22 dicembre 2021

Immigrazione italiana 1970-1990: 66. La seconda generazione e la scelta professionale (3)

L’articolo precedente ha evidenziato l’impegno della Svizzera e dell’Italia a facilitare l’integrazione dei cittadini italiani immigrati e dei loro figli (seconda generazione) attraverso gli strumenti della formazione scolastica generale e della formazione tecnico-professionale. Poiché per costatarne l’effettiva riuscita su vasta scala si dovettero attendere gli anni Novanta, è lecito chiedersi il perché di una così lunga attesa. Oltre alle ragioni già preconizzate dalla delegazione svizzera nel 1972 nel corso di una riunione della Commissione mista italo-svizzera prevista dall'Accordo del 1964 (cfr. articolo precedente), negli anni Settanta e Ottanta ce n’erano evidentemente anche altre, che meritano alcune considerazioni che saranno sviluppate in questo e nei prossimi articoli.

Partenza svantaggiata per gli stranieri

Anni '70 e '80: il sogno di molti italiani era diventare automeccanici!
Una delle ragioni più importanti della lunga attesa è stata sicuramente il diverso punto di partenza tra svizzeri e stranieri al momento di iniziare la formazione professionale. Mentre per la maggioranza dei primi l’apprendistato (o, più raramente, la prosecuzione della formazione scolastica in un liceo) rappresentava lo sbocco «normale» della scolarità obbligatoria, per gran parte degli adolescenti stranieri era l’imbocco di una strada sconosciuta e dall'esito incerto, tant'è che pochi la imboccavano.

Del resto, per molti immigrati italiani il concetto stesso di «formazione professionale» era molto vago. Non si conosceva la procedura per attivare un contratto di apprendistato, non si comprendeva perché l’apprendimento di un mestiere richiedesse tre-quattro anni di teoria e di pratica, non si sapeva valutare quanto valesse una qualifica professionale rispetto a un titolo di studio a parità di anni di formazione, spesso non si comprendeva perché un lavoratore qualificato dovesse guadagnare più di uno senza qualifica anche se molto bravo, non si conoscevano le possibili specializzazioni successive, ecc.

Per quanto si possa e persino si debba ritenere logica e coerente la politica seguita dal Consiglio federale e condivisa dalle autorità italiane sull'integrazione della seconda generazione, non si può dimenticare che in gran parte della collettività italiana degli anni Settanta mancava l’interesse. Probabilmente nessun immigrato era venuto in Svizzera per stabilirvisi e addirittura mettere al mondo figli che avrebbero potuto considerare questo Paese come la loro patria. Secondo numerose inchieste, quasi tutti gli immigrati del secondo dopoguerra si ritenevano e si comportavano come italiani provvisoriamente all'estero. Perché dunque investire tanto tempo e denaro per imparare un mestiere da esercitare in Svizzera, senza sapere se eventualmente sarebbe stato possibile esercitarlo anche in Italia?

Campo di scelta limitato

Sicuramente anche a qualche svizzero la scelta del mestiere da imparare deve aver posto qualche problema, ma mentre gli svizzeri erano generalmente ben supportati dalla famiglia e dal servizio di orientamento professionale ufficiale, gli stranieri ne erano in gran parte privi. Quanto agli orientatori professionali, bisogna dire che non erano stati preparati per consigliare adeguatamente giovani stranieri con problematiche particolari di tipo scolastico e psicologico. Spesso non riuscivano a superare la correlazione tra prestazioni scolastiche e reali possibilità di apprendimento e di riuscita dei richiedenti, anche se molto motivati, per cui questi venivano spesso indirizzati su professioni non desiderate ad esigenze medio-basse.

Va aggiunto che gli immigrati italiani allora erano concentrati in pochissimi rami economici (metalmeccanica, costruzioni, turismo e ristorazione, commercio, riparazione autoveicoli e pochi altri) per cui non avevano una visione sufficientemente ampia del mercato del lavoro globale per prospettare ai loro figli professioni anche in altri rami. Così, mentre per i giovani svizzeri l’offerta era molto ampia, per i giovani italiani era alquanto ristretta. Se le preferenze degli svizzeri si concentravano su una ventina di professioni, per gli italiani la scelta era limitata a meno della metà e concerneva per lo più, ad eccezione di alcune professioni (per es. meccanica e automeccanica), mestieri il cui apprendistato durava meno di 4 anni con livelli di qualifica medio-bassi (per es. muratore, installatore d’impianti sanitari, parrucchiere, venditore, cuoco, servizi domestici e di cura).

Si può inoltre osservare che alcune scelte degli italiani venivano fatte in funzione della possibilità di esercitare la professione in modo autonomo e, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, si limitavano praticamente a due campi l’edilizia (per diventare imbianchini, piastrellisti, gessisti, ecc.) e l'automeccanica (per poter un domani avviare un’attività autonoma in un proprio garage). (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 22.12.2021 

15 dicembre 2021

Immigrazione italiana 1970-1990: 65. La seconda generazione e la scelta professionale (2)

Oggi, in Svizzera, è normale per quasi tutti i giovani acquisire dopo la scuola obbligatoria una formazione di secondo grado di tipo teorico-generale (maturità liceale) o di tipo tecnico-pratico (formazione professionale). Nel periodo in esame (1970-1990) non era normale nemmeno per gli svizzeri, ma soprattutto per gli stranieri. Erano rari i figli (seconda generazione) di immigrati (prima generazione) che riuscivano a superare la selezione per entrare in un liceo, ma non era facile nemmeno ottenere un buon posto di apprendistato, di quelli cioè che durano 3-4 anni prima di poter conseguire un attestato federale di capacità. L’ostacolo principale era rappresentato dalla conoscenza della lingua del posto, ma ce n’erano anche altri. Poiché con gli anni ad uno ad uno saranno superati tutti, per capirne la dinamica può essere interessante ripercorrerne di seguito le tappe più significative.

Intesa italo-svizzera iniziale

Nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera ci sono stati eventi particolarmente importanti perché ne hanno determinano l’orientamento e avviato i processi per il raggiungimento degli obiettivi mirati. Uno di questi eventi è stato l’Accordo di emigrazione/immigrazione tra l’Italia e la Svizzera del 1964, perché ha consolidato la presenza italiana in questo Paese, ritenendola utile e necessaria, e ha gettato le basi per garantire soprattutto alle giovani generazioni una piena e soddisfacente integrazione.

Nel corso delle prime riunioni della Commissioni mista italo-svizzera, prevista dall'Accordo, vennero precisati meglio gli obiettivi e i mezzi per raggiungerli. Nella sostanza, l’Italia chiedeva per i lavoratori italiani, che allora sfioravano il mezzo milione, lo stesso trattamento riservato ai lavoratori svizzeri per quel che concerneva non solo le condizioni di vita e di lavoro, ma anche le possibilità di promozione professionale e sociale.

Concretamente, il governo italiano auspicava un mercato del lavoro svizzero più omogeneo, in cui tutti i lavoratori, svizzeri e italiani, beneficiassero sostanzialmente degli stessi diritti lavorativi, assicurativi e salariali, della stessa mobilità geografica e professionale, del diritto al ricongiungimento familiare, del diritto alla formazione dei giovani e degli adulti. Pur non essendo menzionati esplicitamente nell'Accordo del 1964, la formazione e il perfezionamento professionale apparivano chiaramente all'Italia come strumenti fondamentali per raggiungere i principali obiettivi e quindi da implementare il più presto possibile.

L’auspicio italiano era sostanzialmente condiviso dalla controparte svizzera e non poteva essere altrimenti, perché era anche nell'interesse della Svizzera ridurre i disagi della collettività straniera più numerosa, eliminare le tensioni tra svizzeri e stranieri (fonti di paure e pregiudizi su cui facevano leva i movimenti xenofobi, sempre pronti a lanciare iniziative contro l'inforestierimento e contro il governo) e, soprattutto, integrare le giovani generazioni.

L’impegno del governo svizzero

Il Presidente della Confederazione N. Celio (al centro) in visita al
CISAP sostiene la formazione professionale degli stranieri (1972)
Nel 1972, nel corso di una riunione della Commissione mista, la delegazione svizzera non solo dichiarò di condividere gli stessi obiettivi dell’Italia, ma assicurò l’impegno del governo federale per realizzare in Svizzera «un mercato del lavoro il più omogeneo possibile», pur prospettando difficoltà e rallentamenti nella fase realizzativa.

Che il Consiglio federale fosse deciso a ridurre le tensioni, a stabilizzare la popolazione straniera e a favorirne l’integrazione, lo dimostrò fin dai primi anni Settanta con una serie di interventi finalizzati, per esempio, a risolvere il problema dei «falsi stagionali» (ossia immigrati che pur avendo un permesso «stagionale» di fatto lavoravano gran parte dell’anno), a limitare lo statuto stagionale ai lavoratori che svolgevano attività davvero stagionali, a diminuire il tempo di attesa per la trasformazione dei permessi stagionali in annuali, a ridurre gradualmente le limitazioni esistenti per i residenti annuali, a facilitare il più possibile i ricongiungimenti familiari, a favorire anche ai cittadini stranieri l’accesso alle abitazioni con pigioni moderate, ad incoraggiare e sostenere finanziariamente le iniziative private di formazione professionale degli stranieri adulti e della seconda generazione, ecc.

Un segnale di vicinanza e di sostegno a queste iniziative lo diede il Presidente della Confederazione Nello Celio nel 1972 con la visita al CISAP (Centro italo-svizzero di formazione professionale) di Berna, durante la quale disse, fra l’altro, di essere venuto «per dimostrare innanzitutto la simpatia del governo di questo Paese per il CISAP e per tutte le iniziative che tendono a integrare e ad elevare la sorte dei lavoratori, a qualsiasi nazione appartengano» e «per dimostrare che il governo svizzero vuole seguire con la più viva attenzione la vita degli stranieri che operano nel nostro Paese, perché se è vero che noi diamo lavoro, se è vero che noi diamo possibilità di guadagno, è altrettanto vero che questa gente contribuisce a rafforzare la nostra economia e ci consente di produrre, e dà di più di quanto noi diamo, cosicché, per saldo, come si dice in contabilità, sono ancora questi operai, questi lavoratori stranieri che sono in credito nei confronti del Paese».

Poiché il raggiungimento dei vari obiettivi, e soprattutto del mercato del lavoro omogeneo, avrebbe comunque richiesto tempi lunghi e risorse considerevoli, il Consiglio federale coinvolse giustamente in questa vasta opera di sensibilizzazione e di integrazione non solo l’amministrazione federale e la Commissione federale degli stranieri (dal 1970), ma anche i Cantoni, le grandi città, le parti sociali e altre organizzazioni interessate.

L’impegno del governo italiano

I sottosegretari A. Bemporad (a sin.)
e M. Toros all'inaugurazione del
centro Cisap di Langenthal (1970)
Non fu solo il Consiglio federale ad impegnarsi decisamente in favore degli stranieri in generale e della seconda generazione in particolare, ma anche il governo italiano in quel periodo si dimostrò, attraverso i servizi diplomatici e consolari, particolarmente attivo nel settore della formazione degli italiani immigrati. Promosse e sostenne innumerevoli iniziative sia nel campo della formazione generale (corsi di lingua e cultura, interventi di sostegno scolastico, conferenze, biblioteche, ecc.) che della formazione professionale.


Specialmente in questo campo, poiché in varie località venivano organizzati da associazioni e gruppi di immigrati corsi di tipo professionale, ma di breve durata, poco strutturati e poco incisivi, a livello di Ambasciata si cercò fin dal 1970 un loro coordinamento e un controllo di qualità in modo da garantirne una maggiore efficacia e un’equa ripartizione delle cospicue somme che il Governo italiano intendeva destinare alle attività formative.

Una ricca documentazione su quegli anni testimonia con quanta energia, intelligenza ed entusiasmo si dedicarono alla soluzione dei vari problemi dell’immigrazione italiana in Svizzera segretari di Stato come Mario Pedini, Alberto Bemporad, Mario Toros, Luigi Granelli, Franco Foschi, ambasciatori come Enrico Martino, Adalberto Figarolo di Gropello, Girolamo Pignatti Morano di Custoza, ministri consiglieri all’ambasciata d’Italia a Berna come Ugo Barzini, Tullio Migneco, Mario Sica, consiglieri d’ambasciata come Mario Alberigo, per citare solo alcuni politici e alti funzionari degli anni Settanta. Ovviamente, sul terreno, erano i consoli che sostenevano i progetti, ne controllavano l’avanzamento e spingevano a fare sempre meglio e di più.

L’opera pionieristica del CISAP

L'ultima sede del CISAP a Berna
Allora il centro di formazione professionale più avanzato, fondato nel 1966, era il CISAP di Berna, con sedi periferiche in altre città della Svizzera, perché disponeva di ampi locali per le aule e le officine, di una dotazione tecnica (macchinari, attrezzature varie, ecc.) adeguata, di un’organizzazione interna dinamica, di un consiglio di gestione in cui erano rappresentate le principali istanze responsabili della formazione professionale (autorità svizzere, autorità italiane, organizzazioni padronali e sindacali) e, soprattutto, del pieno sostegno della Confederazione e dell’Italia, che erano anche i principali finanziatori del Centro.

Il CISAP aveva potuto svilupparsi perché, soprattutto dopo il 1970, aveva deciso di armonizzare completamente i propri programmi di formazione a quelli ufficiali svizzeri e i risultati erano apprezzati sia dai diretti interessati che dal mondo delle imprese svizzere. Questa istituzione, nata italiana e trasformatasi in breve tempo italo-svizzera, sembrava incarnare l’ideale stesso della collaborazione internazionale e dell’integrazione socio-professionale degli immigrati e per questo era considerata non solo una sorta di fiore all'occhiello della diplomazia italiana, ma anche un’opera prestigiosa per la Confederazione.

Che l’intesa italo-svizzera e l’impegno comune siano stati fruttuosi lo dimostra il fatto che tutte le iniziative antistranieri degli anni Settanta sono state ampiamente respinte, che l’integrazione soprattutto della seconda generazione ha cominciato a concretizzarsi, che sempre più giovani facevano seguire alla scuola dell’obbligo una formazione di secondo grado, che nelle grandi Città e nei Cantoni dove più accentuata era la presenza di italiani si sono costituite fin dai primi anni Settanta commissioni miste degli stranieri, alcune finalizzate espressamente alla promozione della formazione professionale dei lavoratori italiani. Tuttavia, era ancora tanto, come si vedrà nel prossimo articolo, quel che restava da fare. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 15.12.2021

08 dicembre 2021

Immigrazione italiana 1970-1990: 64. La seconda generazione e la scelta professionale (1)

Negli articoli precedenti, trattando delle problematiche relative alla seconda generazione nel periodo 1970-1990, si è accennato alle difficoltà che hanno incontrato i giovani stranieri al termine della scolarità obbligatoria nella scelta professionale. Per molti di essi non è stato facile né scegliere tra proseguire gli studi e apprendere un mestiere, né decidersi, nel passo successivo, cosa studiare o quale mestiere imparare. Gli aiuti esterni per operare una scelta conforme ai propri desideri e alle proprie capacità erano scarsi e spesso non tenevano conto che i figli degli stranieri, anche quando dovevano superare non poche difficoltà legate alla bassa scolarizzazione e all'ambiente sociale dei genitori, avevano in generale una straordinaria volontà di riuscita. Rievocare quell'epoca e quelle difficoltà aiuta a capire meglio non solo il fenomeno molto complesso della seconda generazione, ma anche la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera negli ultimi decenni del secolo scorso.

Precisazioni doverose

Teoria e pratica combinate, per giovani e adulti, nella 
formazione professionale al Cisap di Berna (anni ’70)
Per esigenze di chiarezza conviene anzitutto precisare che per «seconda generazione di stranieri» in questo contesto s’intendono non solo i bambini nati in Svizzera da genitori immigrati o giunti in Svizzera nell'ambito del ricongiungimento familiare, che hanno frequentato la maggior parte della scuola dell’obbligo in Svizzera (come da definizione dall'Ufficio federale di statistica), ma anche i figli di immigrati giunti in Svizzera quando stavano per terminare l’obbligo scolastico o subito dopo averlo terminato.

Questa precisazione serve non solo a far capire che la popolazione di giovani di cui si sta parlando era molto eterogenea, con problematiche spesso assai diverse, ma anche ad evidenziare che negli anni Settanta non esistevano ancora strutture di consulenza e di aiuto adeguate alle esigenze. Questo spiega, almeno in parte, le difficoltà incontrate e spesso non superate da numerosi giovani stranieri nella scelta dell’apprendistato, che in molti casi probabilmente non corrispondeva alle reali possibilità degli interessati.

A questo punto occorre anche precisare che tradizionalmente, in Svizzera, il sistema «duale» di formazione professionale (pratica in azienda e teoria a scuola) è molto sviluppato, ma anche molto pretenzioso, perché deve soddisfare oltre ai desideri personali i bisogni di un’economia in costante trasformazione, che vuol essere competitiva e innovativa. Per disporre sempre di personale adeguato, le condizioni poste a chi si appresta a seguire un apprendistato sono pertanto severe, specialmente per chi non può esibire, come nel caso di molti stranieri, risultati scolastici di buon livello.

Per aiutare i giovani in questa difficile scelta esiste da decenni un apposito servizio pubblico di orientamento professionale, ritenuto solitamente utile. Nei confronti dei giovani della seconda generazione, però, nel periodo in esame (1970-1990), non sempre ha saputo tener conto delle effettive capacità degli interessati, dando probabilmente troppo peso alle prestazioni scolastiche e scarsa importanza alle capacità di ricupero e alle motivazioni dei giovani stranieri.

Preoccupazioni per il futuro

Da queste premesse sarebbe un errore dedurre che i giovani stranieri fossero sistematicamente trascurati, anche se circostanze varie e soprattutto le prestazioni scolastiche e lo scarso aiuto dell’ambiente familiare hanno fatto sì che molti di essi non fossero indirizzati verso apprendistati (mestieri) più confacenti alle loro possibilità. D’altra parte, gli orientatori professionali di allora non erano in grado di valutare l’adeguatezza delle loro proposte in funzione dei desideri, delle possibilità e dei progetti di vita dei richiedenti il loro consiglio, perché erano abituati a verificare soprattutto la compatibilità (presunta) tra i risultati scolastici e la professione consigliata.

Formazione professionale per tutti, uomini e donne,
un imperativo degli anni ’70 e ’80 (allievi Cisap).
Un errore ancora più ingiustificato sarebbe dedurre dalle precisazioni di cui sopra che il Consiglio federale e dunque la politica volessero in fondo solo una seconda generazione in grado di sostituire, magari ad un livello poco più elevato, la prima generazione che dopo la crisi economica della metà degli anni Settanta tendeva inesorabilmente a diminuire.

Infatti, nessuno (a parte qualche xenofobo incallito) s’illudeva, nella seconda metà degli anni Settanta, che gli italiani rientrati a seguito della crisi economica potessero essere sostituiti dai giovani della seconda generazione rimasti in Svizzera e da quelli che continuavano ad arrivare per il ricongiungimento familiare previsto dalla normativa in vigore. Tanto più che l’andamento dell’economia esigeva personale sempre più qualificato, mentre quello partito in gran parte non lo era.

A questa considerazione se ne deve aggiungere un’altra di natura demografica. Dalla seconda metà degli anni Sessanta si cominciò ad osservare una costante diminuzione delle nascite, accentuatasi nel decennio successivo con la partenza in seguito alla crisi economica di numerose famiglie straniere notoriamente con molti più bambini di quelle svizzere. Per evitare un possibile squilibrio intergenerazionale la soluzione più opportuna non poteva che essere una politica chiara e lungimirante d’integrazione della seconda generazione.

Politica d’integrazione necessaria

In alcuni osservatori, la preoccupazione della denatalità nasceva dalla costatazione della contemporanea tendenza dell’invecchiamento della popolazione e dal rischio che la diminuzione delle nascite e poi delle persone attive potesse mettere in crisi il sistema delle assicurazioni sociali. Alla fine del decennio la preoccupazione divenne seria perché tra il 1964 e il 1978 il numero delle nascite era diminuito di oltre il 25 per cento.

Poiché le conseguenze per le assicurazioni sociali avrebbero potuto essere drammatiche se fosse diminuita ulteriormente l’attività economica degli stranieri con altre partenze, il Consiglio federale era sempre più convinto della necessità di un’efficace politica d’integrazione professionale soprattutto della seconda generazione. Per questo, fin dal 1973, sosteneva la necessità di «offrire agli stranieri uguali possibilità per quel che concerne la scuola, la formazione professionale, la casa».

In un Messaggio del 1978, il Consiglio federale, riconoscendo che «l'integrazione sociale e l'esercizio dei diritti riconosciuti agli stranieri sono spesso intralciati dal fatto che gli interessati non conoscono sufficientemente le nostre lingue, non dispongono di una formazione di base e patiscono delle differenze socio-culturali tra il loro Paese d'origine e il nostro» ne indicava così la soluzione: «ebbene, occorre rimediare a questo stato di cose. Ragioni d'ordine umano, sociale ed economico esigono infatti che si faciliti e promuova l'integrazione degli stranieri nel loro ambiente di lavoro e nella nostra comunità. Un isolamento della popolazione straniera in seno alla popolazione autoctona non può, a lungo termine, ch'essere pregiudizievole per ambedue».

Anni più tardi, nel 1990, parlando dei giovani stranieri, il presidente della Confederazione Arnold Koller affermò chiaramente che «questi giovani devono poter realizzarsi entro l'ambito di due culture, quella svizzera e quella dei genitori. La ricerca di un posto di lavoro dev'essere facilitata loro nel segno della parità d'opportunità». La formazione professionale era un imperativo valido anche per gli stranieri.

Ottimismo del Consiglio federale

Nel periodo in esame non c’erano dubbi: una buona integrazione non poteva fare a meno di una buona scolarizzazione e di una solida formazione professionale di base. Soprattutto nel Consiglio federale regnava un certo ottimismo sulla loro efficacia e sulle possibilità di riuscita, anche se nessuno era in grado di prevederne tempi e modi. Per il governo, però, l’ottimismo era fondato. Secondo il consigliere federale Koller, già in passato «molti [lavoratori stranieri venuti nel nostro Paese] hanno saputo migliorare le loro conoscenze professionali, parecchi sono divenuti essi stessi imprenditori» e negli anni Settanta e Ottanta gli svizzeri sono riusciti a integrare un numero rilevante di cittadini stranieri, rispondendo all'enorme sfida «con un impegno massiccio».

La strada, tuttavia, non sarebbe stata comunque facile perché non solo la scuola svizzera era molto esigente e selettiva, ma lo era pure la formazione professionale. Fra l’altro, a riguardo dell’una e dell’altra, negli anni Settanta e Ottanta c’erano ancora, anche tra gli italiani, alcuni pregiudizi e incertezze difficili da superare. In realtà, furono diverse le ragioni che rallentarono la piena implementazione della politica d’integrazione del Consiglio federale nel campo della formazione professionale. Per contare i maggiori risultati bisognerà attendere il periodo successivo, ma già in quello in esame molti segnali giustificavano l’ottimismo. (Segue)

Berna, 8 dicembre 2021
Giovanni Longu

01 dicembre 2021

Immigrazione italiana 1970-1990: 63. La seconda generazione e l’integrazione scolastica (2)

Nell'articolo precedente si è accennato alle cosiddette «classi speciali», un capitolo della storia dell’integrazione della seconda generazione che merita qualche considerazione di approfondimento. Lo merita soprattutto per evitare che la questione delle «classi speciali», spesso associata confusamente a quella dei «bambini clandestini» o «nascosti», insieme a una non tanto malcelata critica superficiale del sistema scolastico svizzero, rischi di far ritenere i figli degli immigrati del secondo dopoguerra una generazione persa. Lo merita anche per mettere in luce che proprio grazie all'integrazione scolastica e alla successiva formazione professionale la seconda generazione è riuscita a superare molti degli aspetti negativi che caratterizzavano l’immigrazione fino agli anni Settanta e Ottanta.

Importanza dell’integrazione scolastica

Negli anni ’70 molte associazioni criticavano il ricorso con troppa facilità
alle «classi speciali» per gli allievi stranieri (Corriere della Sera, 13.04.1974)
Nella prima metà degli anni Sessanta, l’Italia aveva ancora bisogno di favorire l’emigrazione perché la piena occupazione sembrava al momento irrealizzabile, ma si rendeva conto che nei Paesi d’immigrazione le esigenze nei confronti degli immigrati stavano cambiando. Man mano che i «vecchi» immigrati giungevano all'età della pensione non venivano più sostituiti con lavoratori con le stesse caratteristiche, ma con personale meglio preparato e in grado di adeguarsi facilmente alle nuove esigenze tecnologiche. Per questo, durante il negoziato per il nuovo accordo di emigrazione/immigrazione del 1964, l’Italia chiese e ottenne dalla Svizzera garanzie perché i figli degli immigrati italiani fossero inseriti nella scuola svizzera per potersi creare le basi per l’integrazione linguistica, scolastica, culturale e professionale nella società e nell'economia in trasformazione. 

L’Italia aveva visto giusto, mentre le istituzioni svizzere e italiane attive nel settore non furono in grado di diffondere tra gli immigrati la consapevolezza che il destino dei propri figli, soprattutto se fossero rimasti in Svizzera, sarebbe dipeso in larga misura dal loro livello d’integrazione. Se la maggior parte degli immigrati non era probabilmente in grado di conoscere e valutare i complicati rapporti tra conoscenze linguistiche, successo scolastico, scelta professionale (talvolta complicata e difficile per gli stessi svizzeri), apprendistato, integrazione professionale, integrazione sociale, ecc. le istituzioni italiane avrebbero dovuto capire e spiegare questi legami in modo da aiutare i genitori immigrati a fare le scelte giuste in funzione del bene certo o probabile dei loro figli.

Va inoltre ricordato che a livello europeo, in tutti i Paesi d’emigrazione e d’immigrazione, negli anni Sessanta si cominciava a considerare importante il problema della scolarizzazione dei figli degli immigrati. Per questo fu facile tra l’Italia e la Svizzera trovare un’intesa su questo tema (frequenza della scuola pubblica svizzera e corsi di lingua e cultura italiane), prima ancora che il Consiglio d’Europa (di cui facevano già parte sia l’Italia che la Svizzera) nel 1970 raccomandasse con una risoluzione l’integrazione dei bambini stranieri nelle scuole locali.

Non va infine dimenticato che dal 1970, dopo la bocciatura della più pericolosa iniziativa antistranieri, la Confederazione è sempre più convinta che il rischio d'inforestierimento tende a diminuire quanto maggiore è l’integrazione. Pertanto per i figli degli immigrati essa doveva cominciare quanto prima possibile attraverso la frequenza della scuola svizzera, limitando la frequenza di altre scuole private solo a casi particolari.

Le «classi speciali»

Date queste premesse, potrebbe sembrare che dagli anni Settanta, grazie all'intesa italo-svizzera, il problema fosse se non risolto almeno ben incardinato. Invece non lo era affatto. I problemi da superare erano talmente tanti che non bastarono per parecchio tempo gli accordi e le buone intenzioni. Basti pensare che i bambini da inserire nelle diverse classi della scuola svizzera avevano ben poco in comune: oltre all'età, erano diversi la provenienza, le esperienze prescolastiche vissute, le conoscenze linguistiche, l’ambiente sociale, le condizioni familiari, i progetti di vita dei genitori per sé e per i loro figli, ecc.

Solo una buona scolarizzazione garantiva di norma un buon apprendistato, 
ma esistevano anche buone forme di ricupero  (allievi del CISAP, anni ’80)
Data l’insicurezza sul futuro in cui vivevano moltissimi immigrati sul finire degli anni Sessanta, molti figli di immigrati italiani avevano iniziato la scuola obbligatoria in Italia, altri, in previsione di un prossimo rientro erano stati iscritti nelle scuole private italiane (gestite in gran parte dalle Missioni cattoliche), altri ancora erano stati collocati nei vari istituti privati al di qua o al di là del confine italo-svizzero. Tra i bambini rimasti in famiglia fino all’inizio dell’età scolastica molti non avevano frequentato l’asilo ed erano quindi privi di esperienze di socializzazione con i coetanei svizzeri.

Risolvere tutte queste e simili disparità divenne per le strutture scolastiche svizzere un compito non indifferente, perché, se il mandato era chiaro, ossia inserire gli stranieri nella scuola svizzera, non lo erano altrettanto i tempi, le condizioni, i modi, gli aiuti di sostegno. Per anni si andò avanti per tentativi, finché divenne evidente che non aveva senso inserire in un corso regolare allievi che non avevano alcuna possibilità di seguire proficuamente il programma scolastico normale.

Fu per queste ragioni e nell'interesse dei bambini che vennero proposte e organizzate classi «speciali» per stranieri. L’obiettivo non era quello di scolarizzarli separatamente dagli svizzeri o da altri connazionali (generalmente figli di italiani domiciliati e integrati), ma di prepararli per essere reinseriti nei corsi regolari appena fossero stati in grado di seguire regolarmente le lezioni. Non sempre, tuttavia, lo scopo fu compreso, forse perché non ben precisato.

Erano evitabili le «classi speciali»?

Soprattutto negli anni Settanta queste «classi speciali» furono aspramente criticate in alcuni ambienti associazionistici sia perché frequentate da un numero ritenuto abnorme di bambini italiani e sia perché ritenute penalizzanti per il loro futuro. Già l’assegnazione a queste classi appariva talvolta una sorta di condanna senza appello di bambini del tutto «normali», salvo l’handicap linguistico. L’associazione delle Colonie Libere ne chiedeva la soppressione considerandole «classi-ghetto». Alcuni genitori ritenevano inoltre che l’aver frequentato una classe speciale preconizzasse per i loro figli l’esito finale della scuola obbligatoria al grado più basso e una preclusione di scelte professionali (apprendistati) di alto livello.

Chi scrive ha partecipato all'epoca a numerose discussioni anche pubbliche su questo tema e può confermare sia la ragionevolezza delle reazioni negative di molti genitori e sia la difficoltà per le istituzioni scolastiche svizzere di trovare soluzioni migliori senza stravolgere l’obbligo generale, nell'interesse dei bambini e della società: tutti devono frequentare la scuola pubblica, tutti devono poter accedere al mondo delle conoscenze e tutti devono essere valutati secondo le prestazioni fornite. Anche nella consapevolezza che quanto avvenuto si sarebbe potuto svolgere in altri modi, è difficile ritenere che la «classi speciali» per allievi stranieri fossero del tutto evitabili e ciononostante si potessero ottenere gli stessi o addirittura migliori risultati.

Si poteva fare meglio?

Certamente. Gli errori nell'impostazione, nella gestione e nel controllo di queste misure concepite «eccezionalmente» e per un tempo limitato sono infatti innegabili. E’ certamente mancata un’adeguata informazione. Benché le «classi speciali» per stranieri non fossero «scuole speciali» e avessero una durata limitata (di norma uno-due anni) e una finalità precisa, quella d’integrare meglio i bambini nelle classi normali, si è lasciato che molti genitori interessati interpretassero quella soluzione temporanea come una sorta di verdetto definitivo. Raramente, nelle discussioni pubbliche tra italiani, si spiegava in maniera chiara la natura e lo scopo di queste classi, mai si esponevano in modo convincente i vantaggi della loro frequenza.

Negli ambienti italiani si preferiva sovente la critica, talvolta spietata, del sistema scolastico svizzero ritenendolo troppo selettivo e discriminatorio, piuttosto che cercare di spiegarlo, analizzando i fatti e cercando eventualmente soluzioni alternative. Alcune associazioni con ampio seguito tra gli immigrati erano talmente orientate alla politicizzazione del tema da trascurare la loro responsabilità di sostenere e incoraggiare una maggiore partecipazione delle istituzioni e delle stesse associazioni alla gestione e al controllo delle classi speciali e in genere del sistema scolastico svizzero.

Con una maggiore partecipazione delle istituzioni e delle associazioni, fra l’altro auspicata dalle autorità scolastiche svizzere, è assai probabile che molte incomprensioni e molti pregiudizi sarebbero svaniti e, ciò che è più importante, molti più giovani italiani avrebbero incontrato nella scuola, nell'apprendistato e nella vita professionale meno difficoltà e maggior successo, facilitando la loro integrazione scolastica, professionale e sociale. (Fine)

Giovanni Longu
Berna, 1° dicembre 2021 

24 novembre 2021

Immigrazione italiana 1970-1990: 62. La seconda generazione e l’integrazione scolastica (1)

Nell'articolo precedente si diceva che all’inizio del periodo in esame (1970-1990) la Svizzera era impreparata a gestire il fenomeno della seconda generazione (anche solo di quella italiana, allora comunque preponderante). Se ne dava una spiegazione apparentemente plausibile: quel fenomeno non era stato previsto perché la politica immigratoria svizzera riguardava essenzialmente lavoratori stranieri «ospitati temporaneamente» (Gastarbeiter), per lo più giovani e senza figli, che dopo un soggiorno di qualche stagione o anno sarebbero ritornati al loro Paese di provenienza. Dalla seconda metà degli anni Sessanta, invece, non lo si poteva più ignorare e la Svizzera dovette cercare soluzioni appropriate e coerenti con la nuova politica immigratoria di stabilizzazione che aveva avviato. Fu un’impresa tutt’altro che semplice.

Fu l’Italia a sollevare il problema

Durante la lunga trattativa sfociata nell'Accordo di emigrazione/immigrazione del 1964, fu la delegazione italiana a sollevare il problema della seconda generazione, che del resto stava diventando di assoluta evidenza. Bastava osservare la progressione delle nascite di italiani negli ospedali svizzeri nei primi cinque anni del decennio (6503 nel 1960, 9130 nel 1961, 12.306 nel 1962, 14.835 nel 1963, 16.835 nel 1964). I dati ancora più significativi degli anni successivi avrebbero confermato la tendenza. Inoltre, in base alle facilitazioni previste nell’Accordo per i ricongiungimenti familiari, c’era da aspettarsi nell’arco di pochi anni l’arrivo massiccio di migliaia di bambini minorenni rimasti in Italia. Per questi bambini sarebbe stato dunque ineludibile il problema della scolarizzazione.

La delegazione italiana sollevò il problema anche alla luce della nuova politica immigratoria svizzera orientata alla stabilizzazione e all’integrazione della popolazione straniera residente. E poiché anche le autorità politiche italiane erano dell’opinione che la scolarizzare dei figli dei connazionali emigrati dovesse avvenire nelle scuole locali dei Paesi d’immigrazione, la richiesta dei negoziatori italiani che si favorisse l’inserimento dei bambini italiani nelle scuole svizzere sembrò quanto mai opportuna.

Contrariamente ad altre richieste italiane, questa trovò nella delegazione svizzera una pronta accoglienza, pur osservando che, essendo la materia scolastica di competenza cantonale, la Confederazione poteva solo raccomandare ai Cantoni l’adozione di «provvedimenti intesi a facilitare l’inserimento dei figli dei lavoratori italiani nelle scuole pubbliche svizzere». Non fu difficile per la Confederazione fare questa raccomandazione perché i Cantoni erano tutti ben disposti ad accogliere i nuovi arrivati.

Difficoltà iniziali

L’accordo delle due parti del negoziato non significava ancora la soluzione del problema, ma stava ad indicare due presupposti fondamentali per avviarla: la consapevolezza della Svizzera che qualunque politica d’integrazione dei giovani immigrati non poteva trascurare in alcun modo la scolarizzazione dei piccoli stranieri nelle strutture scolastiche locali e la consapevolezza dell’Italia che si dovesse superare la contrapposizione tra scuola privata italiana e scuola pubblica svizzera, in nome del bene certo o probabile dei bambini.

Quando si passa dai principi alla loro concretizzazione è inevitabile che s’incontrino delle difficoltà. Anche in questo caso non mancarono tanto nel campo svizzero quanto nel campo italiano. Sia la Svizzera che l’Italia dovevano infatti operare scelte radicali, che si sarebbero scontrate con difficoltà oggettive (soprattutto d’infrastrutture e di personale), incomprensioni e soprattutto col rischio di non fare nulla per non esacerbare gli animi e rompere gli equilibri esistenti.

Difficoltà per la Svizzera

Per le autorità federali si trattava soprattutto di motivare i Cantoni ad affrontare la scolarizzazione dei piccoli stranieri con grande senso di responsabilità, non solo adeguando o creando le infrastrutture prescolastiche e scolastiche necessarie (asili nido, scuole, palestre, ecc.), ma anche garantendo ai nuovi scolari il sostegno psicologico e pedagogico di cui avrebbero avuto sicuramente bisogno.

Benché tutti i Cantoni si fossero dichiarati ben disposti in linea di principio ad affrontare i nuovi compiti, era prevedibile che avrebbero incontrato nella fase realizzativa non poche né facili difficoltà, soprattutto a livello psicologico e pedagogico. I bambini stranieri provenivano generalmente da ambienti sociali poco scolarizzati, molti di essi non avevano frequentato nemmeno un anno di asilo nelle strutture svizzere, altri arrivavano direttamente dall’Italia e quasi tutti erano privi di un supporto familiare valido che li aiutasse a superare indenni le prime difficoltà di una scuola esigente e fortemente selettiva. Il personale insegnante non era però formato adeguatamente per affrontare queste problematiche e agevolare l’inserimento in una scuola tipicamente svizzera bambini di provenienza, cultura e preparazione diverse. Né si poteva prepararlo in breve tempo.

Difficoltà per l’Italia

Per le autorità italiane si trattava anzitutto di aiutare con argomenti convincenti molti immigrati indecisi a scegliere tra le scuole private italiane (gestite soprattutto dalle Missioni cattoliche italiane) e le scuole pubbliche svizzere in funzione del bene certo o probabile del bambino. Chi ha vissuto quell’epoca ricorda certamente le interminabili discussioni sull'argomento, il dramma di molte famiglie nella difficile scelta soprattutto quando in prospettiva c’era un rientro in Italia non immediato, le paure di quei genitori che temevano di perdere persino l’affetto dei propri figli se fosse venuta meno la facilità di comunicare con loro in italiano una volta soggiogati dalla lingua e dal mondo della scuola svizzera, per non parlare delle frustrazioni di molti genitori di non sentirsi in grado di aiutare i figli nelle prestazioni scolastiche.

Le autorità diplomatiche e consolari italiane erano pronte a sostenere molte iniziative, soprattutto dopo l’adozione da parte del Parlamento italiano della famosa legge 153 del 1971 sulle «iniziative scolastiche, di assistenza scolastica e di formazione e perfezionamento professionali da attuare all'estero a favore dei lavoratori italiani e loro congiunti». Ma anche con la legge e i cospicui finanziamenti collegati non s’illudevano che bastassero a garantire subito a tutti gli scolari italiani seri corsi di lingua e cultura italiane. Infatti occorreva coordinare i tempi e i luoghi con le autorità scolastiche svizzere, superare le polemiche riguardanti le scuole private, stabilire un coordinamento centrale dei corsi e degli insegnanti, motivare i genitori a mandare i figli a questi corsi, anche se talvolta a scapito del tempo libero o di altre lezioni della scuola svizzera, ecc.

Interventi mirati

La Confederazione era convinta della necessità d’inserire i bambini stranieri nella scuola svizzera e già in occasione del Messaggio alle Camere federali per la ratifica dell’Accordo del 1964 con l’Italia aveva sostenuto la necessità che i Cantoni adeguassero le strutture scolastiche alle nuove esigenze. Non potendo interferire nelle questioni prettamente scolastiche perché di competenza cantonale, le autorità federali intervenivano sulla politica generale che mirava a rendere l’integrazione dei giovani stranieri necessaria e possibile, cominciando dall’inserimento dei bambini stranieri nella scuola svizzera.

Attraverso gli studi e le ricerche della Commissione federale consultiva per il problema degli stranieri (CFS), istituita nel 1970, il Consiglio federale acquisiva preziose informazioni sullo stato dell’integrazione, sulle difficoltà che s’incontravano sul territorio e sulle possibili soluzioni. Per questo la CFS intratteneva stretti rapporti con tutte le istituzioni pubbliche (Cantoni, Comuni, Chiese, ecc.) e con alcune istituzioni cittadine (Consigli, Commissioni di stranieri, Centri di contatto e simili) sorte appositamente per favorire il contatto tra svizzeri e stranieri e indirettamente l’integrazione. Dal 1974 la CFS consultava regolarmente anche una rappresentanza qualificata delle organizzazioni degli stranieri al fine di coinvolgerle in questo ampio progetto d’integrazione.

A loro volta, i Cantoni, principali responsabili della scolarità obbligatoria, s’impegnarono in molti modi per agevolare l’inserimento dei bambini stranieri. Alcuni servizi scolastici locali offrirono ai giovani stranieri senza dimestichezza con la lingua tedesca lezioni supplementari di tedesco. Ciononostante, i risultati raggiunti negli anni Settanta sono stati insufficienti e si dovrà attendere ancora a lungo prima di ottenere quelli soddisfacenti.

Tuttavia, va dato atto alle autorità scolastiche svizzere di aver cercato in vari modi di favorire l’inserimento sereno degli allievi stranieri, ma non si può negare che alcune soluzioni (per esempio l’istituzione di «classi speciali») non siano state preparate, concordate e comunicate adeguatamente (come risulterà meglio dal prossimo articolo). (Segue)

Giovanni Longu
Berna 24.11.2021 

17 novembre 2021

Immigrazione italiana 1970-1990: 61. La seconda generazione (2)

L’eccezionalità del fenomeno della «seconda generazione» di italiani sul finire degli anni Sessanta era dovuta sia alla sua straordinaria portata e sia all'impreparazione delle istituzioni soprattutto svizzere a fronteggiarla. La combinazione di questi due elementi rendeva qualsiasi soluzione particolarmente complessa e difficile. Si è già parlato della gravità del fenomeno per il numero elevato di bambini interessati (cfr. articoli precedenti), ma anche l’impreparazione delle istituzioni merita qualche spiegazione. Tanto più che nell'ormai secolare storia di Paese d’immigrazione, non è pensabile che la Svizzera abbia dovuto affrontare il tema dei figli degli stranieri per la prima volta solo a cavallo del 1970.

La seconda generazione fino al 1931

Figli di immigrati «ospiti» di uno dei tanti collegi lungo la frontiera italo-svizzera.
Effettivamente già in passato la Svizzera aveva dovuto occuparsi della seconda generazione di stranieri presenti sul suo territorio. Lo faceva nel suo interesse quando, negli accordi bilaterali con gli Stati vicini, per dovere di reciprocità accettava che gli stranieri e i loro figli continuassero a restare tali finché volevano e i propri cittadini e i loro figli continuassero a restare svizzeri anche vivendo in Germania, in Italia o altrove. Lo faceva pure suo malgrado, come nel Trattato di domicilio e consolare del 1868 tra l’Italia e la Svizzera, quando la Confederazione accettò che anche gli italiani naturalizzati in Svizzera, quindi svizzeri, non potessero sottrarsi all'obbligo del servizio militare in Italia.

La seconda generazione degli immigrati era divenuta un problema politico serio quando agli inizi del secolo scorso si cominciò a vedere nel crescente numero di stranieri (specialmente tedeschi e italiani) e dei loro figli nati in Svizzera un pericolo e per indicarlo s’inventò nel 1900 la parola Überfremdung, «inforestierimento». Per evitare che si diffondesse tra la popolazione un forte sentimento antistraniero, il dibattito politico si concentrava sulla ricerca del metodo più semplice e realizzabile per ridurre la crescita e possibilmente il numero totale di stranieri.

Poiché a causa dei vari accordi bilaterali era quasi impossibile intervenire direttamente sulla prima generazione, decisamente tedesca, italiana o francese e pressoché insensibile all'attrazione della cittadinanza svizzera, si pensò di agire quasi esclusivamente sui giovani stranieri, ritenendoli già sufficientemente integrati perché nati in Svizzera (benché frequentassero ambienti, scuole comprese, quasi esclusivamente non svizzeri). Si giunse persino ad approvare una legge federale (1903) che dava ai Cantoni, competenti in materia di cittadinanza, la facoltà di introdurre nell'ordinamento cantonale una sorta di jus soli, ossia la naturalizzazione automatica per gli stranieri di seconda generazione nati in Svizzera.

La legge rimase inapplicata per la contrarietà dei Cantoni (ma anche della popolazione immigrata interessata) e la Confederazione, di fronte a tali ostacoli, rinunciò per oltre un decennio a nuovi tentativi di soluzione generale, anche se il tema dell’Überfremdung era sempre presente nell'agenda del Consiglio federale. Da allora, tuttavia, cominciò a farsi strada il pensiero che alla naturalizzazione ciascuno dovesse arrivarci attraverso l’«assimilazione» individuale (il termine «integrazione» era ancora se non inesistente, scarsamente usato).

La legge sugli stranieri del 1931

Poiché nell'opinione pubblica svizzera la paura degli stranieri non era stata scacciata nemmeno dalle avversità della prima guerra mondiale e dalla vistosa diminuzione della popolazione straniera dal 14,7 per cento (nel 1910) all'8,7 per cento (nel 1930), l’Assemblea federale pensò di dare una soluzione pressoché definitiva al problema dell'inforestierimento attraverso una nuova legge federale sulla dimora (di durata limitata) e il domicilio (di durata illimitata) degli stranieri, approvata il 26 marzo 1931 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1934.

L’importanza di questa legge è facilmente comprensibile se si pensa che essa ha fissato i principi fondamentali della politica immigratoria svizzera per oltre settant'anni, ossia fino all'entrata in vigore della nuova legge sugli stranieri il 1° gennaio 2008. La sua durata e i principi in essa contenuti spiegano anche in larga misura l’impreparazione della Svizzera a gestire l’emergenza della seconda generazione alla fine degli anni Sessanta. Essi meritano pertanto di essere richiamati, almeno sommariamente.

Anzitutto, però, occorre ricordare che la legge sugli stranieri del 1931 doveva costituire per il Consiglio federale e per il legislatore una specie di muro contro l'«inforestierimento», ossia il pericolo che una massa di stranieri ritenuti «ospiti», Gastarbeiter, rimanesse in Svizzera a tempo indeterminato. La legge non era dunque destinata, come qualcuno potrebbe pensare, a contenere l’afflusso di stranieri (contro cui sarebbe stata largamente inefficace a causa dei trattati bilaterali con i Paesi vicini da cui provenivano nella stragrande maggioranza), ma a scoraggiare la loro permanenza in territorio svizzero.

I cardini della politica migratoria dal 1931 al 2008

Per raggiungere tale obiettivo non occorreva introdurre nuove modalità d’ingresso in Svizzera, ma bastava disciplinare le condizioni d’ingresso e della permanenza degli stranieri. Per esempio, vincolando l’ingresso e il soggiorno dei lavoratori stranieri non solo a un permesso di lavoro e a un permesso di soggiorno, ma anche a un reale interesse della Svizzera ad ospitarli. Per questo la legge prescriveva all'articolo 16 che «nelle loro decisioni, le autorità competenti a concedere i permessi terranno conto degli interessi morali, economici del paese nonché dell’eccesso della popolazione straniera». In altre parole, le nuove ammissioni dovevano avvenire unicamente in funzione della situazione del mercato del lavoro, del clima sociale, della situazione degli alloggi, della lotta all'inforestierimento.

Inoltre, venivano introdotte per la prima volta nella legge due caratteristiche determinanti per la successiva politica federale degli stranieri, la discrezionalità dei permessi e la precarietà. Con la prima si riconosceva un potere pressoché assoluto agli organi dello Stato di concedere o meno i permessi e di revocarli in base a criteri già allora ritenuti da taluni poco oggettivi. Con la seconda si stabiliva il principio della durata limitata dei permessi e della possibilità che venissero revocati o non venissero rinnovati.

L’articolo 4 precisava, a scanso di equivoci e di pretese ingiustificate che «l’autorità decide liberamente, nei limiti delle disposizioni di legge e dei trattati con l’estero, circa la concessione del permesso di dimora o di domicilio». Pertanto si stabiliva anche che l’autorità non era obbligata al rinnovo dei permessi, qualora fossero venute meno le condizioni per le quali erano stati rilasciati.

Si sa infine che a vigilare sull'osservanza della legge e dei regolamenti c’era un’attenta Polizia degli stranieri, che solo a nominarla incuteva timore. Del resto doveva apparire singolare che a presiedere alla sorveglianza di decisioni essenzialmente amministrative ci fosse una «Polizia» speciale. Il perché è invece chiaro: la nuova legge e tutte le misure ad essa collegate dovevano scoraggiare che molti stranieri prolungassero a tempo indeterminato il loro soggiorno in Svizzera.

L’emergenza della seconda generazione

Il risultato è stato che effettivamente la legge, le ordinanze e la polizia degli stranieri hanno consentito che milioni di lavoratori stranieri dimorassero in questo Paese per qualche stagione o anno finché l’economia ne aveva bisogno e poi se ne tornassero definitivamente al loro Paese d’origine, perché la Svizzera non voleva essere un Paese d’immigrazione senza ritorno.

Giovani  in formazione al Cisap (anni ’80)
Finché questa politica ha funzionato non c’è mai stato un serio problema della «seconda generazione» perché il continuo movimento di arrivi e partenze rendeva difficile anche solo pensare a costituire qui una famiglia, crescere dei figli, farsi una casa, integrarsi.

Solo nella seconda metà degli anni Sessanta, quando questo movimento incessante di migranti ha cominciato a rallentare perché l’economia aveva bisogno di personale stabile e fidelizzato all’azienda in cui lavorava, gli immigrati hanno cominciato dapprima a prolungare il loro soggiorno in Svizzera e poi a prendere il domicilio a tempo indeterminato, a costituire una famiglia, a fare figli o farsi raggiungere dai figli minorenni rimasti in Italia. In breve, l’emergenza della seconda generazione era inevitabile, soprattutto dopo che l’Italia durante il negoziato per un nuovo accordo di emigrazione/immigrazione (nella prima metà degli anni Sessanta) aveva chiesto espressamente alla controparte svizzera di prendere in considerazione i bisogni di formazione dei piccoli italiani.

Solo allora, ufficialmente nel 1970, come si vedrà nel prossimo articolo, la Confederazione prese coscienza del fenomeno in crescita della seconda generazione senza poter invocare leggi e regolamenti ormai travolti da una nuova generazione di stranieri, non più riconducibili alla categoria degli «immigrati» e più simili ai coetanei svizzeri che ai coetanei del Paese d’origine. (Segue).

Giovanni Longu
Berna, 17.11.2021

10 novembre 2021

Immigrazione italiana 1970-1990: 60. La seconda generazione (1)

Chi ha seguito gli articoli precedenti avrà sicuramente notato che alla base dei cambiamenti fondamentali riguardanti l’immigrazione italiana in Svizzera nel periodo in esame (1970-1990) c’era la spinta inarrestabile della «seconda generazione». Il fenomeno non era di per sé una novità assoluta, ma per la sua portata e complessità rappresentava per la Svizzera una sfida straordinaria che non era preparata ad affrontare. Poiché è stato tale da modificare radicalmente il corso della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, ad esso verranno dedicati alcuni articoli di approfondimento. Ovviamente non sarà possibile esaminare tutti gli aspetti del fenomeno, su cui esiste ormai una vasta letteratura, per cui ne verranno trattati solo alcuni ritenuti utili sia per accrescerne la conoscenza nei lettori interessati e sia per aiutare a capire l’influenza che la seconda generazione ha avuto non solo sulla componente italiana della popolazione straniera, ma anche sull'italianità della Svizzera.

Precisazioni necessarie

La scolarizzazione della seconda generazione ha creato non 
pochi problemi agli allievi, alle famiglie e alle istituzioni.
Nel linguaggio comune ancora oggi, spesso, il termine «immigrati» viene usato come sinonimo di «stranieri» e viceversa. I due termini, invece, non andrebbero confusi perché indicano realtà diverse. Fino agli anni Settanta que
ste erano abbastanza sovrapponibili, perché gli stranieri erano quasi tutti immigrati. Dagli anni Settanta in poi, invece, un numero crescente di stranieri non era più costituito da immigrati, ma da discendenti di immigrati.

I due gruppi, già di per sé eterogenei per origine, età, formazione, ecc. vengono anche identificati con le espressioni «prima generazione» (immigrati nati all'estero) e «seconda generazione» (figli di immigrati, nati in Svizzera), ma non sempre riescono a dare l’idea della consistenza e della diversità, anche perché ormai da tempo al secondo anello della catena se ne stanno aggiungendo altri, la terza e successive generazioni, e soprattutto perché un numero crescente di giovani stranieri acquisisce la nazionalità svizzera. Un po’ di chiarezza è dunque quanto mai opportuna: i figli della seconda generazione non sono immigrati.

Le statistiche svizzere, da cui sono attinti i principali dati usati in questi articoli, sono in genere molto precise, perché distinguono chiaramente le diverse realtà, focalizzando l’attenzione su aspetti particolari. Mentre tradizionalmente le principali distinzioni demografiche si basavano sulla nazionalità e sul luogo di nascita, da tempo l’Ufficio federale di statistica ha introdotto una distinzione molto significativa basata sull'origine: «popolazione senza passato migratorio» e «popolazione con un passato migratorio». In questo modo si riesce ad evidenziare, per esempio, l’incidenza della «seconda generazione» rispetto alla «prima generazione» nel secondo gruppo o la portata degli stranieri di antiche origini (oltre la terza generazione) nel primo gruppo.

L’importanza di queste distinzioni risulta evidente se si pensa che attualmente quasi il 38 per cento della popolazione residente di più di 15 anni ha un passato migratorio e che di questo gruppo fanno parte ormai anche molti svizzeri, perché più di un terzo ha (anche) il passaporto svizzero e tende ad ampliarsi, sebbene la maggioranza (quasi due terzi) sia ancora costituita da stranieri. Gli italiani costituiscono fin dal secondo dopoguerra il gruppo più consistente della popolazione con un passato migratorio e la seconda generazione, in forte crescita rispetto alla prima, contribuisce a conservare questa posizione di punta e a rafforzare l’italianità della Svizzera.

Quando nacque il problema?

Prima di analizzare alcuni aspetti fondamentali della «seconda generazione» italiana del periodo in esame, giova ricordare che fino alla seconda metà degli anni Sessanta essa non aveva mai costituito un problema. La spiegazione è semplice: la prima ondata immigratoria dalla fine della seconda guerra mondiale all'accordo italo-svizzero d’immigrazione era costituita soprattutto da stagionali, per di più sottoposti a un regime di «rotazione» che sembrava voler indicare chiaramente che in Svizzera non ci si poteva fermare a lungo, tanto meno tentare di metterci radici.

Accanto agli stagionali, però, fin dall'immediato dopoguerra si venne a creare un nucleo alimentato costantemente da nuovi arrivi di residenti stabili. La sua crescita risultava anzi impressionante perché in dieci anni, tra il 1950 e il 1960, gli italiani residenti (annuali e domiciliati) passarono da 140.280 persone a 346.223. Ciò nonostante, il numero di figli di nazionalità italiana nati negli anni Cinquanta è relativamente basso: circa 30.000 in tutto il decennio.

Con l’arrivo in Svizzera, negli anni Sessanta, di centinaia di migliaia di immigrati, i nati italiani furono oltre 157.000, con un record di nascite nel 1969: 19.379. Non tutti questi bambini erano nati in Svizzera, perché molti erano giunti in età prescolastica dopo l’accordo italo-svizzero d’immigrazione del 1964, che aveva alleggerito le condizioni per i ricongiungimenti familiari. Nel 1970, come ricordato nell'articolo precedente, in Svizzera vennero censiti 151.625 piccoli italiani. La popolazione residente italiana era nel frattempo passata da 346.223 a 583.855. I problemi legati alla seconda generazione costituirono per tutto il decennio e oltre una vera emergenza.

Problemi a non finire

Oggi è persino scontato parlare della seconda generazione degli italiani in Svizzera come di una grande risorsa che ha contribuito a trasformare l’intero Paese e non solo la collettività italiana. Per buona parte degli anni Settanta essa ha invece rappresentato una somma considerevole di problemi a cui nessuna istituzione era in grado di offrire soluzioni adeguate.

Per i bambini nati in Svizzera fu più facile superare le difficoltà linguistiche.
Oggi molti osservatori riconoscono nella seconda generazione un buon esempio di integrazione riuscita e molti italiani rimasti tali o naturalizzati si considerano ben integrati perché hanno potuto seguire una scolarità normale, hanno appreso una buona professione e hanno raggiunto un tenore di vita corrispondente alla media svizzera. Implicitamente si riconosce anche alla Svizzera una grande capacità d’integrare i giovani stranieri, ma si dimentica che fino ad allora le autorità svizzere non avevano mai pensato che l’immigrazione potesse diventare da fenomeno temporaneo una condizione strutturale dell’economia e della società.

Agli inizi degli anni Settanta dell’integrazione esisteva appena il nome, ma gliene veniva preferito un altro, «assimilazione», perché le idee al riguardo non erano chiare, non esistevano modelli da seguire, non esistevano istituzioni in grado di occuparsene, non esisteva una politica d’integrazione. Esisteva solo una richiesta precisa dell’Italia, formulata durante il negoziato sull'accordo d’immigrazione del 1964, quella di facilitare l’inserimento degli stranieri nella scuola locale.

Ma i problemi che poneva la seconda generazione degli italiani erano in realtà molti di più e alcuni anche molto gravi. Basti pensare al problema dell’«alloggio adeguato» dei genitori, come volevano le autorità svizzere, in un’epoca in 

cui mancavano le abitazioni a buon mercato ed era difficile produrle senza ricorrere a nuova manodopera straniera, rischiando di suscitare i malumori degli ambienti xenofobi e di contraddire la nuova politica immigratoria del Consiglio federale che mirava a una riduzione e stabilizzazione della manodopera estera.

A mancare, in quel periodo, non erano però solo le abitazioni adeguate per gli immigrati con figli, ma anche le scuole materne, gli asili nido, l’edilizia scolastica, gli insegnanti preparati ad accogliere i nuovi allievi portatori di nuovi problemi, gli ospedali, ecc. Si sa che molte autorità comunali e cantonali erano seriamente preoccupate, perché non riuscivano a trovare soluzioni soddisfacenti.

I problemi sollevati dal fenomeno della seconda generazione riguardavano, purtroppo, anche le stesse famiglie dei piccoli italiani. E’ vero che, soprattutto dopo l’accordo italo-svizzero, i genitori di questi bambini auspicavano per loro una vita diversa da quella che avevano dovuto affrontare loro, ma molti di essi esitavano persino a decidere se tornare in Italia o restare e quale scuola seguire. E anche coloro che avevano deciso di restare, pensando soprattutto al bene dei figli, spesso non erano in grado di fornire loro l’aiuto necessario a superare le prime difficoltà linguistiche e scolastiche, a sostenerli nella scelta scolastica e professionale, a favorirne l’integrazione sociale.

Benché i problemi posti dalla seconda generazione soprattutto alle istituzioni svizzere fossero tanti e di non facile soluzione, sarà interessante vedere come vennero superati, anche se molte soluzioni richiesero molto tempo e molti sforzi. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 10.11.2021

04 novembre 2021

4 novembre: due valori non negoziabili

Oggi, 4 novembre in Italia e nelle comunità italiane all'estero si celebra il Giorno dell’Unità nazionale, ma quest’anno anche il centenario della tumulazione del Milite ignoto all'Altare della Patria. La salma del Milite ignoto giunse a Roma da Aquileia, dov'era stata indicata dalla madre di un soldato disperso per simboleggiare tutte le vittime di quell'«inutile strage» in cui morirono oltre seicentomila italiani. Insieme, le due ricorrenze, mi fanno pensare a due valori, l’unità nazionale e la sovranità popolare, che vanno difesi ed esaltati insieme, mai sacrificando l’uno all'altro. Uno Stato si esalta se rispetta e difende la dignità e la libertà dei suoi cittadini e un Popolo è veramente sovrano quando riesce a stimolare lo Stato ad agire sempre per la giustizia e la prosperità di tutti i suoi membri.

Che si trattasse di valori non negoziabili lo capirono bene, cent'anni fa, anche i Ticinesi, che in occasione della tumulazione del Soldato ignoto all'Altare della Patria in Roma dedicarono a Lugano solenni onoranze speciali. Riportano le cronache che, dopo la solenne funzione funebre in chiesa, la sera, nella Casa degli Italiani, un reduce fece l'elogio dell'umile «Soldato ignoto italiano caduto per la Santa causa della Patria e dell'Umanità». 



03 novembre 2021

Immigrazione italiana 1970-1990: 59. I numeri raccontano (9)

Chi ha vissuto anche solo una parte degli anni Settanta ricorderà sicuramente il grande fermento che animava l’immigrazione italiana in Svizzera. Poiché dagli anni della crisi della metà del decennio i nuovi arrivi dall'Italia erano inferiori alle partenze, i protagonisti principali del cambiamento erano gli immigrati della prima generazione che avevano deciso di restare, pur con grandi timori ma con molte speranze (cfr. articolo precedente). Si trattava infatti di superare non poche difficoltà e di riorientare l’esperienza migratoria verso l’integrazione per sé e soprattutto per la seconda generazione. Quel periodo della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera merita di essere rievocato con dati e fatti che ne attestino l’importanza decisiva per il resto del suo sviluppo per molti versi interessante e avvincente.

I protagonisti del cambiamento

L’ambiente del primi anni Settanta fu ben evidenziato dal
famoso film di Nino Manfredi «Pane e cioccolata» (1974)
La svolta avviata dall'immigrazione italiana in Svizzera negli anni Settanta e proseguita nel decennio successivo ha avuto molti protagonisti, di cui si è trattato negli articoli precedenti (ambienti politici, autorità svizzere e italiane, sindacati, Chiese, associazioni, ecc.), ma soprattutto loro, gli immigrati (prima generazione), grandi lavoratori e fiduciosi in un futuro migliore.

Una prima considerazione riguarda la loro scelta coraggiosa di restare in Svizzera, specialmente nella prima metà degli anni Settanta: di fronte alla tentazione di porre fine definitivamente all'esperienza migratoria, spesso con un po’ di disgusto, e rientrare al proprio paese come fecero diverse migliaia di italiani, essi decisero di rimanere, nonostante il clima sociale poco favorevole nei loro confronti e le enormi difficoltà che sapevano di dover affrontare. Si è trattato di una scelta molto coraggiosa, ma motivata da una grande speranza.

Bisogna anche aggiungere che in quegli anni le autorità italiane e le grandi associazioni di immigrati, molto attive e presenti nei decenni precedenti, non offrivano loro il sostegno sperato per impreparazione, impotenza e persino qualche pregiudizio nei confronti del sistema politico, economico, sindacale, sociale, scolastico… svizzero. Quanto era facile la critica del «sistema svizzero», tanto era difficile formulare proposte che non fossero ideologiche, irrealizzabili e spesso percepite dagli svizzeri come «pericolose».

Gli immigrati che avevano deciso di restare dovevano contare soprattutto sulle proprie forze, ma dovevano anche cercare di essere proattivi e cercare ad ogni costo il dialogo e la comprensione reciproca. Le forze trainanti restavano comunque la speranza di un rasserenamento del clima generale e di una ripresa economica, la coesione e il bene della famiglia, la capacità di adattamento dei loro figli al sistema scolastico e professionale svizzero, la disponibilità all’integrazione.

Un atteggiamento proattivo e positivo

Ben sapendo che i problemi non si risolvono scaricando le responsabilità sugli altri, quegli immigrati finirono per convincersi che anch’essi dovevano contribuire maggiormente a trovare soluzioni adeguate ai loro problemi, impegnandosi per esempio a migliorare la propria cultura (e molti conseguirono in quegli anni il diploma di terza media, di cui era privo il 70/80%), imparare la lingua del posto, per raggiungere almeno un livello sufficiente di comunicazione con gli svizzeri, migliorare le proprie competenze professionali.

A quest’ultimo riguardo merita di essere ricordato che nel ventennio in esame non c’era probabilmente in Svizzera alcun italiano immigrato che non sapesse che esisteva in molti centri un’ampia offerta di corsi professionali in grado di assicurare una certa tranquillità occupazionale a chi li avesse frequentati assiduamente fino alla fine. A conoscenza dei cambiamenti in atto soprattutto nel settore industriale (dov’era occupata la maggior parte dei lavoratori italiani) molti ne approfittarono e non ebbero mai a pentirsi degli sforzi fatti. Questa loro tranquillità consentiva loro, fra l’altro, di ispirare fiducia all’intera famiglia e soprattutto ai figli, per i quali non potevano augurare altro che un futuro sicuro e migliore di quello che avevano dovuto affrontare loro quando decisero, pieni di speranza, di emigrare in Svizzera.

Le difficoltà da superare

Per rendersi conto delle difficoltà incontrate dalla prima generazione rimasta in questo Paese dopo gli scossoni degli anni Settanta bisognerebbe anche ricordarne che la xenofobia non era scomparsa. Sebbene gli ambienti xenofobi perdessero consensi nell'opinione pubblica ad ogni votazione, per gli immigrati italiani il clima sociale rimaneva teso e richiedeva grandi sforzi di adattamento e un atteggiamento proattivo per tentare di rompere l’isolamento e cercare il contatto con gli svizzeri sul posto di lavoro e nella vita quotidiana. Alla maggior parte dei lavoratori italiani non bastava risultare ineccepibili sul lavoro, ma aspiravano, giustamente, a una migliore convivenza con più dialogo, conoscenza reciproca, solidarietà.

Una delle maggiori preoccupazioni vissute dalle famiglie degli immigrati italiani negli anni Settanta e Ottanta era l’incertezza del futuro. Anche se man mano che passavano gli anni il sentimento della precarietà diminuiva, l’incertezza non scompariva mai. Essa era legata non tanto al tipo di permesso di soggiorno che si possedeva, quanto piuttosto all'evoluzione dell’economia e del lavoro. Si sapeva che si andava verso attività più esigenti e che in molte aziende s’introducevano nuove tecnologie produttive per cui erano in corso processi di trasformazione e razionalizzazione, che richiedevano meno personale non qualificato.

Allievi meccanici del CISAP (1970)
Questa situazione preoccupava molti lavoratori italiani venuti in Svizzera negli anni Sessanta, ma senza un’adeguata qualifica professionale, come del resto gran parte degli immigrati di quel decennio. Il rischio di perdere il lavoro e di cadere nella disoccupazione era angosciante, anche perché negli anni Settanta non c’era ancora l’obbligo assicurativo contro la disoccupazione. Molti immigrati, tuttavia, approfittando dei numerosi corsi professionali che venivano offerti in molte città svizzere, riuscirono sia pure a costo di grandi sacrifici a garantirsi per sé e per l’intera famiglia un futuro più tranquillo.

Un’altra esigenza che nasceva dal basso in seno alla collettività italiana era la valorizzazione delle donne, che probabilmente portavano il peso più grande dell’isolamento, dell’impreparazione scolastica e professionale, del doppio lavoro, della responsabilità nell'educazione dei figli. Numerose iniziative sorsero per loro e tra loro negli anni Settanta e Ottanta, ma raramente riuscivano nel breve periodo a migliorare sensibilmente la situazione. Fu tuttavia in quegli anni che venne avviato il processo di costante avvicinamento delle donne italiane ai connazionali maschi soprattutto nel campo dell’istruzione, della formazione professionale, del lavoro qualificato, della gestione familiare, del tempo libero, ecc.

La seconda generazione

La seconda generazione, cioè i figli nati in Svizzera o venuti dall'Italia in età prescolastica, hanno costituito certamente la più grande preoccupazione dei loro genitori, la prima generazione. Chi non ha dovuto affrontare da vicino problemi di questo tipo difficilmente può capire le ansie e le inquietudini dei genitori riguardo al futuro scolastico, professionale e sociale dei loro figli in un Paese oggettivamente difficile come questo. Allora «andare a scuola» non era semplice com’è ora. Per i figli degli immigrati le difficoltà erano maggiori perché cominciavano prima.

Trattandosi di un tema vitale per la storia che viene raccontata in questi articoli, si rimanda al prossimo un’analisi più approfondita dei problemi che ha posto la seconda generazione non solo alle famiglie, ma anche alle istituzioni. Qui basta osservare l’entità della seconda generazione nel suo complesso (ossia, alla fine del 1970, ben 151.625 piccoli italiani in età da 0 a 15 anni e 114.171 bambini della stessa età alla fine del 1980, nonostante il saldo migratorio negativo degli italiani in quel periodo) per rendersi conto che gli immigrati degli anni Settanta e Ottanta hanno dovuto affrontare, senza alcuna preparazione specifica, un compito enorme, quello di garantire che i loro figli non seguissero nella maniera più assoluta le loro esperienze di emigrati e che, se mai avessero deciso di restare per sempre in Svizzera, potessero avere una vita meno sacrificata e più dignitosa al pari dei coetanei svizzeri.

In conclusione

Osservando necessariamente in rapida sintesi questo lungo percorso di molti immigrati italiani si resta certo come annichiliti di fronte alle sofferenze fisiche e morali che hanno dovuto subire nel periodo in esame (pur sapendo che i risultati migliori li coglieranno nel periodo successivo), ma si resta anche positivamente sorpresi con quanta forza d’animo hanno affrontato le difficoltà, le paure, il senso di abbandono da parte delle istituzioni e al tempo stesso hanno saputo avvicinarsi con rispetto ma senza soggezione al mondo non sempre ospitale e amico degli svizzeri, hanno fatto sforzi non indifferenti per migliorare i contatti e le proprie capacità professionali, si sono comportati molto normalmente nella vita quotidiana facendosi apprezzare, pur con tante eccezioni, per il loro carattere positivo, l’attaccamento alla famiglia, l’allegria, la cucina, la musica, il modo di vestire, lo stile di vita, ecc.

E’ possibile dimenticare quegli anni, quelle donne e quegli uomini coraggiosi, che sfruttando le circostanze e con l’aiuto di altri protagonisti hanno avviato un processo che porterà alla trasformazione di quel mondo per molti versi criticato e odiato in un mondo non solo di pacifica convivenza ma anche di intensa condivisione e collaborazione?

Giovanni Longu
Berna 3.11.2021