13 aprile 2011

Guerra o pace? Una scelta difficile, ma obbligata!

Nell’antichità le guerre si combattevano e si concludevano con un vincitore e un perdente. I perdenti spesso venivano eliminati almeno come identità nazionale. Tutte le civiltà antiche sono scomparse ad opera dei vincitori. Dal 390 a. C. risuona ancora come una tremenda minaccia l’espressione latina «vae vichtis», guai ai vinti, attribuita a Brenno, capo dei Galli Senoni che avevano invaso Roma.
Oggi non si tende più a sterminare i popoli vinti, semmai i loro regimi, ma le conseguenze delle guerre sono comunque sempre tragiche. La «pace» è ancora quella dei vincitori. E ogniqualvolta l’occidente fa una guerra «esterna» nell’intento di ristabilire la pace, pretende sempre che sia una pace alla maniera occidentale e, spesso, nell’interesse dell’occidente.
La civiltà moderna sta cercando faticosamente di uscire da questa logica di guerra-pace e privilegiare la strada della diplomazia e del compromesso fra tutte le parti interessate. Risulta sempre più difficile «giustificare» la guerra di offesa, anche quando si ammanta di buone intenzioni o addirittura di umanitarismo. Per convenzione internazionale si riesce ancora a giustificare una guerra di difesa per salvaguardare la sovranità di un popolo dall’attacco di un aggressore esterno (come nel caso della Guerra del Golfo del 1991 in seguito all’invasione del Kuwait da parte dell’Irak di Saddam Hussein), ma l’opinione pubblica è sempre più avversa agli interventi militari esterni per risolvere questioni interne. Cresce infatti la consapevolezza che nessun conflitto armato produce automaticamente la pace e la giustizia. Basterebbe ricordare la guerra di Corea, del Vietnam, dei Balcani, dell’Irak, dell’Afghanistan.

L’intervento armato in Libia
Perché nel caso dell’intervento armato contro la Libia di una forte coalizione internazionale la reazione dell’opinione pubblica è stata ed è molto tiepida? Forse perché ritiene sacrosanta l’insurrezione di una parte consistente del popolo libico contro il suo tiranno Gheddafi a tal punto da giustificare un intervento armato internazionale contro di lui e i danni «collaterali» che sta provocando? O forse perché in questo caso le coscienze pacifiste hanno fatto pace con sé stesse sapendo che l’intervento armato è stato autorizzato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e dalla NATO, sotto la spinta di Paesi «democratici» come la Francia e la Gran Bretagna e soprattutto gli Stati Uniti d’America guidati da un presidente premio Nobel per la pace? Non credo che l’opinione pubblica abbia cambiato idea sulla guerra. E’ probabile che non protesti più perché, soprattutto in questo caso, si sente per così dire sotto tutela in quanto a favore dell’intervento militare si sono pronunciati inspiegabilmente tutti i grandi partiti del centro-destra e del centro-sinistra. Contro chi dovrebbe protestare la gente?
L’opinione pubblica sembra piuttosto frastornata, ma questo non significa che non si ponga alcuni interrogativi fondamentali, proprio sul senso dell’intervento militare in Libia. Sono infatti in molti a chiedersi se la guerra era davvero necessaria. Del resto, è credibile che gli interventisti l’abbiano voluta solo per proteggere la popolazione civile? Se così fosse, perché continuano a morire, persino sotto i bombardamenti degli alleati, tanti civili? Ed è credibile che Paesi come gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna e persino l’Italia stiano pensando davvero solo al benessere della popolazione civile libica e non anche, o piuttosto, alle immense risorse petrolifere di quel Paese e alla funzione che la Libia dovrebbe svolgere nella lotta contro l’immigrazione clandestina verso l’occidente?

Interrogativi senza risposta
Di fronte a qualsiasi guerra, ma soprattutto a quella libica in corso, ci si può anche chiedere perché non tutti i Paesi occidentali, per non parlare di quelli asiatici e africani, sono d’accordo sulla decisione dell’intervento militare voluto soprattutto dall’asse Parigi-Londra col coinvolgimento degli Stati Uniti d’America. Questa mancanza di unanimità, al di là delle motivazioni di ciascun Paese non interventista, insospettisce sulle vere ragioni di questa guerra. Se infatti si voleva proteggere il popolo libico (o una parte di esso) dall’oppressione del tiranno Gheddafi, le Nazioni Unite non avrebbero potuto decidere altre misure, compreso il totale embargo commerciale oltre che politico, forme pacifiche di interdizione per Gheddafi e il suo governo, oppure tentare, come anche da più parti auspicato, la mediazione diplomatica?
Ci vorrà del tempo per trovare le risposte vere a queste come ad altre simili domande, ma sono certo che, quando salterà fuori la verità, l’umanità avrà fatto un passo in avanti sulla via della pace sostenibile e dell’abolizione di qualsiasi intervento armato (a parte forse le interposizioni dei caschi blu dell’ONU e i veri interventi umanitari). Allora, forse, anche i Paesi più guerrafondai si renderanno conto che invece d’investire in strumenti di guerra sempre più sofisticati e costosi è preferibile investire sulla scuola e sullo sviluppo economico. Non esistono nella storia dell’umanità dittature in cui le popolazioni erano istruite e avevano sviluppato sistemi economici progrediti.

Poteva l’Italia non partecipare alla guerra in Libia?
Prima di rispondere a questa domanda occorre ricordare che la decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è stata presa a maggioranza, non all’unanimità. Inoltre, quella decisione non obbliga alcuno Stato a partecipare alle operazioni militari, tanto è vero che solo pochi Stati vi partecipano. La Germania, per esempio, non vi partecipa. Anche l’Italia avrebbe potuto non parteciparvi, pur continuando a ritenere giustificato l’anelito della popolazione libica alla democrazia e quindi al cambiamento di regime e al godimento di maggiore libertà. L’Italia avrebbe potuto giustificare la sua non partecipazione invocando la sua lunga storia di rapporti talvolta conflittuali ma anche pacifici e di collaborazione e persino di amicizia con la Libia.
Perché dunque l’Italia è intervenuta? Si dirà che non poteva certo starsene a guardare, tanto più che la Libia dista poche miglia dall’Italia. Ha avuto paura di restare isolata? Paura forse legittima, perché l’Italia non ha certo la forza della Germania, ma non un motivo sufficiente. E’ probabile che la giustificazione più plausibile siano ancora i forti interessi che l’Italia ha in Libia. Ma anche questi interessi, sicuramente legittimi, giustificano da soli la partecipazione dell’Italia ad un’operazione militare contro un Paese fino alla vigilia «amico»? E non poteva almeno tentare una mediazione tra Gheddafi e ribelli?
Le vere ragioni dell’intervento italiano probabilmente non si conosceranno mai. E pertanto non si conoscerà mai neanche perché l’Italia non ha seguito l’esempio della Germania. A questo punto può risultare illuminante il comportamento della Svizzera in una situazione analoga, sia pure lontana nel tempo. Si era nel 1848 e un Paese che si apprestava a lottare per la libertà e l’indipendenza chiese aiuto alla vicina Svizzera. Quel Paese era l’Italia o meglio il Regno di Sardegna che si proponeva di affrancare la popolazione lombarda dal dominio austriaco e successivamente di unificare sotto un’unica bandiera l’intera Italia. Queste idee di libertà e di unità erano ben viste anche in Svizzera, dove i messaggi di Giuseppe Mazzini e di altri patrioti avevano un grande seguito.

La Svizzera preferì la neutralità
Conoscendo l’atteggiamento favorevole degli svizzeri verso i movimenti libertari del momento, un emissario di Carlo Alberto Re di Sardegna propose alla Dieta federale (antesignana dell’Assemblea federale perché mancava ancora una costituzione federale) un’«alleanza offensiva e difensiva» evidentemente in funzione antiaustriaca. La proposta venne discussa nella Dieta e infine respinta in nome della neutralità svizzera, garantita dal Congresso di Vienna del 1815.
Trovo interessanti le motivazioni della risposta inviata al Re di Sardegna il 25 aprile 1848 (cito da uno studio dello storico Emilio Papa): «La Confederazione, fedele alla propria origine e ai propri principi … riconosce in ciascuna nazione il diritto di costituirsi… ha salutato con la più sincera simpatia gli sforzi che i popoli fanno per distruggere le antiche forme dell’assolutismo… Esistono però ragioni interne ed esterne per le quali non è dato alla Confederazione di contrarre, così come proposta, un’alleanza con uno Stato vicino e prendere parte diretta ad una guerra estera».
Il giorno seguente a quella risposta apparve sul quotidiano «Neue Zürcher Zeitung» un articolo in cui l’autore s’interrogava: «Cosa conviene ora alla Svizzera?» La risposta è secca: «Ora evidentemente la neutralità. Per quanto grande sia la nostra simpatia per l’Italia, non potremmo approvare che la piccola Svizzera debba essere il primo Paese straniero che va in aiuto all’Italia. E’ vero, non lo nascondiamo, un nostro intervento arrecherebbe enorme sviluppo al nostro commercio e alle nostre industrie, perché l’Italia è l’unico Paese vicino che ci può offrire vantaggi commerciali senza un proprio svantaggio; siffatti vantaggi ci appaiono tuttavia di meno difficile peso dei pericoli che si collegano ad una tanto audace impresa…».
Il parlamento di Lucerna aveva dato al suo rappresentante alla Dieta fra l’altro queste istruzioni: «soltanto ove sorgesse una guerra di principi e si dovesse scatenare una guerra frontale fra liberalismo e assolutismo, fra civiltà e barbarie; soltanto se un urto fra Europa orientale ed occidentale si dovesse verificare, non dovrebbe allora essere permesso alla Svizzera di tenersi in disparte quale osservatrice disinteressata».
Persino Cavour, in seguito, ebbe parole di comprensione e di stima per la reazione della Svizzera e ritenne un errore il tentativo di Carlo Alberto.

Tornando all’attualità: non so se l’Italia di oggi avrebbe potuto seguire l’esempio della Svizzera del 1848, ma non avrebbe potuto seguire almeno l’esempio della Germania?

Giovanni Longu
Berna, 13 aprile 2011