21 febbraio 2018

Tracce d’italianità nell’agglomerazione di Berna (2a parte)



Nel 1848, quando fu scelta come capitale federale, Berna non era ancora ben collegata col resto del Paese e sufficientemente funzionale per soddisfare le nuove esigenze istituzionali. Per colmare questi due svantaggi la manodopera indigena non era sufficiente e anche Berna, come tutte le altre grandi città svizzere, dovette ricorrere all’ausilio di manodopera estera. Gli italiani, dei quali si conosceva la bravura, insieme a molti ticinesi, vennero chiamati per dare man forte ai bernesi. Gli italiani accorsero volentieri, svolsero con coscienza e competenza i loro compiti, ma la loro vita da emigrati fu spesso difficile e incompresa. Oggi si è pronti a riconoscere il loro insostituibile contributo.

Gli italiani e il lavoro
Le tracce d'italianità a Berna sono innumerevoli. Qui in Centro
museale Paul Klee dell'architetto genovese Renzo Piano (2005)
Berna fu dapprima collegata col resto del Paese e nell’arco di mezzo secolo si dotò di sedi appropriate per gli organismi federali centrali, ma anche di un’edilizia residenziale corrispondente al suo rango e al rapido sviluppo della sua popolazione (da 29.670 abitanti nel 1850 a 90.937 nel 1910). Nel solo decennio 1889-1899 venne edificato il 34% di tutti gli edifici costruiti nel XIX secolo. Alcuni quartieri furono resi particolarmente accoglienti.
In tutti i grandi cantieri c’erano italiani, per lo più stagionali provenienti dal Nord Italia (Piemonte, Lombardia, Veneto). Le loro prestazioni erano molto apprezzate, anche se non da tutti. Infatti, mentre gli imprenditori avevano una certa predilezione per l’arte muraria degli italiani che lavoravano bene e velocemente (grazie anche all’impiego del mattone, già in uso in Italia), un gruppo di manovali bernesi disoccupati il 19.6.1893 organizzò una rivolta. Insieme ad una folla di sostenitori, si diresse come una furia verso alcuni cantieri nel quartiere nuovo di Kirchenfeld, demolì ponteggi e aggredì gli operai italiani che non erano riusciti a mettersi in salvo. (Su questa rivolta, nota come «Käfigturmkrawall», cfr. http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.ch/2012/05/quanta-italianita-ce-berna-3a-parte.html).

Stabilizzazione grazie al lavoro in fabbrica
Berna comunque continuò a svilupparsi con nuove infrastrutture (ferrovie, tram, ponti), nuovi quartieri (Kirchenfeld, Felsenau, Neufeld, Muesmatt, Lorraine, Wyler), nuovi edifici industriali, commerciali e residenziali. Nascevano anche sempre nuove industrie che assorbivano molta manodopera straniera anche italiana, non più stagionale ma stabile. Tra le ditte più longeve, in cui hanno lavorato migliaia di italiani, si possono ricordare la Spinnerei (filanda) di Felsenau (1864), la Wander (1865), la fabbrica di conserve Véron (1889) in Weyermannshaus, la Gfeller (1896), la Tobler (1899), la Von Roll (1900), la Zent (1900), la Wifag (1900), l’Hasler (1900), e numerose altre. C’era persino una fabbrica di automobili, la Berna (1900).
Anche la collettività italiana era in continua crescita (nel 1910 contava già circa 2000 persone), interrotta con lo scoppio della prima guerra mondiale, ma ripresa alla grande dopo la seconda. Poiché c’erano anche molte giovani donne sole, nell’immediato dopoguerra, alcune grandi aziende costruirono o adattarono strutture (convitti) accoglienti dove potessero alloggiare e trascorrere il tempo libero. Di una di esse, appartenente alla ditta Véron, si parla nel libro di ricordi di Luisa Moraschinelli, L’albero che piange (1994).

Associazioni e diffusione dell’italiano
Nel 1970 c’erano nell’agglomerazione di Berna oltre 16.000 italiani, concentrati in alcuni quartieri, ma senza costituire mai dei ghetti. La loro organizzazione era ben strutturata in associazioni di ogni genere, scuole italiane, squadre di calcio, negozi, ristoranti, ecc.
Casa d'Italia di Berna
Due istituzioni, la Missione cattolica e la Casa d’Italia, erano i principali punti di riferimento. Alla prima si ricorreva non solo per l’assistenza spirituale, ma spesso anche per quella materiale, come cercare lavoro, preparare pratiche, compilare domande e formulari e persino scrivere lettere ai familiari in Italia. La MCI assicurava inoltre la scuola dell’infanzia ed elementare ai bambini dei genitori che pensavano a un prossimo rientro in Italia. Disponeva inoltre di un ristorante frequentato anche dagli svizzeri. La Casa d’Italia era invece la sede principale della collettività italiana per incontri, convegni, dibattiti, assemblee, feste, e naturalmente per consumare pasti caldi e abbondanti. Alla Casa d’Italia gli italiani di Berna incontrarono nel 1981 il presidente della Repubblica Sandro Pertini.
In quegli anni, racconta Moraschinelli, «la lingua italiana risuonava quasi al pari del tedesco: per le strade, sugli autobus, ovunque oltre che all’interno delle fabbriche e dei caseggiati». Effettivamente, grazie agli immigrati dei primi decenni del dopoguerra, la lingua italiana riuscì a superare nel 1970 la massa critica del 10 per cento, che purtroppo non si è riusciti a conservare. L’italiano è comunque ancora oggi diffuso in molti ambienti di lavoro, nelle informazioni commerciali, nelle scuole, nei media e nelle comunicazioni informali, magari frammisto al dialetto bernese, tra le seconde e terze generazioni di italiani. 

Passaggio del testimone
A Berna gli italiani della prima generazione hanno lasciato tracce ovunque. Alcune sono evidenti - ad esempio nella città vecchia, nel quartieri di Kirchenfeld, nella Länggasse, a Bümpliz e in alcuni edifici ancora esistenti - spesso si possono solo immaginare, soprattutto quando l’ambiente è stato notevolmente modificato.
Sede della Missione cattolica italiana di Berna
L’eredità principale degli immigrati italiani dei primi decenni del dopoguerra non va tuttavia cercata in tracce materiali più o meno evidenti, perché è soprattutto costituita da valori immateriali non deperibili legati alla lingua e alla cultura italiane, ma anche al carattere delle persone.
Venendo in Svizzera, in quelle valige gonfie tenute strette da cinghie robuste, quegli italiani non portavano solo oggetti di vestiario, generi alimentari e qualche fotografia, come vorrebbe una facile iconografia del povero emigrante. Quelle valige contenevano sempre anche un ricco corredo di
speranze, ambizioni, desiderio di riuscita, coraggio, amore per la propria famiglia, amore per la vita, gioia di vivere, ottimismo.
Non era poco, tanto è vero che questi ingredienti hanno consentito a milioni di immigrati italiani di sopravvivere in un ambiente difficile e talvolta persino ostile, di realizzare almeno in parte i loro sogni, di tirare su famiglie in condizioni spesso dure, di rientrare a testa alta al loro paese d’origine o di restare vicino ai figli per quel senso della famiglia che vuole la vicinanza e la solidarietà intergenerazionale. Quegli ingredienti hanno agito come il lievito nella farina e, oggi lo riconoscono un po’ tutti, hanno contagiato l’intera società svizzera.
Questo corredo-lievito è passato ora come un testimone nella disponibilità delle seconde e terze generazioni di italiani, italo-svizzeri e svizzeri con un’origine migratoria. Spetta a loro tenerlo il più a lungo possibile. Non può e, forse, non deve andare perso. E’ importante che ci riescano.
Giovanni Longu
Berna, 21.02.2018