22 luglio 2010

Crocifisso contro laicità?

Il 30 giugno scorso la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha ascoltato le parti riguardo al ricorso dell’Italia contro la sentenza della stessa Corte di togliere i crocefissi dalle aule scolastiche.
In primo grado, la Corte aveva stabilito il 3 novembre 2009 che il crocifisso nelle aule è «una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni e del diritto degli alunni alla libertà di religione», imponendo all'Italia un risarcimento di 5.000 euro per danni morali.

Ho seguito il dibattito del 30 giugno scorso e, prescindendo dalle questioni eminentemente giuridiche, ho notato che tutti gli interventi ruotavano praticamente attorno a concetti astratti con risvolti evidentemente pratici quali «laicità», «tolleranza», «ambiente neutro e pluralistico», «libertà religiosa», «libertà di coscienza» e altri ancora. Per la parte avversa allo Stato italiano, ad esempio, l’esposizione del crocifisso quale simbolo religioso in un luogo pubblico (ad esempio un’aula scolastica) violerebbe il principio costituzionale della «laicità» dello Stato. Inoltre, la semplice presenza del crocifisso in un’aula scolastica costituirebbe un attentato alla «libertà di coscienza» e al diritto del singolo di ricevere una formazione conforme alle sue «convinzioni religiose e filosofiche». Ovviamente, per il difensore dell’Italia la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche non viola alcuno dei concetti summenzionati, purché ci s’intenda sul loro significato.
Laicità e tolleranza?
In effetti, a mio parere, tutta la questione sta nel significato che si dà alle parole chiave riportate. Infatti «laicità» può essere tanto una sana e persino ovvia separazione del potere civile dal potere religioso, ma anche «laicismo», come atteggiamento che propugna non solo la separazione tra Stato e Chiesa, ma anche l’eliminazione nella sfera civile pubblica di qualsiasi anche solo apparente commistione tra i due poteri. Senza dire che certe forme di «laicismo» tradiscono un vero e proprio anticlericalismo illiberale e persino un ateismo mascherato. «Tolleranza» è l’atteggiamento tipico di una società pluriculturale in cui gli individui si accettano e rispettano come persone indipendentemente dalle idee e convinzioni religiose o filosofiche che sostengono e manifestano. La tolleranza tuttavia non può essere spinta al punto da esigere la rinuncia alla libertà di manifestare apertamente le proprie idee e la propria credenza. Significherebbe esigere la rinuncia alla propria identità.
Nelle argomentazioni della parte avversa allo Stato italiano, credo che le motivazioni della «laicità» e della «tolleranza» siano inaccettabili perché fanno riferimento a significati eccessivi e negativi, ma soprattutto perché senza fondamento. Credo che sia difficile per chiunque dimostrare che per la semplice presenza nelle aule scolastiche del crocifisso lo Stato italiano intenda subdolamente «indottrinare» gli allievi che la frequentano. Pertanto tale presenza non viola a mio modo di vedere la «laicità» dello Stato italiano. Se l’esposizione in luogo pubblico del crocifisso non comporta alcun indottrinamento diretto o alcuna violenza indiretta alle idee e ai sentimenti religiosi o filosofici degli allievi, non vedo come si possa ritenere fondata l’accusa della parte avversa di considerare l’aula scolastica con crocifisso un «ambiente negativo» per lo sviluppo delle idee religiose o filosofiche degli allievi.
L’accusa poi di «mancanza di tolleranza» per il fatto che in un’aula è esposto il simbolo religioso della maggioranza credo che meriti qualche riflessione. Ovviamente l’aula scolastica, che dev’essere aperta a tutti senza restrizioni, deve cercare di garantire un ambiente neutro, pluralistico e aconfessionale. Se la presenza di un simbolo religioso dovesse creare problemi di natura psicologica e comportamentale (da provare!) mi pare giudizioso che se ne debba discutere nella sede opportuna. Invocare invece la via giudiziaria mi sembra la scelta sbagliata, anche perché si rischia l’assurdo.
Domande alla Grande Chambre
Nella vertenza in questione, la parte avversa (un solo genitore, nemmeno entrambi i genitori di due allievi) sostiene che voler mantenere il crocifisso nell’aula, come deciso a stragrande maggioranza dal consiglio d’istituto, significa una vera e propria «tirannia della maggioranza». A questo punto la domanda sorge spontanea: e come si configurerebbe la situazione se la richiesta della esigua minoranza s’imponesse contro la volontà manifesta della maggioranza? Detto altrimenti: come potrebbe il diritto dei non credenti di non credere costringere i credenti a rinunciare ai loro diritti di manifestare il proprio credo?
Rispondere a queste e simili domande non sarà facile per la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, anche perché nella vertenza sono intervenuti una decina di Stati del Consiglio d’Europa, che si sono opposti alla decisione originaria sostenendo l’Italia, e la sentenza, attesa entro la fine dell’anno, non potrà riguardare solo lo Stato italiano.
Il ricorso alla Corte europea di Strasburgo, pur ritenendolo sostanzialmente infondato, credo che avrà una grande importanza sul piano della riflessione individuale e collettiva. Occorre infatti che non solo gli italiani, ma gli europei in generale, riconsiderino la loro «semenza», per usare un termine dantesco, fatta di tante cellule ma sicuramente anche di quella cristiana.
Percorrendo recentemente una regione meridionale della Germania, la Foresta Nera, ho avuto la sensazione di trovarmi in un Paese che questa riflessione l’ha già fatta. L’intero territorio, tutte le città, i villaggi e anche i piccoli insediamenti sono marcati da quel simbolo che si vorrebbe espellere dalle aule scolastiche, la croce. Una miriade di chiese, monasteri, cappelle generalmente in ottimo stato segnalano la presenza viva sul territorio di una religiosità che ha radici profonde e sa convivere pienamente con la modernità. Evidentemente, religiosità e laicità non stanno in contraddizione e la tolleranza vera si esprime rispettando tutti, quelli che hanno simboli e vogliono mantenerli e quelli che non ne hanno e non vogliono averne.
Giovanni Longu
Berna, 21.07.2010

21 luglio 2010

Per un’intesa forte in difesa dell’italiano in Svizzera

Con l’approvazione della legge sulle lingue e della relativa ordinanza d’applicazione sono ora disponibili gli strumenti giuridici necessari per poter intervenire a sostegno e a promozione del plurilinguismo soprattutto all’interno dell’Amministrazione federale. Ma al di fuori di essa, cosa ne sarà soprattutto delle lingue minoritarie e specialmente dell’italiano?
Il delegato federale al plurilinguismo
Il 1° luglio è entrata in vigore la tanto attesa ordinanza sulle lingue. E’ stata fortemente voluta soprattutto dalla Deputazione ticinese alle Camere federali. Sarebbe tuttavia un errore pensare che il suo compito sia finito con l’approvazione della legge e relativa ordinanza e con la consegna alla Cancelliera della Confederazione, il 1° giugno, di un «Manifesto per il plurilinguismo nell’Amministrazione federale». Al contrario, il lavoro serio e costante comincia solo ora. Sta infatti soprattutto alla Deputazione vigilare e controllare che la legge e l’ordinanza vengano applicate correttamente, almeno per quel che riguarda l’italiano.
E’ vero che l’ordinanza prevede, ad esempio, che gli italofoni nell’Amministrazione federale siano almeno il 7 per cento e che spetta al delegato al plurilinguismo «raccogliere informazioni e riferire sulla rappresentanza delle comunità linguistiche e sullo sviluppo del plurilinguismo nell’Amministrazione federale», ma sta alla Deputazione vigilare e, se il caso, intervenire con gli strumenti parlamentari adeguati.
L’ombudsman richiesto dalla Deputazione non è stato concesso, se non con competenze limitate, in quanto il delegato non ha alcun potere vero di mediazione, d’investigazione e d’intervento. Si deve tuttavia dare ampia fiducia al delegato Vasco Dumartheray, in carica dal 1° luglio, perché conosce nei dettagli l’Amministrazione federale, vive già in famiglia il plurilinguismo (ha origini svizzere, brasiliane e francesi ed è sposato con una ticinese) e saprà quanto meno vigilare sull’applicazione delle quote fissate dal governo per i germanofoni (70%), i francofoni (22%), gli italofoni (7%) e i romanci (1%). Vero è che il suo compito non sarà facile perché oltre alla semplice vigilanza (cosa di per sé non da poco) dovrà occuparsi anche della promozione del plurilinguismo e soprattutto delle lingue minoritarie.
Mi auguro, ad esempio, che per migliorare la situazione non si metta tanto l’accento sull’aumento della traduzione italiana quanto sull’aumento del numero dei quadri italofoni da inserire nei vari uffici.
Credo anche che il delegato al plurilinguismo possa (o debba?) esprimersi pure sulla rappresentanza italofona in Consiglio federale ogniqualvolta se ne presenti l’occasione. E prossimamente ce ne sarà più d’una. Lo farà, o qualcuno gli obietterà che la questione non rientra nelle sue competenze? Eppure, nell’opinione pubblica italofona, si sente la mancanza (ingiustificata) di un rappresentante italofono nel governo federale.
Chi difenderà l’italiano in Svizzera?
In Svizzera, al di fuori del Ticino, l’italiano è in forte crisi, come ampiamente dimostrato dalle statistiche, dal progetto di ricerca sul plurilinguismo del Fondo nazionale PNR 56. Nelle scuole di secondo grado e nelle università i corsi d’italiano e i relativi partecipanti continuano a diminuire. Lo Stato italiano, come noto, riduce sempre più incisivamente i suoi interventi nel settore dei corsi e della promozione della lingua e della cultura italiane. E’ possibile rallentare questo declino?
Non c’è dubbio che di fronte a una situazione che appare irrimediabile il pessimismo è persino ovvio. Eppure c’è ancora spazio per un moderato ottimismo. L’italiano in Svizzera non può essere dato per tramontato perché a sud della Svizzera c’è un grande Cantone solidamente italofono e, a quanto sembra, deciso a contare maggiormente a Berna.
Tra i parlamentari del Consiglio nazionale e del Consiglio degli Stati sono numerosi quelli italofoni (o sensibili alla lingua e alla cultura italiane) interessati a un rafforzamento della presenza dell’italiano come lingua nazionale e ufficiale dell’intera Confederazione. Credo che un loro coinvolgimento diretto nella problematica dell’italianità in Svizzera possa risultare di grande utilità. Sarebbe anche auspicabile che l’Ambasciata italiana, nell’ambito dei suoi rapporti istituzionali, non trascurasse questo elemento, che potrebbe dimostrarsi addirittura determinante in una strategia comune di promozione della lingua e della cultura italiane in Svizzera.
E’ tempo di sintesi
Non so se nella storia delle relazioni italo-svizzere ci sia mai stato un momento più favorevole per un’intesa forte in difesa dell’italiano. Quando il Ticino non si curava (tanto) degli italiani e questi avevano come unico (o quasi) punto di riferimento lo Stato italiano, era quasi inevitabili percorrere strade parallele o persino divergenti. Oggi si avverte invece chiaramente che è venuto il momento delle convergenze, delle sinergie, della sintesi. Perché non cogliere questa occasione che forse non si ripresenterà più?
Infine, non si dovrebbe mai dimenticare che gli italofoni in Svizzera sono ancora tanti, non sono affatto marginalizzati nell’economia e nella cultura, hanno il senso dell’appartenenza ad una grande famiglia linguistica e culturale europea, sanno di avere radici sane e profonde. Purtroppo questi italofoni non hanno ancora trovato una motivazione comune per una mobilitazione collettiva in difesa di questo loro patrimonio linguistico e culturale. E’ in questa direzione che occorre muoversi.
Giovanni Longu
Berna, 21 luglio 2010