Quando in questi articoli si parla di «emancipazione femminile» non si deve pensare che tutte le donne italiane abbiano raggiunto effettivamente all'inizio del millennio quel traguardo di parità, competenza, responsabilità e autonomia, che molte di esse ritenevano facilmente raggiungibile sia nei confronti dei connazionali che rispetto alle donne svizzere. Il senso di quell'espressione è un altro: (quasi) tutte le donne italiane hanno ormai la possibilità di raggiungere gli stessi traguardi, perché le condizioni di partenza, soprattutto per le giovani generazioni, sono pressoché identiche. Questa situazione costituisce per esse una preziosa eredità lasciata dalle prime generazioni.
Le condizioni di partenza
![]() |
Emancipazione femminile: da lavoratrici (a cottimo) a cittadine! |
Per le nuove
generazioni le condizioni di partenza sono divenute ormai uguali o molto simili
a quelle degli svizzeri e delle svizzere, per cui d’ora in poi tutti i
traguardi sono possibili. In materia civile, nemmeno la nazionalità rappresenta
più l’handicap che costituiva fino ad alcuni decenni orsono. Non è questa la
migliore condizione di partenza per qualunque persona con origini migratorie
italiane?
Parlando di
«eredità», inoltre, non si deve pensare solo alle opportunità ch'essa
rappresenta, ma anche alle responsabilità che comporta. Sarebbe giusto ma
insufficiente mostrare riconoscenza per le opportunità ricevute senza sentire
allo stesso tempo lo stimolo di sviluppare le proprie conoscenze e competenze,
la partecipazione politica, l’impegno sociale. Sui risultati raggiunti non è
ancora il momento di fare bilanci, perché l’emancipazione è un processo tuttora
in corso, ma qualche osservazione è certamente lecita e inevitabile.
Emancipazione sociale e professionale
Oggi le donne
italiane hanno conseguito in campo sociale praticamente gli stessi livelli
delle donne svizzere e credo che desideri repressi, sentimenti d’invidia, forme
di paura e di frustrazione … per eventuali traguardi non raggiunti appartengano
definitivamente a un passato che si allontana sempre più. Oggi le donne
italiane vivono, vestono, spendono, fanno una vita sociale esattamente a loro
piacimento né più né meno come le donne svizzere, per restare al termine
iniziale del confronto. E non dovrebbe apparire strano se in qualche ambito le
donne italiane emergono di più o di meno, perché come già sentenziavano i
latini, «sui gusti non si deve discutere» (de gustibus non est disputandum).
L’importante è che la parità sociale sostanziale sia stata ormai raggiunta. Lo spaesamento
di una volta è finito.
A parità di condizioni di partenza, anche nell'ambito professionale le differenze si sono molto assottigliate. Osservando, per esempio, il gruppo sempre più numeroso delle donne con la doppia nazionalità, difficilmente si notano differenze significative riguardanti la condizione occupazionale (occupate, disoccupate, in cerca di lavoro), la posizione professionale (quadri, dipendente, indipendente), la retribuzione, le possibilità di carriera. Già i dati del censimento federale della popolazione del 2000 (rispetto a quelli del 1990) evidenziavano che sempre più donne italiane appartenevano al management medio-superiore, erano attive in professioni accademiche e di ricerca, svolgevano attività indipendenti.
Ritardi da colmare
Purtroppo non in
tutti i campi le donne italiane hanno raggiunto gli stessi livelli dei
connazionali e delle donne svizzere. Per esempio nel campo dei media dedicati
alla collettività italofona. Benché siano molte le donne che svolgono attività
professionale nella stampa scritta e nelle radio locali e tre di esse dirigano
i settimanali cartacei più diffusi (L’ECO, Corriere dell’italianità, La
Pagina), le funzioni apicali sono esercitate ancora in maggioranza da uomini,
soprattutto nella stampa mensile e online.
La consigliera nazionale Ada
Marra, «decana» delle donne italo-svizzere elette nel parlamento svizzero |
La carenza di
donne nelle direzioni e nelle responsabilità dell’informazione e della
comunicazione si spiega probabilmente col fatto che alcuni media fanno capo ad
associazioni tradizionalmente dominate da uomini, che stentano a passare il
testimone (e soprattutto il bastone del comando) all'altro sesso. Per quanto
tempo ancora? Forse non molto. Si sa che le donne, in generale, sono più
pazienti e più lungimiranti degli uomini e forse anche meglio preparate in
questi campi.
Un altro ambito
in cui le donne italiane fanno registrare qualche ritardo è proprio quello in
cui tradizionalmente hanno esaltato il proprio carisma: l'attività ecclesiale.
Purtroppo si stanno perdendo le tracce e il ricordo di quando suore, assidue insegnanti,
collaboratrici generose gestivano segretariati, scuole, asili, associazioni assistenziali
nell'ambito delle Missioni. Oggi sembra persino che venendo meno le suore (forse
destinate ad altri compiti e in altri Paesi) si sia ristretto anche il ruolo responsabile
delle donne.
Eppure, in questo
settore le donne potrebbero svolgere ruoli importanti, soprattutto ora che il
numero dei sacerdoti diminuisce e la secolarizzazione aumenta. In alcune
situazioni, per esempio, non sarebbe auspicabile che a dirigere comunità
ecclesiali o ad amministrare parrocchie ci fossero donne? Perché in molte
realtà cattoliche ancora non ci sono diacone o teologhe italiane che leggano e commentino
il Vangelo, dirigano la liturgia, guidino la pastorale, svolgano funzioni che
non richiedono l’ordinazione sacerdotale, liberino i sacerdoti da gran parte
delle incombenze materiali che sottraggono tempo ed energie al loro ministero? Se
la Chiesa è di tutti, perché le donne non se ne possono far carico anche a
livelli dirigenziali? Dove sta l’impedimento?
La rappresentanza politica
![]() |
Il presidente della
Confederazione Ignazio Cassis, massimo esempio di riuscita politica di un «secondo». |
Guardando ancora
più in alto è facile notare che al Ministero degli affari esteri i maschi sono da
sempre dominanti e anche il linguaggio ne è stato influenzato a tal punto che Elisabetta
Belloni, che dirige il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza è ufficialmente
«Ambasciatore» e «Direttore generale». Recentemente è stata inaugurata nella
sede dell’Ambasciata d’Italia a Berna una lapide commemorativa
dell’«Ambasciatore Carla Zuppetti», deceduta a Berna nel 2013. Evidentemente
nemmeno l’esimio letterato e attuale ambasciatore Silvio Mignano ha potuto
modificare questa denominazione inappropriata e antiquata per una donna. C’è da
meravigliarsi? No, se si pensa che su oltre 150 personalità con la funzione di
ambasciatori/ambasciatrici le donne col grado di «Ambasciatore» sono meno del 5
per cento.
Donne italiane nei legislativi svizzeri
La partecipazione
di donne italiane con origini migratorie nei parlamenti svizzeri è ancora
insufficiente ma promettente. Fino a pochi anni fa era un’eccezione leggere tra
i componenti dei legislativi federale, cantonali e comunali cognomi che
richiamavano facilmente le origini italiane. Oggi non sorprende che nel
Consiglio Nazionale siano almeno una decina i consiglieri che hanno anche la nazionalità
italiana, tra cui cinque donne, e che probabilmente nelle stesse proporzioni uomini
e donne di origini migratorie italiane siedano nei parlamenti cantonali e
comunali.
La partecipazione
di queste persone nei legislativi svizzeri è un segnale evidente non solo
dell’emancipazione politica delle (giovani) donne italiane qui residenti, ma
anche del loro impegno a contribuire con le loro idee e con i loro progetti allo
sviluppo di questo Paese. E’ importante segnalare l’attività di questo gruppo,
benché ancora piccolo, perché queste donne costituiscono un esempio. Sono come
apripista che invitano a seguirne le tracce, ad avere non solo coraggio, ma
anche senso civico e magari anche un pizzico di riconoscenza per i loro
genitori e nonni che hanno preparato loro la strada. Sta a loro, soprattutto,
valorizzare il tesoro che hanno ricevuto in eredità, perché a beneficiarne
siano tutti, svizzeri e stranieri, e in particolare quanti ancora si
riconoscono e potrebbero riconoscersi anche domani nell’italianità. (Fine)
Giovanni Longu
Berna, 26.10.2022