23 dicembre 2020

Natale e il senso della famiglia

In Svizzera è sempre stata una tradizione molto sentita dagli emigrati italiani festeggiare il Natale in famiglia, anche da coloro che per riunirsi dovevano affrontare un lungo viaggio, come i tanti lavoratori soli dei primi decenni del dopoguerra. Anche per loro il detto «Natale coi tuoi» era un’esigenza irrinunciabile, sebbene non fosse sempre facile soddisfarla.

Natale e i regali

Chi poteva tornare a casa in Italia preparava generalmente bene il viaggio perché era scontato che dalla ricca Svizzera si tornasse con tanti bei regali oltre che con i sudati risparmi. Soprattutto le donne erano molto attente a non deludere le aspettative dei famigliari e delle amiche. Preferivano regalare soprattutto oggetti pratici come i dadi per il brodo, le tavolette di cioccolata, pacchi di zucchero, ma anche profumi. Chi lavorava nel ramo dell’abbigliamento non aveva difficoltà a rifornirsi di piccoli capi e chi lavorava nel comparto del ricamo faceva incetta di pizzi e merletti scartati per difetti quasi impercettibili. C’erano anche donne, come racconta Luisa Moraschinelli, che nel tempo libero preparavano loro stesse oggetti a maglia da portare come regalini per Natale.

Molti regali si compravano nei negozi e la scelta era facile perché comunque tutto ciò che arrivava dalla Svizzera sarebbe apparso corrispondente al mito che di questo Paese avevano contribuito a creare soprattutto nel Meridione proprio gli emigrati. Perciò i regali dovevano essere tanti e appariscenti, magari anche costosi. Le scelte degli uomini erano meno varie di quelle delle donne, ma oltre ai soliti sigari, sigarette e accendini, c’erano anche matite colorate, penne stilografiche o a sfera, orologi e altri oggetti-regalo.

Tornare a casa per Natale era sempre anche un’occasione per dimostrare ai concittadini una sorta di rivincita sulla miseria o la paura che li aveva costretti ad abbandonare la terra (avara) in cui erano nati e cresciuti, ma non era stata in grado di far ben sperare nel futuro. Bisognava dimostrare che nel Paese d’immigrazione si stava bene, si guadagnava, si risparmiava, stando attenti a nascondere la fatica, la nostalgia, la malinconia e le rinunce che comportava quasi sempre la vita da emigrati.

Con i soldi risparmiati si erano magari comprata la macchina e potevano finire di costruire la casa in Italia, perché un giorno sarebbero rientrati definitivamente dalla Svizzera. Il Natale in famiglia e i regali che portavano dovevano indicare che la scelta fatta dagli emigrati era quella giusta. Anche per questo quelle valige che erano state riempite di tante speranze alla partenza, per Natale dovevano tornare piene di regali.

Finite le feste natalizie, per molti emigrati il rientro in Svizzera significava ripiombare nella normalità, che talvolta risultava persino peggiore di quella che avevano lasciato una o due settimane prima. Per esempio nel 1974 quando vennero a sapere che si stavano raccogliendo firme per altre due iniziative antistranieri, quelle di Valentin Oehen e di James Schwarzenbach, lo stesso che era stato bocciato nella precedente votazione del 1970. I movimenti xenofobi non avevano accettato la sconfitta.

Natale da emigrati 

Per Natale, però, non a tutti gli immigrati era sempre possibile rientrare in famiglia in Italia. Alcuni datori di lavoro riuscivano a trattenerne un certo numero per evitare la chiusura del cantiere, dell’officina, del laboratorio o del negozio. Secondo uno studio commissionato dalla Confederazione nel 1961, l’assenza degli specialisti italiani (gruisti, minatori, addetti agli  altiforni, preparatori di macchine utensili, addetti ai bagni galvanici, ecc.) tra Natale e Capodanno paralizzava per una settimana circa la metà dell’organico delle aziende e faceva diminuire la produzione del 65%.

Per coloro che non potevano rientrare in Italia e magari erano costretti a lavorare, molte associazioni di emigranti e soprattutto la Missione cattolica italiana riuscivano comunque a organizzare anche in Svizzera una festa di Natale sentita e piacevole, anche se l’amarezza per la lontananza dai propri cari era spesso evidente.

Era la prima generazione, che aveva un fortissimo senso della famiglia. Questo sentimento pesò favorevolmente nelle trattative per l’Accordo italo-svizzero del 1964. Oggi, purtroppo, sembra pesare molto meno. 

Comunque a tutti l’augurio di un Sereno Natale.

Giovanni Longu
Berna 23.12.2020

21 dicembre 2020

Il CISAP negli anni 1970-1990: 2. CISAP: un nome impegnativo

Agli inizi degli anni Settanta il CISAP era ormai una realtà che s’imponeva all’attenzione non solo delle autorità italiane e svizzere, degli ambienti sindacali e della collettività italiana, ma anche dei media. L’interesse era dovuto non solo al successo che ottenevano le sue iniziative formative, ma anche al carattere innovativo ed efficace che dimostrava questa nuova organizzazione costituita prevalentemente da immigrati. Nella stampa dell’epoca, tuttavia, non si trova alcuna riflessione sul nome CISAP, benché nel frattempo avesse modificato il significato letterale originario, accentuandone alcune caratteristiche e ampliando notevolmente le visioni iniziali.

CISAP: un nome impegnativo…

Riprendendo liberamente la celebre espressione latina nomen omen (ossia «il nome è un presagio», tradotta letteralmente), nel caso del CISAP si può tranquillamente affermare che il nome indicava non solo un presagio o un augurio, ma anche una previsione certa perché fondata sull’intenzione convinta degli iniziatori di intraprendere un’attività virtuosa, necessaria e utile. CISAP indicava soprattutto un impegno a dare il massimo per un obiettivo giusto e sostenibile.

A prima vista, che a metà degli anni Sessanta del secolo scorso si costituisse una nuova associazione rientrava nella dinamica dell’associazionismo italiano di quel periodo, che si articolava già in una miriade di associazioni con finalità molto variegate. La peculiarità, anzi l’unicità dell’associazione CISAP era data soprattutto dalla sua finalità: la formazione professionale degli immigrati italiani. Nessuna associazione si era mai costituita nell’ambiente immigratorio con questo scopo. Nessuno degli iniziatori aveva dubbi che fosse raggiungibile.

L’idea del CISAP si era sviluppata nell’ambiente associazionistico delle Colonie Libere Italiane, che aveva sviluppato un grande senso di solidarietà tra connazionali, ma non sembrava in grado di realizzare progetti di ampio respiro, strutturati e sostenibili nel campo della formazione professionale corrispondente alle esigenze. Giunta a maturazione, nella primavera del 1966 quell’idea divenne realtà, a cui occorreva dare un nome, possibilmente semplice ma in grado di richiamare facilmente le principali caratteristiche.

Ho già rievocato in altre occasioni l’origine del nome CISAP e come dopo breve riflessione e discussione si optò per l’acronimo C.I.S.A.P. e il nome per esteso «Centro Addestramento Professionale Italiano in Svizzera», nonostante fosse evidente che non poteva trattarsi di un vero acronimo, per evitare che quello corretto potesse richiamare il cavolo («Cabis» in tedesco). Di fatto, già nel 1966, specialmente dai media, il nome veniva scritto sia con i puntini tipici dell’acronimo dopo ogni lettera e sia senza, come un nome proprio. Ufficialmente, però, nei documenti interni veniva usato soprattutto l’acronimo.

… e in mutazione

Probabilmente si preferì la forma C.I.S.A.P. perché della nuova organizzazione si volevano evidenziare la struttura operativa (centro-scuola), l’attività specifica (formazione e perfezionamento professionali) e il carattere precipuamente italiano (destinato in primo luogo agli immigrati italiani in Svizzera). Fino ad allora le modeste attività d’informazione e formazione professionale, per altro solo teorica, avvenivano solitamente in ambienti provvisori come sale di ristoranti o di qualche associazione.

Prima targa del CISAP, con la prima scritta
L’acronimo cadde in disuso agli inizi degli anni Settanta e restò per sempre CISAP, come se si volesse segnalare che dall’inizio alla fine la sostanza o l’essenza dell’organizzazione rimaneva la stessa, anche se mutavano alcune caratteristiche essenziali, in un costante processo di adattamento alle esigenze dell’economia, della società e della stessa immigrazione.

... e la seconda scritta pochi anni dopo

Così, in un tempo relativamente breve, il CISAP passò da «Centro Addestramento Professionale Italiano in Svizzera» a «Centro Italo Svizzero Addestramento Professionale», «Centro Italo-Svizzero Addestramento Professionale» e infine «Centro italo-svizzero di formazione professionale». Come si vedrà meglio in seguito, questi cambiamenti non erano solo aspetti formali, ma connotavano la sostanza del CISAP, mettendone in evidenza le due anime, quella italiana e quella svizzera, destinate non solo a convivere ma a integrarsi armoniosamente in unico organismo vitale, virtuoso e unico nel suo genere.

E’ emblematico che le due anime del CISAP e i primi cambiamenti fossero già accennati nelle due facce della stessa targa in alluminio (24 x 40 x 0,62 cm) che indicava, successivamente a distanza di pochi anni, la prima sede del CISAP allo Jägerweg 7, nel quartiere di Breitenrain di Berna. (Segue)

 

 

17 dicembre 2020

Il CISAP nel periodo 1970-1990: 1. Inquadramento sociale, economico e politico

Chi ha conosciuto da vicino il CISAP nel periodo 1970-1990, ne ha avvertito sicuramente l'efficienza e la modernità, ma difficilmente ne ha potuto comprendere fino in fondo l’essenza, perché questa non è mai stata immediatamente definibile, statica, così da poter essere colta in ogni momento. Era talmente dinamica, caratterizzata da un continuo sforzo di modernità e di attualità, da renderla sempre diversa nelle sue manifestazioni.

Identità e dinamismo

Sede centrale del CISAP a Berna dal 1969.
Pur essendo rimasto sempre identico a sé stesso nei suoi principi e nei suoi valori, il CISAP era molto attento ai cambiamenti che si avvertivano o si annunciavano nell’economia e nella società e ha sempre cercato di armonizzare al meglio le sue attività con le esigenze del mondo che cambiava. La sua essenza va dunque ricercata nei principi che hanno guidato la sua azione e nella straordinaria capacità d’interpretare le esigenze allora attuali ma proiettandole nel futuro dell’economia, della società e degli immigrati.

Ora che il CISAP ha concluso definitivamente le sue attività (anche se alcune sono state riprese e reinterpretate dalla Fondazione ECAP) ed è finita come istituzione, è più facile coglierne i principi guida e il dinamismo che hanno caratterizzato i suoi 35 anni di vita.

In una serie di riflessioni basate su dati, documenti, esperienze e testimonianze, cercherò di mettere in luce ciò che il CISAP è stato e ha rappresentato per migliaia di stranieri della prima e seconda generazione nel periodo 1970-1990, quello in cui il CISAP ha scritto alcune delle pagine più belle e significative della sua storia e della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera.

Inquadramento sociale, economico e politico

Per capire l’essenza e la modernità del CISAP è utile ricordare anzitutto ch’esso è stato costituito ufficialmente a Berna agli inizi del 1966, sotto forma di «associazione senza alcun scopo di lucro». Era il periodo di maggiore afflusso di immigrati dall’Italia (1960: 128.257 arrivi, 1961: 142.114, 1962: 143.054, 1963: 122.018, 1964: 111.863) e di una costante crescita della collettività italiana. Erano anche gli anni in cui si diffondevano specialmente nella Svizzera tedesca i primi movimenti xenofobi che chiedevano il freno all’immigrazione e la riduzione del numero di stranieri in Svizzera!

Nel decennio 1961-1970 emigrarono in Svizzera 1.021.033 italiani.
Era anche il periodo in cui la politica italiana cercava di sperimentare governi di centro-sinistra (a guida democristiana) e sperava di poter risolvere alla radice il problema drammatico dell’emigrazione soprattutto dal Mezzogiorno, offrendo agli italiani «crescenti opportunità di impiego in Patria, sì da dare sempre più al fenomeno emigratorio dignità di una libera, consapevole scelta tra differenti sbocchi, nell'interesse del lavoratore che aspiri ad utilizzare nel modo migliore le sue capacità» (Aldo Moro).

Intanto nel decennio 1960-1970 dall’Italia si continuava a emigrare: 2.646.990 espatri, di cui 1.021.033 in Svizzera, allora in pieno boom economico. Tra il 1961 e il 1962 gli immigrati italiani costituivano oltre il 70% della popolazione straniera. Per una loro maggiore tutela, fu negoziato un Accordo fra la Svizzera e l’Italia relativo all’emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera, giudicato molto favorevolmente dal governo di centro-sinistra italiano (2° Governo Moro), che lo usò, fra l’altro, come «arma politica nei confronti dell’opposizione comunista, che denunciava la situazione degli emigranti all’estero».

L’entrata in vigore (1965) dell’Accordo confermava in Svizzera la tendenza all’aumento della collettività italiana perché conteneva effettivamente alcuni aspetti positivi e soprattutto facilitazioni per i ricongiungimenti familiari, ma non lasciava intravvedere un attenuamento delle tensioni tra svizzeri e stranieri e un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli italiani.

Solidarietà tra immigrati

Va anche ricordato che a differenza dei primi immigrati, venuti in gran parte dal Nord Italia e dotati in generale di capacità lavorative notevoli perché molti di essi avevano lavorato nell’industria, i nuovi immigrati provenienti soprattutto dal Mezzogiorno non avevano «imparato» in maniera strutturata nessuno dei mestieri regolamentati e praticati in Svizzera e quindi non avrebbero potuto svolgere lavori qualificati.

Questa situazione sollevava non pochi problemi umani, sociali, professionali e anche politici, perché la manodopera italiana, occupata prevalentemente in due rami economici, costruzioni (edilizia e genio civile) e industria metalmeccanica, era coinvolta in un ampio processo di sostituzione dei lavoratori svizzeri passati ad altre attività specialmente nel terziario. Soprattutto nell’industria, in piena trasformazione e razionalizzazione, sarebbe stato grave e pericoloso se gli immigrati italiani avessero occupato solo i posti lasciati liberi ai livelli più bassi delle scale di qualifica e salariali. Ma c’erano possibilità per i nuovi arrivati di raggiungere gradi di competenza professionale più elevati? Chi e con quali strumenti si potevano aiutare per non lasciarli in balia della precarietà e dei rischi di disoccupazione?

Allievi CISAP dei primi corsi (1966).
Rispetto a questi interrogativi, il nuovo Accordo italo-svizzero, nonostante gli indubbi miglioramenti, lasciava ancora incertezze e preoccupazioni. Per esempio, mentre gettava le basi per l’integrazione scolastica dei figli degli italiani, non diceva una parola sulle esigenze di formazione professionale degli stessi immigrati. Per le autorità svizzere, ma anche per quelle italiane, evidentemente queste esigenze non rappresentavano una necessità né tantomeno una priorità.

Il CISAP, interpretando le incertezze e il disorientamento di molti immigrati, si propose d’intervenire efficacemente proprio in questo campo, ritenendolo di fondamentale importanza non solo per i diretti interessati, ma anche per le loro famiglie. I primi corsi di formazione professionale furono molto incoraggianti: 128 allievi nel 1966, 238 nel 1967, 360 nel 1968, 491 nel 1969, 713 nel 1970, 800 nel 1971, 820 nel 1972.

Tra le autorità italiane e svizzere, in alcuni ambienti sindacali, nella collettività italiana e nei media si cominciò a percepire quanto originale, intelligente, lungimirante, coraggiosa ed efficace fosse questa nuova organizzazione, non solo per gli effetti diretti che producevano i corsi sui partecipanti, ma anche per l’effetto stimolante che esercitavano nella collettività italiana immigrata nella regione di Berna. (Segue)
(gl 18.12.2020).




16 dicembre 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 33. Integrazione e identità

Il periodo della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera che si sta esaminando (1970-1990) è stato fortemente caratterizzato, fra l’altro, da un’ampia e approfondita discussione sull’integrazione. Dalla seconda metà degli anni Sessanta appariva chiara la tendenza alla stabilizzazione degli immigrati italiani, ma erano molte le perplessità su ciò ch’essa poteva comportare in termini di identità personale, nazionalità, cultura, come pure nei rapporti con l’Italia, ma anche con gli svizzeri. Le domande erano tante, le risposte poche e incerte. Dipesero anche da questa incertezza e talvolta paura le difficoltà e la lunghezza del processo d’integrazione della seconda generazione.

Esigenze di chiarezza

Oggi la nozione d’«integrazione» è abbastanza chiara e probabilmente nessuno ha paura di essere «integrato». Fino a quarant’anni era predominante nell’uso comune il termine «assimilazione» rispetto a quello usato oggi d’«integrazione» e poteva fare paura. Sembrava infatti che la Svizzera pretendesse dagli stranieri che intendevano stabilizzarsi e magari naturalizzarsi una rinuncia al proprio passato, alla propria cultura, alle proprie tradizioni e un assorbimento totale della lingua, della cultura, degli usi locali. Un processo che appariva a molti immigrati italiani giustamente inaccettabile.

La richiesta di entrare a far parte della nuova società non poteva esigere un’assimilazione totale delle sue caratteristiche dominanti e la dimenticanza fino alla negazione delle proprie abitudini, del proprio modo di pensare, della propria lingua e cultura d’origine, lo sradicamento completo. Forse nessuno ha mai pensato seriamente di poter chiedere agli stranieri di rinunciare o addirittura negare le proprie origini, ma sicuramente erano moltissimi gli stranieri che temevano conseguenze del genere e per questo si ponevano in una posizione preventiva di rifiuto.

Per rendere accettabile e persino conveniente l’integrazione specialmente delle giovani generazioni di stranieri sono stati necessari decenni di discussioni, studi, modifiche legislative, azioni mirate di sensibilizzazione tra gli stranieri e nella società civile. Del resto, le discussioni non sono terminate e gli aggiustamenti del concetto d’integrazione sono costanti. Il motivo è semplice: l’integrazione è un processo complesso che varia nel tempo e nello spazio perché variano i protagonisti, non solo gli stranieri ma anche la società in cui sono chiamati a inserirsi.

Non dovrebbe pertanto suscitare meraviglia che in Svizzera si discuta d’integrazione, inizialmente nella forma primitiva dell’assimilazione, fin dall’inizio del secolo scorso, ossia da quando cominciò a porsi in maniera seria il problema del rapporto degli svizzeri con la massa crescente d’immigrati. Qualche considerazione al riguardo può aiutare a comprendere meglio le difficoltà oggettive che molti italiani hanno dovuto superare prima di potersi considerare integrati, senza sentirsi costretti a rinunce inaccettabili.

Considerazioni sull’integrazione

La prima considerazione riguarda il concetto stesso di integrazione. Sono occorsi decenni di studi e discussioni per giungere al primo «abbozzo per un concetto d’integrazione», elaborato dalla Commissione federale degli stranieri (CFS) nel 1996 nel contesto della revisione della legge federale sull’asilo e gli stranieri. Solo un decennio dopo è stato possibile leggere in testi normativi che «l’integrazione mira alla convivenza della popolazione residente indigena e di quella straniera, sulla base dei valori sanciti dalla Costituzione federale, nonché sulla base del rispetto reciproco e della tolleranza, […] è volta a garantire agli stranieri che risiedono legalmente e a lungo termine in Svizzera la possibilità di partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società,[…] presuppone la volontà degli stranieri di integrarsi nella società e un atteggiamento di apertura da parte della popolazione svizzera. Occorre che gli stranieri si familiarizzino con la realtà sociale e le condizioni di vita in Svizzera, segnatamente imparando una lingua nazionale».

La seconda considerazione riguarda gli stranieri. Non erano sempre gli stessi i soggetti considerati, anzi erano sempre diversi, perché gli stranieri sono giunti (e continuano a venire) in Svizzera a ondate successive, dapprima dai Paesi vicini (Germania, Francia, Austria, Italia), poi anche da Paesi più lontani (Spagna, Portogallo, Grecia, Turchia, ecc.). Inoltre erano varie non solo le motivazioni che spingevano ad emigrare in Svizzera, ma anche le propensioni all’integrazione. Per esempio, per gli italiani questa disposizione è sempre stata debole non solo per la vicinanza all’Italia, ma anche per ragioni storiche, linguistiche, culturali ed economiche.

La terza considerazione riguarda gli svizzeri. Spesso li si considera come appartenenti a un popolo omogeneo, dimenticando che costituiscono in realtà una popolazione molto composita con origini, culture, lingue, confessioni religiose, governi, ecc. differenti. Tra loro sono tenuti uniti da più di un collante, ma soprattutto da un processo d’integrazione che dura tutt’ora. Questo fa sì che tutti si riconoscano in un’unica Confederazione ma nella diversità linguistica, culturale, confessionale, regionale, ecc. Purtroppo, però, quel che ogni svizzero comprende e giustifica nei connazionali in nome dell’unità nazionale non sempre lo ha saputo accettare negli stranieri, interessati a mantenere vive le loro tradizioni, la loro lingua e la loro cultura.

Gli italiani e l’integrazione

Come accennato, gli italiani non sono mai stati molto propensi all’integrazione in Svizzera (cfr. L’ECO del 25.11.2020, p. 10: Emigrazione e integrazione), tanto è vero che sono sempre stati relativamente pochi gli immigrati e le immigrate che hanno contratto matrimoni misti ed è rimasto sempre modesto fino ai primi anni Novanta il numero delle naturalizzazioni. Solo quando fu resa possibile la doppia cittadinanza (dal 1992) c’è stato un forte incremento (attualmente sono oltre 240.000 gli italo-svizzeri).

L’andamento del numero delle naturalizzazioni, che riguardano soprattutto gli italiani nati in Svizzera (oltre i due terzi del totale) indica bene che l’integrazione dei giovani italiani era già in atto in larga misura fin dagli anni Settanta e Ottanta, ma non raggiungeva il suo massimo naturale (naturalizzazione) per motivi non dipendenti da loro stessi: l’acquisto della cittadinanza svizzera comportava la rinuncia a quella italiana, l’obbligo del servizio militare e dei corsi di ripetizione per i maschi, ecc.

La situazione ha cominciato a cambiare dalla fine degli anni Settanta quando molti genitori si convinsero che i loro figli sarebbero rimasti probabilmente qui anche se loro fossero rientrati presto o tardi in Italia (cfr. articolo precedente) e tanto valeva agevolare loro la strada dell’integrazione. I benefici, purtroppo, tardarono ad arrivare, ma dagli anni Novanta, come si vedrà in un’altra serie di articoli, saranno sempre più evidenti.

Verso una nuova identità

Nel trattare del processo d’integrazione dei giovani italiani della seconda generazione nel periodo in esame ci si è spesso interrogati se esso non abbia pregiudicato addirittura la loro identità. Ad alcuni osservatori (forse un po’ superficiali) sembrava infatti che questi giovani figli di immigrati, con l’integrazione linguistica, scolastica, sociale e culturale in questo Paese, acquisissero più problemi che certezze e vivessero in una specie di stato confusionale perché, pur essendo nati e cresciuti qui non si sentivano né svizzeri né italiani. Per definire questa situazione si usò l’espressione «Weder-noch-Generation», come se un’intera generazione fosse definibile più in negativo che in positivo, come se a prevalere in quei giovani fosse la confusione e l’incertezza e non l’arricchimento derivante dall’incontro con nuove culture, nuove realtà, nuovi amici, nuove prospettive, capaci di rafforzare e persino elevare l’identità dei soggetti interessati.

In quell’epoca c’era, in effetti, molto turbamento tra i giovani, alcuni ne soffrirono a lungo, altri preferirono rientrare in Italia per eliminare alla radice il problema, tanto più che secondo un’opinione diffusa naturalizzarsi non era bello per un italiano e il passaporto italiano apriva in Europa più porte del passaporto rossocrociato!

In realtà, non era l’integrazione o la naturalizzazione che provocava disorientamento, ma l’incapacità degli adulti di vederne i vantaggi minimizzando gli eventuali svantaggi. Eppure bastava prendere in considerazione anche solo i profitti derivanti dalla conoscenza delle lingue, l’accesso a una formazione professionale con prospettive certe di un lavoro qualificato e rispettato, la possibilità di accedere a culture e mondi diversi… e tutto ciò senza alcuna perdita significativa d’identità o di dignità. Fortunatamente la maggioranza dei giovani è andata avanti…bene! (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 17.12.2020

09 dicembre 2020

E’ possibile realizzare in Svizzera un museo delle migrazioni?*

Molti Paesi hanno uno o più musei dedicati all’emigrazione per ricordare che nella loro storia molti cittadini hanno lasciato la madrepatria in cerca di lavoro e di un futuro migliore. Sono invece ancora pochi i Paesi che hanno dedicato un museo all’immigrazione, per ricordare che la prosperità raggiunta è dovuta anche al contributo di donne e uomini immigrati da altre parti del mondo. La Svizzera, da oltre un secolo Paese d’immigrazione, dopo essere stata Paese di emigranti, non le ha ancora destinato un museo, benché al tema siano dedicate sezioni minori di alcuni musei storici regionali. Si tratta di una mancanza di sensibilità o di un problema di fattibilità?

Museo certamente auspicabile…

Stazione di Milano, opera di Manuel Campus dedicata all'emigrazione italiana (ora alla Casa d'Italia di Berna)
Prima di rispondere alla domanda è opportuno ricordare che la Svizzera, per molto tempo Paese d’emigrazione e dalla fine dell’Ottocento Paese d’immigrazione, per oltre un secolo è stata restia a considerarsi tale. Da alcuni decenni, però, ha preso atto che la migrazione è parte integrante della sua storia e del suo sviluppo e probabilmente lo sarà ancora a lungo, anche in ragione della sua posizione geografica in Europa.

Senza le migrazioni la Svizzera è inconcepibile, basti pensare agli scambi di popolazione lungo i confini, ma anche alle reti ferroviarie, stradali, idroelettriche, urbane, realizzate col contributo di milioni di immigrati. Qui l’impronta migratoria è indelebile perché stampata per così dire nella pietra e nel cemento. E’ sufficiente nominare alcune infrastrutture - gallerie, ponti, dighe, piazze, palazzi, strade, quartieri - per richiamare alla mente e all’immaginazione epoche in cui i lavoratori stranieri erano protagonisti. Di essi purtroppo si sta perdendo lentamente il ricordo e un museo contribuirebbe a trattenerlo.

Sembrerebbe dunque più che giustificato e auspicabile un museo delle migrazioni in Svizzera. In molti si chiedono perché non sia stato ancora realizzato, ma probabilmente non esiste una sola risposta. Quella determinante, tuttavia, non andrebbe ricercata in una presunta mancanza di sensibilità o nelle difficoltà materiali e finanziarie che inevitabilmente comporterebbe la realizzazione di una tale opera. In teoria, infatti, il museo è fattibile, tanto più che alla Svizzera non mancherebbero le capacità tecniche e i mezzi finanziari necessari.

… irrealizzabile fisicamente...

Verosimilmente le difficoltà maggiori per realizzare fisicamente un museo dedicato alle migrazioni non sono di ordine materiale ma istituzionale e organizzativo. Una prima difficoltà – e basterebbe da sola a scoraggiare qualsiasi tentativo di superarla - è rappresentata dal federalismo. Chi conosce la Svizzera sa bene che esso non riguarda solo l’aspetto istituzionale (Confederazione, Cantoni, Comuni), ma anche la geografia, la storia, la cultura, lo sviluppo economico di questo Paese plurimo. Ciascuno di questi elementi ha influito sia sull’emigrazione di molti svizzeri, specialmente nell’Ottocento, che sull’immigrazione di molti stranieri. Come potrebbe un unico museo rappresentare questa enorme diversità?

La Grande Dixence, una delle più grandi dighe del mondo.
Un’altra difficoltà, anch’essa difficilmente superabile, è legata alla prima: in un museo unico le storie delle migrazioni rischierebbero di essere snaturate perché decontestualizzate. I tumulti verificatisi sul finire dell’Ottocento a Berna e a Zurigo contro gli immigrati italiani sarebbero difficilmente comprensibili in qualsiasi altra regione della Svizzera. Altrettanto si potrebbe dire delle numerose disgrazie che hanno colpito lavoratori immigrati durante la costruzione di grandi infrastrutture, ma anche delle diverse caratteristiche dei migranti (comunicabilità, integrazione, partecipazione, ecc.) nella Svizzera tedesca, francese e italiana.

A queste difficoltà se ne aggiungerebbero poi altre, anch’esse difficilmente superabili, legate all’ubicazione del museo, alla sua costruzione o al suo adeguamento (se inserito in un edificio già esistente) e soprattutto ai costi, iniziali e soprattutto di gestione.

…ma realizzabile virtualmente!

L'immigrazione italiana in Svizzera è stata
determinante per lo sviluppo del Paese.
A questo punto sembrerebbe prospettarsi una risposta decisamente negativa all’interrogativo iniziale. Sarebbe tuttavia affrettata e incoerente, perché la rinuncia alla realizzazione di un «museo fisico» significherebbe dover rinunciare contestualmente all’idea stessa di un museo. Ma chi ha detto che il «museo fisico» sia l’unica modalità museale?

Ne esistono infatti altre. Per esempio, andrebbe presa in considerazione l’idea del «museo virtuale», in grado di garantire le caratteristiche essenziali del museo come luogo di conservazione e di studio di una memoria storica ritenuta imperdibile. D’altra parte, se ogni Paese fa di tutto per salvaguardare la propria - e i musei insieme alle biblioteche ne sono i «contenitori» privilegiati - potrebbe rinunciarvi la Svizzera intrisa di migrazione? Certamente no. Dunque, il «museo virtuale» potrebbe rappresentare per la Svizzera una soluzione adeguata.

Rispetto al «museo fisico», il «museo virtuale» avrebbe, fra l’altro,
numerosi vantaggi. Per esempio sarebbe facilmente realizzabile con le moderne tecnologie multimediali; potrebbe essere implementato in tempi brevi essendo sufficiente mettere in rete le sezioni dedicate al tema di alcuni musei esistenti; costerebbe relativamente poco; sarebbe facilmente fruibile anche a distanza non essendo localizzato, ecc. Inoltre, una rete museale ben strutturata riuscirebbe a tener meglio conto della varietà, intensità e profondità del diverso contributo delle migrazioni allo sviluppo di questo Paese in tutte le grandi regioni e nelle singole agglomerazioni.

Condizioni di fattibilità

Perché tale idea diventi realtà il percorso non può essere breve. Anzitutto dovrebbe essere costituito un gruppo promotore di persone convinte di poter riuscire nell’impresa e impegnate a preparare un progetto di massima realizzabile e sostenibile da sottoporre alle istituzioni interessate per il finanziamento. Idealmente del gruppo dovrebbero far parte rappresentanti di tutti i possibili finanziatori, tecnici della comunicazione e studiosi.

Berna anni '70: allievi del CISAP, scuola pioniere in Svizzera nella
formazione professionale e nell'integrazione sociale degli immigrati.

Una volta costituito, il gruppo promotore dovrebbe anche stimolare la creazione di sottogruppi finalizzati alla creazione di musei regionali (per esempio nelle agglomerazioni di Zurigo, Berna, Basilea, Ginevra, San Gallo e nei Cantoni periferici). A loro volta questi potrebbero già avviare la raccolta del materiale esistente ritenuto degno di essere conservato (manufatti, cimeli, libri, fotografie, pellicole, manoscritti, registrazioni audio e video, attestazioni, testimonianze varie, ecc.). Molti italiani sarebbero certamente interessati a collaborare, coinvolgendo in particolare le associazioni storiche degli immigrati, le Missioni cattoliche, le Case d’Italia e altre istituzioni.

Non è esagerato pensare che l’idea possa piacere e interessare molti italiani. La storia dell’immigrazione italiana in Svizzera è lunga, ricchissima, estremamente varia e interessante. Valorizzarla significherebbe rendere onore a chi l’ha vissuta in prima persona, ma anche ai loro discendenti. Significherebbe far conoscere che le varie ondate di immigrati (e di altre nazionalità) hanno contribuito a sviluppare la Svizzera moderna in tutta la sua varietà umana, culturale, linguistica, artistica, storica. Significherebbe anche ricordare che l’attuale prosperità è un patrimonio comune, frutto del lavoro di molti e a beneficio di tutti.

Ci si dovrebbe preoccupare dei finanziamenti? Certamente, ma con un pizzico di ottimismo perché la Svizzera è interessata a mantenere vive le tradizioni immateriali e a sostenere le attività culturali d’interesse pubblico, anche l’Italia ha tutto l’interesse a mantenere vivo il ricordo dell’immigrazione italiana, che ha contribuito a sviluppare un Paese amico e, se il progetto è sostenibile, certamente si troverebbero anche privati, imprenditori e semplici cittadini, disposti a sostenere la rete del museo virtuale delle migrazioni.

Giovanni Longu
9 dicembre 2020

* L'articolo è stato pubblicato anche su Insieme (MCLI, Berna) n. 12 Dicembre 2020.