25 luglio 2012

110 anni fa: soluzione dell’«affare Silvestrelli»


In Italia gli anarchici sono sempre stati visti con sospetto, sia sotto la monarchia sia in epoca repubblicana… fino ai nostri giorni. Sotto i Savoia, gli anarchici erano accusati di propaganda antimonarchica e dei peggiori crimini contro le famiglie regnanti in Europa e per questo ricercati ovunque. Erano rari i Paesi in cui potevano trovare facilmente rifugio. Uno di questi era la Svizzera, in cui per altro venivano tollerati finché, con i loro comportamenti e i loro scritti, non mettessero a repentaglio la sicurezza interna o esterna dello Stato, nel qual caso venivano arrestati ed espulsi.

Fu proprio a causa di alcuni scritti di anarchici italiani pubblicati a Ginevra all’inizio del 1902 che scoppiò il più grave incidente diplomatico della lunga storia delle relazioni italo-svizzere. Pur trattandosi di un episodio di centodieci anni fa e irrilevante sotto il profilo delle conseguenze pratiche, può essere interessante ricordarlo per capire i rapporti italo-svizzeri all’inizio del secolo scorso.

L’«incidente» diplomatico
 
L'assassinio di re Umberto I
 In seguito all’assassinio del Re d’Italia Umberto I (29.7.1900) per mano di un anarchico, alcuni scritti inneggianti al regicidio, pubblicati a Losanna nel 1902 nel foglio «Le Réveil socialiste-anarchiste», furono ritenuti dal rappresentante d’Italia in Svizzera comm. Giulio Silvestrelli oltremodo ingiuriosi nei confronti del Re d’Italia. Silvestrelli, da poco a Berna e alquanto ignaro della legislazione svizzera, il 5 febbraio 1902 chiese perentoriamente al Consiglio federale di perseguire penalmente l’editore della rivista.
Il Consiglio federale fece presente che quanto richiesto non rientrava nelle competenze dell’esecutivo e che l’articolo 42 del Codice penale svizzero riguardante quel tipo di reati condizionava l’avvio di un procedimento penale a una richiesta esplicita da parte del governo italiano. Silvestrelli insistette nella sua richiesta con tono così arrogante e offensivo da indurre il Consiglio federale a chiederne il richiamo a Roma come «persona non grata».
Di fronte al rifiuto del governo italiano di riconoscere la normativa svizzera e di richiamare a Roma il proprio rappresentante, il 4 aprile il Consiglio federale decise di interrompere le relazioni diplomatiche con Silvestrelli e di conseguenza con l’Italia. Per ritorsione, l’Italia fece altrettanto nei confronti della Svizzera.
Il 10 aprile 1902 il Consiglio federale informò dell’accaduto le Camere federali in questi termini: «Essendo sorti deplorevoli malintesi fra noi ed il ministro d'Italia, commendatore Silvestrelli, ci siamo visti nella necessità di chiedere al Governo italiano, nell'interesse stesso delle buone relazioni fra i due paesi, il richiamo di Silvestrelli. Il governo italiano avendo rifiutato, noi abbiamo allora rotte le nostre relazioni con Silvestrelli; in seguito a ciò, il governo italiano, a sua volta, ruppe le relazioni col nostro ministro a Roma».
Al Consiglio Nazionale svizzero, dicono le cronache, «la lettura del comunicato del Consiglio federale circa la rottura delle relazioni coll’Italia venne accolta con una doppia salva di applausi». Al Consiglio degli Stati, invece, «la lettura fu accolta nel massimo silenzio».
Diversa, ovviamente, fu la versione diramata alla stampa dal Ministero degli esteri italiano, in cui si giustificava la decisione presa, per un principio di «dignità», ritenendo che l’Italia non doveva «piegarsi» alle richieste del governo svizzero.
Dopo le prime indiscrezioni sui contrasti tra il rappresentante italiano e il Consiglio federale, il Corriere del Ticino (20.03.1902) aveva parlato di un incidente diplomatico «di cui sarebbe inutile esagerare l'importanza». Non appena, invece, vennero resi noti i documenti ufficiali dell’accaduto, lo stesso quotidiano cominciò a considerare l’incidente Silvestrelli «serio», non tanto per la sua origine di ben poca importanza («un articolo di un giornaletto anarchico semiclandestino»), quanto perché «queste rotture diplomatiche, se son facili ad essere pronunciate, son sempre difficili da accomodare». Si augurava tuttavia che «le buoni relazioni fra le popolazioni ed i governi dei due Stati» non avessero nulla a soffrire per questo spiacevole incidente».

Le reazioni della stampa
Ad aggravare la situazione intervenne una campagna mediatica senza precedenti che si protrasse per mesi, creando non poche difficoltà a quanti ritenevano che si dovesse chiudere subito il caso, vista l’inconsistenza del motivo della controversia, di natura legata più al temperamento altezzoso del rappresentante italiano che a divergenze sostanziali tra l’Italia e la Svizzera. In effetti, tutti gli altri rapporti soprattutto commerciali tra i due Paesi proseguivano nel solco della buona tradizione, come se nulla fosse accaduto.
La stampa e l’opinione pubblica svizzere, «senza distinzione di partiti e senza riserve», erano unanimi nel sostenere che il Consiglio federale aveva agito «in conformità alle norme stabilite dalla legislazione svizzera», soprattutto di fronte alle critiche inaccettabili del rappresentante italiano nei confronti del Consiglio federale e della legislazione svizzera. Per prudenza, tuttavia, alcuni giornali confederati raccomandavano alla popolazione la massima prudenza «di fronte agli stranieri residenti nel nostro paese: il minimo incidente verrebbe sfruttato, senza misericordia, in nostro danno. Fermezza e prudenza, - ecco la parola d'ordine per l'Autorità e per i cittadini».
Quanto all’accaduto, i giornali svizzeri non avevano dubbi nell’assegnare le maggiori responsabilità alla parte italiana, ma evitavano di esagerarne la portata. La Neue Zürcher Zeitung riteneva il modo di agire del rappresentante italiano «incomprensibile», avendo egli violato «la prima regola della diplomazia, consistente a rispettare le leggi del paese presso il quale si è accreditati e ad evitare di immischiarsi degli affari interni di questo Paese». Riteneva, tuttavia, «che questo incidente non avrà seguito e che la buona volontà delle persone competenti riuscirà a ristabilire le relazioni normali ed amichevoli tra i due Paesi». Anche il Journal de Genève e il Corriere del Ticino invitavano a «non prendere sul tragico questo avvenimento».
Non mancarono tuttavia le voci critiche nei confronti dell’intransigenza del Consiglio federale, in particolare sul tono dello scambio di note con l’Italia, tanto più che «gli articoli del Risveglio, nei quali veniva fatta l'apologia del regicidio di Monza erano ben tali da provocare un'azione del Governo italiano onde far punire quel giornale». Si osservò anche che la legislazione svizzera era «insufficiente a reprimere i complotti anarchici».

La stampa e l’opinione pubblica italiane erano a loro volta generalmente concordi con le decisioni del governo italiano. Specialmente La Tribuna addossava al governo svizzero la responsabilità dell’accaduto e «non sarebbe stato dignitoso cedere alla domanda del governo federale e richiamare Silvestrelli». Un altro giornale, La Patria, organo della massoneria italiana, incoraggiava il governo «a far vedere col suo contegno che l'Italia non è disposta a subire nessuna umiliazione». Il Giornale d’Italia, di orientamento liberale, assunse un tono più moderato mettendo in rilievo soprattutto l’anomalia dell’accaduto, in quanto «l'amicizia schietta e sincera fra l'Italia e la Svizzera era tradizionale, tanto che da lunghissimo tempo i due Governi come i due popoli confinanti erano uniti da vincoli di stima, di simpatia e di reciproca fiducia». Non mancavano tuttavia le voci di dissenso e addossavano la responsabilità dell’accaduto all’inadeguatezza della direzione della politica estera italiana.

Gran parte della stampa internazionale si limitava ad osservare che il comportamento della Svizzera era stato corretto e che la composizione del dissidio non sarebbe stata difficile.

La mediazione della Germania
Intanto, una situazione che avrebbe puto risolversi «con un po' di comprendonio e di duttilità in quattro e quattr'otto», si andava allargando «più che la leggendaria macchia d'olio» e rischiava di far danno soprattutto ai «poveri emigranti» e alle buone relazioni tra due «Stati confinanti, gran parte de' cui abitanti emigrano dall'uno all'altro e quasi fraternizzano». E poiché nessuna delle due parti coinvolte intendeva fare il primo passo, fu la Germania, che aveva interessi comuni sia con l’Italia che con la Svizzera, a prendere l’iniziativa. Così, grazie ai suoi buoni uffici, il 30 luglio di centodieci anni fa il dissidio fu definitivamente composto. Ad agosto seguì lo scambio degli ambasciatori e quello che fu l’incidente diplomatico più incomprensibile delle relazioni italo-svizzere fu presto dimenticato.
Purtroppo sarà spesso dimenticato anche il suo insegnamento, ossia la necessità del rispetto e del dialogo alla base delle relazioni diplomatiche. E anche in questi ultimi anni se le tensioni tra l’Italia e la Svizzera sono state alte, «le ragioni sono dovute essenzialmente alla mancanza di dialogo». L’ha confermato qualche settimana fa l’Ambasciatore Deodato poco prima di lasciare la sede di Berna. Ma forse, in questo caso, le responsabilità maggiori andrebbero cercate ad un livello più alto di quello di ambasciatore.
A completezza del racconto va aggiunto che nel 1904 venne approvata in Svizzera una legge che puniva severamente i crimini anarchici. Venne subito battezzata dai giornali (ma non dalle autorità federali) «legge Silvestrelli» e fu vista come una sorta di garanzia della riconciliazione della Svizzera con l’Italia. Di fatto la riconciliazione c’è stata.

Giovanni Longu
25.07.2012