Nel 1848, quando fu
scelta come capitale federale, Berna non era ancora ben collegata col resto del
Paese e sufficientemente funzionale per soddisfare le nuove esigenze
istituzionali. Per colmare questi due svantaggi la manodopera indigena non era
sufficiente e anche Berna, come tutte le altre grandi città svizzere, dovette
ricorrere all’ausilio di manodopera estera. Gli italiani, dei quali si
conosceva la bravura, insieme a molti ticinesi, vennero chiamati per dare man
forte ai bernesi. Gli italiani accorsero volentieri, svolsero con coscienza e
competenza i loro compiti, ma la loro vita da emigrati fu spesso difficile e
incompresa. Oggi si è pronti a riconoscere il loro insostituibile contributo.
Gli italiani e il lavoro
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Le tracce d'italianità a Berna sono innumerevoli. Qui in Centro museale Paul Klee dell'architetto genovese Renzo Piano (2005) |
Berna fu dapprima
collegata col resto del Paese e nell’arco di mezzo secolo si dotò di sedi
appropriate per gli organismi federali centrali, ma anche di un’edilizia
residenziale corrispondente al suo rango e al rapido sviluppo della sua
popolazione (da 29.670 abitanti nel 1850 a 90.937 nel 1910). Nel solo decennio 1889-1899 venne edificato il 34% di tutti gli edifici
costruiti nel XIX secolo. Alcuni quartieri furono resi particolarmente
accoglienti.
In tutti i grandi cantieri c’erano italiani,
per lo più stagionali provenienti dal
Nord Italia (Piemonte, Lombardia, Veneto). Le loro prestazioni erano molto
apprezzate, anche se non da tutti. Infatti, mentre gli imprenditori avevano una
certa predilezione per l’arte muraria degli italiani che lavoravano bene e
velocemente (grazie anche all’impiego del mattone, già in
uso in Italia), un gruppo di
manovali bernesi disoccupati il 19.6.1893 organizzò una rivolta. Insieme ad una
folla di sostenitori, si diresse come una furia verso
alcuni cantieri nel quartiere nuovo di Kirchenfeld, demolì ponteggi e aggredì
gli operai italiani che non erano riusciti a mettersi in salvo. (Su questa
rivolta, nota come «Käfigturmkrawall», cfr. http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.ch/2012/05/quanta-italianita-ce-berna-3a-parte.html).
Stabilizzazione grazie al lavoro in fabbrica
Berna comunque continuò a svilupparsi con
nuove infrastrutture (ferrovie, tram, ponti), nuovi quartieri (Kirchenfeld, Felsenau,
Neufeld, Muesmatt, Lorraine, Wyler), nuovi edifici industriali, commerciali e
residenziali. Nascevano anche sempre nuove industrie che assorbivano molta
manodopera straniera anche italiana, non più stagionale ma stabile. Tra le
ditte più longeve, in cui hanno lavorato migliaia di italiani, si possono
ricordare la Spinnerei (filanda) di Felsenau (1864), la Wander
(1865), la fabbrica di conserve Véron (1889) in Weyermannshaus, la Gfeller
(1896), la Tobler (1899), la Von Roll (1900), la Zent
(1900), la Wifag (1900), l’Hasler (1900), e numerose altre. C’era
persino una fabbrica di automobili, la Berna (1900).
Anche la collettività italiana era in continua
crescita (nel 1910 contava già circa 2000 persone), interrotta con lo scoppio
della prima guerra mondiale, ma ripresa alla grande dopo la seconda. Poiché
c’erano anche molte giovani donne sole, nell’immediato dopoguerra, alcune
grandi aziende costruirono o adattarono strutture (convitti) accoglienti dove
potessero alloggiare e trascorrere il tempo libero. Di una di esse,
appartenente alla ditta Véron, si parla nel libro di ricordi di Luisa
Moraschinelli, L’albero che piange (1994).
Associazioni e diffusione dell’italiano
Nel 1970 c’erano nell’agglomerazione di Berna
oltre 16.000 italiani, concentrati in alcuni quartieri, ma senza costituire mai
dei ghetti. La loro organizzazione era ben strutturata in associazioni di ogni
genere, scuole italiane, squadre di calcio, negozi, ristoranti, ecc.
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Casa d'Italia di Berna |
In quegli anni, racconta Moraschinelli, «la
lingua italiana risuonava quasi al pari del tedesco: per le strade, sugli
autobus, ovunque oltre che all’interno delle fabbriche e dei caseggiati».
Effettivamente, grazie agli immigrati dei primi decenni del dopoguerra, la
lingua italiana riuscì a superare nel 1970 la massa critica del 10 per cento,
che purtroppo non si è riusciti a conservare. L’italiano è comunque ancora oggi
diffuso in molti ambienti di lavoro, nelle informazioni commerciali, nelle
scuole, nei media e nelle comunicazioni informali, magari frammisto al dialetto
bernese, tra le seconde e terze generazioni di italiani.
Passaggio del testimone
A
Berna gli italiani della prima generazione hanno lasciato tracce ovunque. Alcune
sono evidenti - ad esempio nella città vecchia, nel quartieri di Kirchenfeld,
nella Länggasse, a Bümpliz e in alcuni edifici ancora esistenti - spesso si possono
solo immaginare, soprattutto quando l’ambiente è stato notevolmente modificato.
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Sede della Missione cattolica italiana di Berna |
Venendo in Svizzera, in
quelle valige gonfie tenute strette da cinghie robuste, quegli italiani non portavano
solo oggetti di vestiario, generi alimentari e qualche fotografia, come
vorrebbe una facile iconografia del povero emigrante. Quelle valige contenevano
sempre anche un ricco corredo di
speranze, ambizioni, desiderio di
riuscita, coraggio, amore per la propria famiglia, amore per la vita, gioia di
vivere, ottimismo.
Non era poco, tanto è
vero che questi ingredienti hanno consentito a milioni di immigrati italiani di
sopravvivere in un ambiente difficile e talvolta persino ostile, di realizzare
almeno in parte i loro sogni, di tirare su famiglie in condizioni spesso dure,
di rientrare a testa alta al loro paese d’origine o di restare vicino ai figli
per quel senso della famiglia che vuole la vicinanza e la solidarietà intergenerazionale.
Quegli ingredienti hanno agito come il lievito nella farina e, oggi lo
riconoscono un po’ tutti, hanno contagiato l’intera società svizzera.
Questo corredo-lievito
è passato ora come un testimone nella disponibilità delle seconde e terze
generazioni di italiani, italo-svizzeri e svizzeri con un’origine migratoria. Spetta a loro tenerlo il più a lungo possibile. Non può e, forse, non deve andare perso. E’ importante che ci riescano.
Giovanni Longu
Berna, 21.02.2018
Berna, 21.02.2018