03 novembre 2010

Tra francofonia e italofonia… quanta differenza!

Si sono riuniti recentemente a Montreux, in Svizzera, i principali rappresentanti della francofonia. Non era la prima volta e non sarà l’ultima, perché i francofoni nel mondo (220 milioni di persone) sono in crescita. Una crescita non solo numerica ma anche economica, politica e culturale, che trova nella lingua francese un elemento unificante irrinunciabile.
La Svizzera, Paese plurilingue per eccellenza, ha organizzato l’incontro in cui sono state trattate questioni di ampia portata, dallo stato della francofonia e del suo ruolo sulla «governance» mondiale, alla creazione e allo sviluppo di una rete di eccellenza nel settore dell’ingegneria, dal rispetto dei diritti umani alla lotta contro l’AIDS e la malaria, alla ricostruzione di Haiti, alle proposte di riforma dell’ONU, del Fondo monetario internazionale, ecc. Che non si sia trattato di aspirazioni velleitarie, anche se tra gli enunciati e il loro avverarsi la distanza è talvolta incolmabile, lo dimostra il fatto che all’Organizzazione internazionale della francofonia aderiscono ben 70 Paesi, tra cui la Francia, il Canada, il Belgio, la Svizzera. Insieme costituiscono un terzo dei Paesi dell’ONU e su molte decisioni il loro peso, se fosse compatto, potrebbe essere determinante.

Plurilinguismo da valorizzare
Capisco bene, pertanto, la presa di posizione del vicedirettore del Corriere del Ticino Moreno Bernasconi che in un editoriale del 25 ottobre stigmatizzava «il disinteresse e, in alcuni casi lo scherno e l’ostilità, che parte dell’opinione pubblica svizzera tedesca ha tributato al vertice della francofonia a Montreux alla vigilia della sua apertura». A giusta ragione, invece, l’editorialista ticinese sottolineava l’importanza e l’utilità per la Svizzera di «appartenere a una rete mondiale di contatti», in un mondo in cui «i rapporti di forza stanno cambiando e il continente europeo è condannato a perdere influenza per lasciar spazio a nuovi Paesi emergenti».
Mentre leggevo l’intervento di Bernasconi, che mi è parso fra l’altro anche un appello a Zurigo e a Berna ad essere lungimiranti e a valorizzare maggiormente il plurilinguismo elvetico, non potevo fare a meno di chiedermi che posto occupa oggi nel mondo l’italiano e perché dell’italofonia non è nemmeno immaginabile un vertice come quello di Montreux. Ci sono evidentemente ragioni storiche (l’Italia non ha un passato coloniale come la Francia o il Belgio) e ragioni geopolitiche (non ci sono molti Stati in cui l’italiano è lingua ufficiale o lingua parlata), ma probabilmente c’è soprattutto l’incapacità del Paese leader dell’italofonia ad organizzare un evento simile, perché in fondo non ne crede l’utilità.
Eppure, anche se oggi è inimmaginabile, un vertice dell’italofonia come quello di Montreux non sarebbe inutile. Non potrebbe certo riunire sotto il cappello dell’italianità molti capi di stato e di governo, ma darebbe un forte impulso a quel vasto patrimonio linguistico e culturale diffuso soprattutto nelle zone più sviluppate e più ricche del pianeta. Non va infatti dimenticato che gli italofoni nel mondo sono oltre 100 milioni (secondo alcuni studi addirittura ca 200 milioni). Valorizzare questo immenso patrimonio dovrebbe essere considerato un impegno prioritario dell’Italia non solo per rafforzare il senso di appartenenza ad una grande tradizione linguistica, culturale, umanistica, ma anche in un’ottica di promozione del ricco mercato artistico, turistico e commerciale italiano.

Perché non un vertice dell’italofonia in Svizzera?
Se è utopistico oggi un vertice dell’italofonia mondiale, restringendo l’area geografica alla piccola Svizzera mi chiedo se sia più realistico pensare a un vertice dell’italofonia in questo Paese dove l’italiano è lingua ufficiale e dove gli italofoni superano abbondantemente il mezzo milione e possono raggiungere, comprendendo coloro che capiscono l’italiano pur senza parlarlo, quasi un milione di persone. E’ difficile rispondere a questa domanda perché in termini di fattibilità un tale vertice è più facilmente realizzabile di quello a livello internazionale. Eppure anche in Svizzera un tale vertice non è all’orizzonte.
Le difficoltà, a mio modo di vedere, per organizzare un tale incontro non sono di ordine finanziario, ma soprattutto di ordine culturale e psicologico. Ragioni storiche, culturali, politiche e psicologiche rendono le due principali componenti dell’italofonia svizzera, quella ticinese e quella italiana, ancora distanti sul principio dell’utilità di una convergenza strategica e operativa. Manca soprattutto l’organo propulsivo di un tale movimento di convergenza, nonostante che il Cantone Ticino, istituzionalmente sia deputato a rappresentare, promuovere e valorizzare l’italianità in tutto il Paese. Al di là dei convegni, dei progetti di ricerca finanziariamente ben dotati, non vedo segnali anche solo del desiderio di fare il punto della situazione e individuare linee di difesa dell’italiano, per non parlare di linee di attacco per promuovere in maniera efficace l’italianità.
Qualcosa ha cominciato a muoversi con la candidatura di Ignazio Cassis per il Consiglio federale in rappresentanza dell’italianità, ma è necessario che il movimento non si arresti. Per rompere il ghiaccio, come si usa dire, lunedì 15 novembre 2010 alle ore 19.00, alla Casa d’Italia di Berna, sarà organizzata una tavola rotonda per esaminare i «rapporti fra ticinesi e italiani fuori del Ticino». Alla tavola rotonda parteciperanno fra gli altri Carlo Malaguerra, ex direttore dell’Ufficio federale di statistica e Dario Marioli, esponente storico dell’immigrazione italiana in Svizzera. L’incontro è aperto al pubblico. Un appuntamento da non perdere.
Sulla tematica in discussione uscirà un articolo la prossima settimana.

Giovanni Longu
Berna 3.11.2010

Alptransit e i «ratti» del Ticino

Nella grande festa del 15 ottobre scorso per la caduta dell’ultimo diaframma della galleria più lunga del mondo, quella sotto il San Gottardo di ben 57 chilometri, a giusta ragione ne è stata evidenziata l’importanza per le relazioni nord-sud dell’Europa. Ciò che forse non è stato sottolineato abbastanza è che questa arteria ferroviaria rafforzerà ulteriormente i rapporti di continuità (e non solo contiguità) tra il Ticino e l’Italia del nord fino a Genova.
Ho detto in altra occasione che tutto ciò che concerne il Gottardo, dalla prima galleria ferrovia al tunnel autostradale e alla nuova galleria di base ha molto d’italiano per diverse ragioni. Qui voglio solo ricordare che quando si cominciò a parlare di un attraversamento ferroviario attraverso le Alpi, la linea del Gottardo non era né l’unica né l’opzione preferita. Per diverso tempo la direttrice che sembrava rispondere meglio agli interessi di Zurigo (in contesa con Basilea) e dei Cantoni orientali per raggiungere i porti del Mediterraneo era quella attraverso il Lucomagno. E anche il Ticino finì per convincersene (decisione del Gran Consiglio del 15 settembre 1853), nonostante che il 13 luglio avesse sostenuto la costituzione di un «comitato per promuovere la costruzione di una ferrovia attraverso il S. Gottardo».

Tra il Lucomagno e il San Gottardo decise l’Italia
Sull’opzione del Ticino per il Lucomagno influì l’intervento a favore di questa scelta della Camera di Commercio di Genova del 1° settembre 1853, che inviò subito «due suoi delegati all’uopo in Svizzera». Per la ripresa dell’opzione del Gottardo furono in seguito determinanti, come noto, l’ingegnere ticinese Pasquale Lucchini e l’italiano esule in Ticino Carlo Cattaneo, che dal 1859 si batterono con argomenti tecnici, economici e geopolitici per conquistare a favore della ferrovia del Gottardo giornalisti, banchieri e governanti.
Secondo il Cattaneo il passaggio sotto il Gottardo era la via più vantaggiosa per collegare il Mediterraneo, ossia Genova, con la Svizzera e la Germania, «quella gran via delle nazioni, prestabilita già dalla natura quando tracciò la gran valle del Reno e i due mari d’Italia sopra un medesimo asse continuo, la cui direzione, obliqua al meridiano, riunisce all’occidente e al settentrione il mezzodì e il più remoto oriente».
Com’è noto finì per prevalere la scelta del Gottardo, soprattutto dopo la decisione determinante del Regno d’Italia e della Germania e dopo l’apertura del Canale di Suez nel 1869. A distanza di quasi un secolo e mezzo, si riparla del Gottardo e della capacità tecnologica straordinaria dell’uomo, ma sembra scomparsa la grande visione del Cattaneo, che anticipava quel che è stato chiamato il «corridoio dei due mari», tra Rotterdam e Genova.
Eppure, credo che il significato del tunnel di base del Gottardo stia proprio in questa capacità di avvicinare il nord e il sud attraverso il Ticino. Già, attraverso il Ticino, che mai come finora riacquista la sua vocazione di ponte, di piattaforma di scambio tra due mondi, tra due culture, tra due economie diverse. Con AlpTransit, infatti, il Ticino supera una volta per tutte il micidiale ostacolo delle Alpi nei suoi collegamenti durante tutto l’anno col resto della Svizzera e l’avvicina fortemente alla Lombardia, in cui s’incunea profondamente, e al resto dell’Italia.

Sgradevole campagna «bala i ratt» contro i frontalieri
In questa visione appare oltremodo sgradevole la campagna condotta dall’Unione democratica di centro (UDC) ticinese contro i frontalieri. Proprio oggi in cui il Ticino può guardare più ottimisticamente a sud sembra addirittura allontanarsene, ancora una volta per paura del presunto invasore, il povero frontaliere incapace persino di negoziare un salario più elevato e di farsi le proprie ragioni.
E’ inutile che il capo di quel partito in Ticino tenti di giustificarsi affermando di non avercela affatto contro i frontalieri italiani. Mi fa venire in mente Schwarzenbach quando anch’egli, ad una precisa domanda, mi rispose che non ce l’aveva affatto contro gli italiani., ma contro certi padroni che approfittavano della manodopera italiana. E quando gli chiesi perché non se la prendeva con i padroni mi diede una risposta disarmante: perché solo colpendo i suoi dipendenti il padrone capisce. Non è da meno Pierre Rusconi quando anch’egli accusa gli imprenditori ticinesi che «dovrebbero mettersi la mano sulla coscienza perché non si può avere il swiss made come marchio di esportazione e poi invece del swiss made non gliene frega assolutamente niente e preferiscono guardare solo le proprie tasche». Perché, signor Rusconi, non se la prende direttamente con gli imprenditori e porta maggiore rispetto ai 45 mila frontalieri che, benché sottopagati, contribuiscono a fare andare avanti l’economia ticinese?

Per fortuna che in Ticino l’UDC non è molto rappresentativa e che i ticinesi non hanno perso la memoria di quando anch’essi erano migranti e spesso dovevano guadagnarsi da vivere lavorando nel milanese. In fondo la storia è una ruota che gira… sempre.

Giovanni Longu
Berna 3.11.2010