Tra il 1872 e il 1914, la Svizzera ha messo a punto una
delle reti ferroviarie più fitte d’Europa per un’economia (industria, commercio
e turismo) tra le più sviluppate del mondo e una popolazione in rapida crescita.
Non avrebbe potuto realizzarla senza il contributo determinante degli immigrati
provenienti dai Paesi confinanti, dapprima soprattutto tedeschi, austriaci e
francesi (che costruirono insieme ai lavoratori svizzeri le principali linee
ferroviarie nord-occidentali e sull'altopiano), poi anche italiani (per la
costruzione delle grandi linee nord-sud e delle gallerie sotto le Alpi e il
Giura. Fu un’esperienza difficile, per alcuni «eroica», per altri (talvolta) «tragica»,
che merita comunque di essere ricordata.
Italiani apprezzati e in aumento
Gli italiani cominciarono ad immigrare in Svizzera per motivi di lavoro già prima dell’unità d’Italia, anche se il censimento federale della popolazione del 1860 registrò solo 13.828 «italiani» (senza i savoiardi). Aumentarono tuttavia in fretta perché erano già 41.645 (senza gli stagionali) nel 1880, 117.059 nel 1900 e ben 202.809 nel 1910 (ma probabilmente erano compresi anche i lavoratori delle infrastrutture ferroviarie che, sebbene stagionali, restavano in Svizzera tutto l’anno addirittura con l’intera famiglia). Questa tendenza, che sembrava irreversibile, fu interrotta dallo scoppio della prima guerra mondiale per riprendersi solo dopo la seconda guerra mondiale.In questa prima epoca dell’immigrazione italiana in Svizzera, gli italiani erano attivi soprattutto in alcuni settori dell’industria (tessile, costruzioni), dell’artigianato (come falegnami, scalpellini, ecc.) e dell’agricoltura (boscaioli, carbonai), poi divennero protagonisti assoluti nella realizzazione dei grandi tunnel ferroviari. La loro presenza non era casuale né del tutto spontanea, ma richiesta per la loro esperienza, per compensare la carenza cronica di manodopera svizzera (perché molti preferivano emigrare piuttosto che lavorare in fabbrica o in galleria) e straniera (tedeschi, francesi e austriaci non svolgevano solitamente lavori rischiosi e pesanti) e non da ultimo perché certe attività richiedevano molta manodopera.
Per la quantità e la qualità del lavoro svolto, gli italiani erano molto apprezzati dai datori di lavoro, tanto da essere preferiti, talvolta, agli svizzeri, contribuendo ad accentuare sul finire del secolo il divario tra indigeni e stranieri, soprattutto italiani. In almeno due occasioni si sfiorò la tragedia, una a Berna nel 1893 (Käfigturmkrawall) e un’altra volta a Zurigo nel 1896 (Italienerkrawall). Il conflitto sociale, come si vedrà meglio nel prossimo articolo, tenderà ad aggravarsi proprio all'inizio del nuovo secolo, senza che la Confederazione avesse strumenti adatti per intervenire.«Eroi» o «vittime»?
Quando sotto la spinta di interessi nazionali e internazionali nella seconda metà dell’Ottocento fu decisa la costruzione della prima ferrovia transalpina con la galleria del San Gottardo, il ricorso alla manodopera italiana fu massiccio (e lo sarà ancora per quasi tutte le altre: Sempione, Ricken, Lötschberg, Mont d'Or, Grenchen-Moutier, Hauenstein, Jungfraubahn, ecc.). Secondo alcuni studiosi si trattò di un’esperienza «eroica» (perché venne realizzata in condizioni difficili un'opera gigantesca), secondo chi scrive fu soprattutto un’esperienza «tragica» perché gli operai italiani erano vittime non solo delle condizioni miserevoli del Paese da cui fuggivano, ma anche del Paese in cui rischiavano continuamente la vita.
Per rendersene conto basta rievocare alcuni fatti,
ricordando anzitutto che allora la Confederazione aveva pochi poteri in materia,
perché la competenza principale l’avevano i Cantoni e la costruzione e
l’esercizio delle ferrovie erano in mano a imprese private, guidate da
interessi di profitto.
Condizioni disumane
Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro nel traforo del San Gottardo (Airolo) |
Per la galleria del Gottardo era stata fondata appositamente la Compagnia ferroviaria del Gottardo, che dopo aver raccolto dagli Stati interessati (Italia, Germania, Svizzera) il finanziamento ritenuto/presunto necessario lasciò vincere l’appalto all'imprenditore ginevrino Louis Favre (1826-1879), che aveva fatto l’offerta più vantaggiosa e s’impegnava a realizzare l’opera entro otto anni dall'inizio dei lavori (settembre-ottobre 1872) per la somma complessiva di 56 milioni di franchi (che risulterà molto presto assolutamente insufficiente).
Poiché le operazioni non andarono come sperato, l’impresa rischiò
il fallimento. Per evitarlo, gli stessi Stati garantirono un ulteriore
finanziamento, ma Favre si vide costretto a risparmiare su tutto, persino sulle
paghe degli operai e sulle misure d’igiene e di sicurezza essenziali,
alimentando nei lavoratori un’ondata di reclami e un forte senso di ribellione,
anche perché in galleria gli infortuni anche gravi erano frequenti, l’aria che
si respirava era appestata dai gas provocati dalle esplosioni della dinamite, la
temperatura era elevata (sui 30°), il pericolo diffuso.
Alcuni operai reagirono abbandonando il lavoro senza
permesso (Göschenen 28 luglio 1875), ma ad attenderli fuori della galleria
c’era un drappello di militari di Uri che non esitò a sparare uccidendone
quattro. Il fatto creò sconcerto nell'opinione pubblica e nelle organizzazioni
dei lavoratori e la stessa Confederazione intervenne inviando sul posto il commissario
federale, Hans Hold. Nel suo rapporto non poté fare a meno di costatare «le
condizioni pietose», l’ambiente «estremamente insalubre» e le condizioni
igieniche «del tutto insufficienti» in cui erano costretti a vivere e a
lavorare migliaia di persone, sollecitando rimedi radicali. Tarderanno ad
arrivare, ma la situazione dopo il 1875 cominciò a migliorare.
Giovanni Longu
Berna 12.02.2025