La senatrice a vita Liliana Segre è una
sopravvissuta all’Olocausto. A fine novembre il Corriere del Ticino le hadedicato un «primo piano», in cui lei ricorda
con grande precisione quando, appena tredicenne, fu respinta insieme a suo
padre Alberto e a due altre persone ad Arzo (Ticino) da un funzionario svizzero-tedesco
(!) perché li riteneva «imbroglioni» non credendo che succedesse «qualcosa di
brutto agli ebrei in Italia». Inutili le suppliche, i richiedenti l’asilo
furono respinti e riaccompagnati al posto di confine dov’erano entrati «illegalmente»
in Svizzera. Subito arrestati dai soldati italiani, due di essi morirono
tragicamente in prigione, mentre i Segre furono in seguito deportati: lui morì
ad Auschwitz, lei è sopravvissuta ed è un’instancabile testimone della Shoah.
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Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz |
Tempi difficili
Il racconto della Segre è triste, ma pacato, «senza
mai parlare di odio nei confronti di nessuno», anche se «il ricordo della
Svizzera è atroce» e non è disposta a perdonare quel funzionario non perché era
«sprezzante» nei loro confronti, ma «perché col suo atteggiamento ha condannato
a morte tre persone».
Ho riletto più volte la testimonianza della Segre
perché l’ultima frase citata, molto toccante e comprensibile sul piano umano,
non mi convince sul piano della ricerca storica. Quasi quarant’anni fa ho
scritto sull’Olocausto un lungo articolo sui numerosi ebrei respinti dalla
Svizzera. L’avevo intitolato «anche qui ne mandarono parecchi all’inferno»
(Incontri n.6/7 giugno 1979) e riferivo, fra l’altro, delle
responsabilità del governo federale, che almeno dalla seconda metà del 1942
sapeva dello sterminio sistematico degli ebrei e, pur di non accoglierli, aveva
inventato la scusa che la barca era piena.
Da allora ho cercato di approfondire la questione
dell’atteggiamento della Svizzera e degli svizzeri verso gli ebrei, ritenendo
che solo attraverso una sufficiente documentazione (libri, filmati, documenti
diplomatici, testimonianze, visite ad alcuni campi di concentramento/sterminio,
ecc.) si riesce a «capirlo». Sottoscrivo ancora oggi il contenuto di
quell’articolo, ma cambierei il titolo anche se proviene da una citazione ed
espressioni simili hanno giustificazioni plausibili. Oggi non ritengo che si
possa spiegare e comprendere la storia attribuendo responsabilità immediate a
singole persone, soprattutto se semplici esecutori di decisioni superiori.
Il periodo della seconda guerra mondiale è stato
per la Svizzera probabilmente il periodo più difficile della sua storia, perché
ha creduto (e in questi casi è sufficiente «credere» anche senza prove) di
dover difendere non il suo benessere, non la sua neutralità, non i suoi confini
e nemmeno una parte della sua popolazione, ma la sua stessa esistenza. La
Svizzera, forse per la prima volta, ha avuto «paura» di scomparire in seguito
alla travolgente avanzata delle truppe tedesche dei primi anni di guerra e fu
soprattutto la paura a mettere d’accordo tutti, romandi e svizzero-tedeschi,
italofoni e ladini, attorno alla difesa della patria ad ogni costo.
I costi della sopravvivenza
Si sa che i costi,
anche per la popolazione svizzera, sono stati enormi. Uno di essi, che è pesato
a lungo sulla coscienza di molti svizzeri, è legato alla chiusura delle
frontiere, alla selezione di chi poteva entrare e al respingimento di chi non
doveva entrare, alla sottomissione, in qualche misura, alle potenze che
avrebbero potuto stritolarla, dopo il completo accerchiamento (1942).

Il respingimento dei Segre alla fine del 1943 fu
uno dei tanti avvenuti fino a quel momento, quando le istruzioni per la
sorveglianza della frontiera erano molto rigide, addirittura spietate nei
confronti degli ebrei, spesso senza margini d’interpretazione per i funzionari
periferici chiamati ad osservarle. Solo Berna avrebbe potuto cambiarle, ma il
Consiglio federale si trovava, fino all’inizio del 1944, nell’incapacità o
nell’impossibilità di farlo per non irritare i potenti vicini ed esporsi a
facili rappresaglie.
Svizzera circondata e dipendente

Perciò il 13 giugno 1940 il generale Guisan aveva dato l’ordine
che non venisse diramato l'allarme per violazioni non importanti dello spazio
aereo e il 20 giugno aveva ordinato la fine della «protezione della neutralità
dello spazio aereo». E in flagrante contravvenzione alla neutralità tutti i
piloti tedeschi internati in Svizzera dall'inizio della guerra e gli aerei
costretti ad atterrare furono riconsegnati (mentre 158 aerei americani e oltre
1.000 piloti restarono invece in Svizzera fino alla fine della guerra).
La stampa libera, nonostante la censura imposta l'8 settembre 1939,
cominciava a parlare sempre più spesso di cedimenti e di allineamento da parte
del Consiglio federale al «nuovo ordine» in Europa. La Svizzera si sentiva
impotente di fronte al colosso germanico da cui dipendeva in larga misura per
la fornitura delle materie prime e dei generi alimentari.
«La barca è piena», gli ebrei vanno respinti
Di fronte
all'accerchiamento della Svizzera da parte delle potenze dell'Asse la
Commissione per la difesa nazionale e lo stato maggiore del generale Guisan
decisero di difendere ad oltranza almeno il «ridotto nazionale» nello
spazio alpino dopo aver distrutto le
trasversali alpine per creare un effetto deterrente. Un’altra decisione fu la
chiusura «ermetica» delle frontiere (13 agosto 1942) per tutti gli «stranieri»
senza autorizzazione.
L’atteggiamento della
Svizzera verso gli ebrei rientrava in questa disposizione, tanto è vero che
all’inizio delle istruzioni impartite ai posti di frontiera si fa riferimento
al «forte aumento delle entrate illegali di profughi stranieri attraverso la
frontiera occidentale specialmente di ebrei di varie nazionalità…». A scanso di
equivoci, al punto 2 dell’elenco delle persone che non si devono respingere
(ossia: «i profughi politici, cioè gli stranieri che al primo interrogatorio si
danno espressamente per tali e possono rendere attendibile questa loro
qualità»), si precisa che «profughi per ragioni razzistiche, ad esempio gli
ebrei, non sono da considerare come profughi politici».

Al confine meridionale il numero dei profughi e degli ebrei crebbe
notevolmente dopo l’8 settembre 1943. Per questo, dopo il 17 settembre 1943, le misure di
controllo divennero ancor più severe,
tranne per coloro che apparivano chiaramente in pericolo di vita. Se fu relativamente
facile accogliere e successivamente internare i militari (conformemente alla
Convenzione dell’Aja del 1907 relativa
ai diritti e ai doveri di uno Stato neutrale), per i profughi civili valevano
altre condizioni, che sembrano non avere gli ebrei. Essi venivano quasi sempre
respinti, perché in quel momento la loro situazione non era ancora ritenuta
drammatica. Agli occhi del funzionario di Arzo di cui ha parlato la Segre anche
la sua vita non dovette apparire in pericolo e, forse per questo, la sua
domanda fu respinta.
Difficile pensare che
con quella decisione il funzionario di polizia abbia voluto davvero mettere in pericolo
la vita dei respinti. Difficile anche pensare che sul finire del 1943 fossero in
molti, in Svizzera, a conoscere l’ampiezza di quella orribile barbarie e a sapere
della tragica fine degli ebrei nei campi di sterminio.
La fine della barbarie
Solo nel 1944 il Consiglio
federale cominciò a sospettare la seria minaccia che incombe sugli ebrei
deportati e, quando la Svizzera si libera, o meglio viene liberata, dalla morsa opprimente del
Terzo Reich ridotto ormai a brandelli, si dichiara disposto ad accogliere 14
mila profughi ungheresi (maggio 1944). Pochissimi riescono tuttavia a
raggiungere la frontiera svizzera, che continua ad essere strettamente
sorvegliata contro chiunque sia sprovvisto di passaporto e del visto d'ingresso.
Soltanto dal 12 luglio
1944 gli ebrei vengono dichiarati esposti a una grave minaccia e considerati
«profughi per ragione di razza». Il 6 febbraio 1945, quando evidentemente era
ormai troppo tardi, il Consiglio federale protesta per la prima volta presso il
governo tedesco contro l'annientamento di massa degli ebrei e permette
l'ingresso a 1200 ebrei provenienti dal campo di Theresienstadt (Repubblica
Ceca).
L’episodio del
respingimento dei Segre ha provocato un dibattito nell’opinione pubblica e
persino le scuse del consigliere di Stato Manuele Bertoli (gesto non da
tutti i ticinesi condiviso) perché è stata una decisione grave, che ha lasciato
il segno soprattutto nell’interessata. Non credo, tuttavia, che la valutazione
storica della decisione presa dal funzionario svizzero-tedesco possa o debba
comportare giudizi morali di approvazione o di condanna, senza tener conto del
periodo storico e delle circostanze.
Credo, soprattutto,
che il «capitolo dolente» dei respingimenti non possa e non debba far
dimenticare o minimizzare che specialmente il Ticino è sempre stato per i
profughi italiani una liberale e accogliente «terra d’asilo». La storica Renata
Broggini, recentemente scomparsa, ne ha fornito ampia e ben documentata
testimonianza anche in riferimento alle vicende della seconda guerra mondiale.
Riconfermo quanto
scrissi circa quarant’anni fa: «nonostante tutto, la piccola Svizzera, dal 1933 al 1945
accolse, sia pure per periodi mediamente brevi, circa 300.000 stranieri,104.000
soldati internati, 66.500 civili provenienti dalle regioni di confine, 65.000
profughi civili, di cui 29.000 ebrei, 60.000 bambini».

Per concludere, credo che sia giusto e utile rievocare quella «pagina nera»
della storia svizzera perché, rileggendola e meditandola, non sia più possibile
riscriverla in nessuna parte del mondo.
Giovanni Longu
Bern 23.01.2019
Bern 23.01.2019