta non nascondeva una certa preoccupazione per la situazione delle relazioni tra la Svizzera e gli Stati Uniti, in quanto, proprio mentre al G8 si discuteva di paradisi fiscali, la Svizzera rifiutava un disegno di legge che, secondo il Consiglio federale, avrebbe consentito alle banche elvetiche operanti negli USA di risolvere importanti controversie col fisco americano. Di altro avviso era invece la maggioranza del Consiglio nazionale, che ha bocciato sul nascere quel disegno di legge.
Quanto accaduto a Berna merita una breve spiegazione. Sembra che il fisco americano stia indagando su diverse banche svizzere operanti negli USA sospettate di aver aiutato cittadini americani ad evadere il fisco. Per chiudere la vertenza, le banche indagate dovrebbero fornire alle autorità fiscali americane informazioni su nomi e impiegati di banca e di terzi nonché su conti, flussi bancari, trasferimenti e quant’altro dei presunti evasori fiscali.
Una trasmissione di dati di questo genere e al di fuori di una procedura giudiziaria normale non è però consentita dal diritto svizzero. La settimana scorsa il Parlamento elvetico ha perciò rifiutato un disegno di legge governativo per consentire eccezionalmente la trasmissione delle informazioni richieste dal fisco americano in via del tutto eccezionale, ossia sospendendo per un anno l’applicazione del diritto svizzero.

Un segnale per l’Europa
Non so quanto Letta fosse veramente «preoccupato dalla situazione delle relazioni tra Svizzera e Usa», per altro ritenute «buone» dal ministro dell’economia Johann Schneider-Amman e dal ministro degli Esteri Didier Burkhalter e sicuramente non minacciate dalle controversie tra il fisco americano e alcune banche private elvetiche operanti in America. Ritengo più probabile che il presidente Letta fosse in realtà più preoccupato delle relazioni tra l’Italia e la Svizzera, anche per il ritardo accumulato nel portare a buon fine le diverse trattative e per l’incertezza degli esiti.
Come ho avuto modo di riferire in altre occasioni, la Svizzera sembra ben disposta alla trattativa (anche sullo scambio automatico dei dati), ma non a qualunque costo e senza contropartite. Letta deve averlo capito anche dal comportamento del Parlamento svizzero nella discussione di una legge, quella che i media hanno chiamato «Lex USA», che sembrava più un diktat americano che il risultato di una trattativa.
Molti osservatori hanno interpretato il rifiuto della maggioranza parlamentare come un segnale molto preciso al governo federale di non illudersi di poter concedere e ad altri Paesi, soprattutto europei, di ottenere quanto non è ammesso dal diritto svizzero vigente. Se la Svizzera avesse «ceduto» agli USA, è molto probabile che altri Paesi europei, particolarmente quelli maggiormente indebitati, avrebbero seguito l’esempio degli Stati Uniti. «Coi tempi durissimi che corrono, ha commentato recentemente Moreno Bernasconi sul "Corriere del Ticino", Paesi europei indebitati fino al collo (o chiamati a pagare i debiti altrui) non avrebbero nulla da perdere ad estrarre la colt e a fare lo sceriffo».
Se anche Letta l’ha capito questo mi pare un ottimo punto di partenza per una trattativa che dev'essere finalizzata non solo a sanare il passato (e al recupero delle risorse illegalmente sottratte al fisco italiano), ma soprattutto a rilanciare le relazioni italo-svizzere in tutti i campi, scommettendo sui vantaggi reciproci, sulla vicinanza (non solo geografica) e amicizia e non da ultimo sulla presenza qualificata in Svizzera di oltre mezzo milione di cittadini italiani.

Giovanni Longu
Berna, 26.06.2013