03 marzo 2021

Immigrazione italiana 1970-1990: 39. Donne in cammino

La Giornata internazionale dei diritti della donna, o Festa della donna, che si celebra ogni anno l'8 marzo, in Svizzera è preceduta abitualmente dalla pubblicazione di dati significativi da parte dell’Ufficio federale di statistica. Il bilancio tracciato quest’anno è in larga parte positivo, ma evidenzia anche alcuni campi in cui le donne sono ancora penalizzate. Si pensi, per esempio, alle disparità salariali tra i sessi, all’aumento della povertà che incide particolarmente sulle donne sole con figli, alla scarsità di donne nel management superiore. Comparativamente alle donne svizzere, si può ritenere ragionevolmente che quelle immigrate si trovino ancor più penalizzate, anche se specialmente le donne italiane residenti da molti anni in questo Paese hanno certamente beneficiato dei progressi compiuti dalle donne svizzere negli ultimi cinquant’anni. E’ spiegabile questo divario?

Le donne immigrate negli anni Settanta e Ottanta

Per rispondere all’interrogativo, è opportuno ricordare che agli inizi degli anni Settanta, quando le donne svizzere avevano da poco ottenuto il diritto di voto a livello federale, la condizione delle donne immigrate (e di quelle italiane in particolare perché ne costituivano la grande maggioranza) era ancor più difficile e penosa. Infatti, come ricordato in un precedente articolo (cfr. L’ECO del 3.2.2021), se per le donne svizzere erano chiari gli obiettivi e i mezzi da mettere in campo per raggiungerli, per le donne immigrate (sia pure con molte eccezioni) non lo erano affatto.

Il divario con gli uomini era dovuto non solo ai noti ostacoli esterni all’immigrazione (xenofobia, incomunicabilità, emarginazione, ecc.), ma anche a una mentalità consolidata e diffusa tra gli immigrati secondo cui i protagonisti dell’emigrazione/immigrazione erano gli uomini e le donne erano subalterne, seguivano le loro orme, li accompagnavano e spesso li servivano. Quando poi ai compagni o ai mariti si aggiungevano figli, difficilmente riuscivano a trovare il tempo per pensare a sé stesse, curare amicizie, studiare, imparare le lingue, apprendere o migliorare una professione, occuparsi di politica, coltivare hobby.

Quella mentalità, purtroppo, si è conservata a lungo e ha ritardato l’avvicinamento delle donne italiane immigrate ai livelli non solo delle donne svizzere, ma anche degli stessi connazionali immigrati. Negli anni Settanta e Ottanta il distacco era notevole in molti campi, salvo nel settore occupazionale, perché le donne immigrate lavoravano addirittura più degli uomini, perché oltre al lavoro che svolgevano in fabbrica o nei laboratori a loro incombeva gran parte dei lavori domestici, educativi e assistenziali.

Si è scritto che le donne immigrate vivevano anche «ai margini dell’associazionismo» ed effettivamente erano sempre poche le donne che partecipavano alle assemblee, prendevano la parola in pubblico, rivestivano funzioni dirigenti. La loro «assenza» non era dovuta solo alla scarsa formazione (circa il 70% di esse aveva solo la licenza elementare), ma anche al fatto che l’associazionismo (ad eccezione di poche associazioni di tipo assistenziale, ecclesiale e simili) e le cariche sociali sembravano prerogative maschili. Molti presidenti di associazioni, ritenendosi forse insostituibili, venivano sistematicamente rieletti (salvo poi a lamentare l’assenza dei giovani e rimproverare le donne che non si facevano avanti).

Difficoltà familiari

Negli anni Settanta e Ottanta vennero realizzate alcune indagini sulle donne immigrate, evidenziandone il disagio, la solitudine, la nostalgia, i rischi di depressione. A risentirne erano in primo luogo le dirette interessate, ma anche la famiglia, che si avviava ormai, sospinta da forze ambientali enormi, a profondi cambiamenti anche tra gli immigrati. Qualche dato potrebbe aiutare a farsi un’idea dell’epoca e dei cambiamenti in corso, tenendo presente che la famiglia era, per le donne immigrate, quanto di più caro potesse esistere.

Ebbene, nel periodo considerato (1970-1990), la trasformazione della famiglia emigrata è stata enorme. Basti pensare alla diminuzione costante del numero dei matrimoni concernenti cittadini italiani (dai 4227 del 1970 ai 3423 del 1990), sia di quelli tra connazionali (dai 2074 del 1969 ai 662 del 1978, anche se seguiti da un leggera ripresa fino ai 930 del 1990) che dei matrimoni misti. Tra questi la diminuzione fu particolarmente accentuata in quelli tra uno svizzero e una donna italiana (dai 1326 celebrati nel 1970 si scese ai 748 del 1990), mentre aumentò leggermente il numero dei matrimoni tra un italiano e una donna svizzera (dai 524 del 1970 ai 748 del 1990).

Nello stesso periodo fu osservato anche un aumento consistente dei divorzi, dapprima piuttosto rari tra gli italiani, per attestarsi nell’ultimo decennio considerato attorno al 30% (e talvolta oltre il 40% nelle coppie tra italiani e donne svizzere). Seguì invece la tendenza generale la diminuzione dei figli sia dentro che fuori del matrimonio.

Pressione psicologica

Il peso psicologico e sociale di questi cambiamenti gravava inesorabilmente soprattutto sulle donne, quasi sempre impreparate a gestire serenamente la «doppia presenza» (spesso «tripla») di persone impegnate nell’attività professionale, nel lavoro domestico e nella cura dei figli, spesso senza grandi soddisfazioni.

Non va infatti dimenticato che negli anni Settanta e Ottanta le soddisfazioni sul lavoro erano scarse (lavoro ripetitivo e guadagno del 30-40%  inferiore a quello degli uomini), il lavoro domestico dopo quello professionale era esigente e poco condiviso, e i figli erano spesso fonte di preoccupazione soprattutto per problemi di apprendimento e di prospettiva professionale.

Molte donne cercarono aiuto e sostegno nelle poche strutture che si occupavano di questi problemi: i comitati dei genitori, i consultori femminili e familiari, alcuni gruppi organizzati dalle Missioni cattoliche o dalle parrocchie, ben sapendo che la responsabilità maggiore ricadeva pur sempre su di loro.

Per questo, molte donne italiane, in una proporzione superiore sia rispetto alle svizzere che alle altre straniere, dichiaravano in alcune inchieste di provare «molto spesso» un sentimento di solitudine e di non avere alcuna persona di fiducia con cui sfogarsi. Molte donne italiane, proporzionalmente più numerose delle svizzere e delle altre donne straniere, soffrivano di disturbi psicosomatici, da cui si libereranno solo lentamente.

Giovani della seconda generazione

Il quadro che deriva da queste rapide osservazioni non riguarda purtroppo solo la prima generazione. Infatti sono coinvolte anche moltissime giovani della seconda generazione, soprattutto se giunte in Svizzera a seguito di raggruppamento familiare dopo aver frequentato in Italia la scuola obbligatoria, ma senza sufficienti conoscenze linguistiche per affrontare la vita sociale e professionale. E’ immaginabile quanta preoccupazione generassero queste lacune nei genitori e soprattutto nelle mamme che sapevano quanto il mondo della professione fosse legato al mondo della scuola e delle conoscenze acquisite.

Di fronte alle difficoltà incontrate da molte giovani italiane qualche critico italiano, superficiale o/e prevenuto, ha creduto di trovare la spiegazione nel sistema scolastico svizzero ritenendolo discriminatorio nei confronti degli stranieri. Falso, anche se non si può escludere che in quell’epoca qualche insegnante fosse xenofobo e che il sistema scolastico svizzero fosse molto selettivo.

Vero, invece, quanto argomentava una ragazza italiana che era riuscita a frequentare con esito positivo il liceo (allora una rarità per i figli di stranieri): «E' ora che ci mettiamo bene in testa che la discriminazione scolastica raramente parte dall'insegnante, ma è invece frutto della condizione stessa dell'emigrato». E proseguiva osservando che il figlio del Gastarbeiter probabilmente non aveva alcuno stimolo a proseguire gli studi e nessuno lo motivava almeno a tentare «perché egli proviene da una famiglia di emigrati di livello culturale generalmente assai basso e che perciò raramente evocherà nel ragazzo la passione per lo studio. Inoltre la famiglia si trova in Svizzera per lavorare e soprattutto per guadagnare. La mentalità del lavoro-guadagno si protrarrà anche sul figlio che quasi mai prenderà seriamente in considerazione uno studio che lo terrà impegnato fino a 26, 27 anni. In questo caso l'unica discriminazione fatta da parte dell'insegnante non consiste nell'ostacolare il ragazzo, ma nel non incoraggiarlo in maniera particolare, elencandogli le prospettive future e cercando di convincere i genitori a prendersi l'onere di finanziare dei suoi progetti. Ma si può parlare di discriminazione, se egli si comporta così anche nei confronti dei suoi allievi svizzeri?».

Proseguire il cammino

Oggi molti di questi problemi sono superati e la Svizzera, specialmente nel confronto con i Paesi limitrofi, è messa relativamente bene soprattutto per quanto riguarda il tasso di donne attive occupate, la quota di donne tra gli studenti universitari e la quota di donne nel parlamento nazionale. Resta ancora molto da fare per superare i divari salariali e la loro presenza nelle direzioni di imprese e uffici. L’importante è proseguire il cammino di conquista senza mai arrendersi. E per le donne immigrate? Anche per esse occorre costanza nel percorrere la stessa strada. Meglio, tuttavia, se percorsa insieme: donne e uomini svizzeri con donne e uomini stranieri.

Giovanni Longu
Berna 03.03.2021