Le profonde trasformazioni che negli anni Settanta interessavano
l’economia e la società svizzere indussero le autorità federali a porre mano ad
alcune riforme legislative che avrebbero potuto avere conseguenze rilevanti
anche per gli immigrati. Una riguardava l’adeguamento della legge sulla
formazione professionale del 1963, l’altra una nuova legge sugli stranieri in
sostituzione della vecchia legge del 1931. Delle due solo la prima andò in
porto, mentre la seconda fu affossata da un referendum. La riforma della
formazione professionale stimolerà molti giovani italiani a seguire un
apprendistato regolare, dando loro la possibilità di avvicinarsi sempre più al
livello professionale e sociale degli svizzeri, la mancata adozione della legge
sugli stranieri ritarderà di decenni l’entrata in vigore di una nuova legge.
Poiché entrambe meritano un breve approfondimento, ad esse sono dedicati questo
e il prossimo articolo.
Gli interessati alla riforma della formazione professionale
Stranieri e formazione professionale: non solo automeccanica... |
Senza cambiamenti importanti nella preparazione
professionale dei futuri lavoratori, l’economia svizzera rischiava di non poter
introdurre su larga scala nuovi macchinari e nuovi metodi di lavorazione, anche
se in molte attività si continuava a preferire la manodopera a basso costo
(costituita soprattutto da stranieri) piuttosto che investire nelle nuove
tecnologie.
Senza cambiamenti radicali del sistema di formazione professionale,
per i sindacati e gli ambienti politici della sinistra moderata la società
rischiava di allargare il fossato culturale e sociale che tradizionalmente
separava lavoratori e impiegati, «tute blu» e «colletti bianchi», chi doveva
andare a lavorare subito dopo la scuola dell’obbligo e chi poteva proseguire
gli studi a volontà.
Il bisogno di una formazione professionale moderna era
fortemente sentito anche dagli stranieri, dagli italiani in particolare. Come è
già stato ricordato più volte in altri articoli, gli immigrati italiani (prima
generazione) erano costituiti per oltre il 75 per cento da persone non
qualificate, ma si può ben ritenere che il cento per cento non volesse che la
seconda generazione restasse nella stessa condizione. Oltretutto era risaputo,
specialmente dopo la crisi della metà degli anni Settanta, che una solida
formazione professionale rappresentava un’ottima prevenzione contro la
disoccupazione. Del resto, man
mano che la formazione professionale si diffondeva anche tra gli italiani
(grazie agli enti come il CISAP, l’ENAIP, l'ECAP-CGIL e altri), si costatava
che l’integrazione sul lavoro facilitava l’integrazione sociale.
Discussioni preliminari e rischi della riforma
Poiché la riforma avrebbe potuto trasformare non solo la formazione
professionale, ma anche l’intera società, il dibattito parlamentare fu
preceduto da studi, incontri, dibattiti, prese di posizione, che interessarono
l’intera opinione pubblica svizzera, mettendo subito in evidenza alcune
difficoltà non di poco conto per giungere a un buon risultato.
Sembrava soprattutto difficile conciliare le posizioni dei
due principali interessati alla riforma, perché gli ambienti economici chiedevano
un rafforzamento della formazione tecnico-pratica, mentre i sindacati e i partiti
di centro-sinistra non volevano rinunciare a dare all'apprendistato anche una
valenza culturale e sociale (fra l’altro importantissima per gli stranieri,
bisognosi di stimoli per l’integrazione).
Le discussioni coinvolsero anche gli ambienti italiani
perché all'inizio degli anni Settanta i giovani italiani che portavano a
termine un apprendistato regolare erano meno del 4 per cento, quelli che
seguivano una formazione presso gli enti italiani erano poche migliaia e
bisognava fare in modo che tutti, dopo la scuola dell’obbligo, continuassero
gli studi o seguissero una formazione professionale completa come i coetanei
svizzeri. I dibattiti sulla riforma rappresentarono soprattutto per le grandi
associazioni di italiani un’occasione straordinaria per organizzare sul tema
studi, convegni, tavole rotonde, pubblicazioni specifiche e per sensibilizzare
in particolare i giovani sulla necessità di seguire corsi completi di
formazione.
Tra i gestori di enti italiani, sicuramente qualcuno sperava
anche che la nuova legge contribuisse a valorizzare maggiormente quanto essi
facevano per i connazionali e per l’economia svizzera, ma nessuno si faceva
illusioni su possibili riconoscimenti delle attività svolte e meno ancora sul
riconoscimento dei certificati finali rilasciati. Si sperava tuttavia in un
maggiore sostegno morale e finanziario della Confederazione per il rilevante
contributo che gli enti davano all'elevazione professionale, culturale e
sociale di molti immigrati, a beneficio dell’economia e dell’intera società.
Il dibattito parlamentare
Il dibattito parlamentare fu lungo e intenso. Il disegno di
legge in discussione (dal giugno 1977) era un compromesso tra un rapporto di
una commissione ad hoc insediata nel 1969 e un progetto di legge elaborato
dall'Unione Sindacale Svizzera (USS). Il rapporto degli esperti rispondeva
soprattutto alle esigenze degli ambienti economici e proponeva fra l’altro una
diversificazione dell’apprendistato, introducendo, per esempio un tirocinio di
breve durata incentrato sulla pratica.
Il progetto dell'USS, invece, delineava una nuova concezione
della formazione professionale, polivalente, che prevedeva fra l’altro una
maggiore formazione culturale e sociale, la partecipazione degli apprendisti a
tutti i livelli e un maggiore coinvolgimento dello Stato. Del progetto della
commissione considerava molto pericolosa (anche nei confronti degli stranieri)
soprattutto l’introduzione di un tirocinio ridotto incentrato sulla pratica.
La discussione parlamentare, come detto, fu lunga perché le
posizioni erano distanti. La legge fu approvata nel gennaio del 1978 con grande
soddisfazione degli ambienti padronali, dei partiti di destra e del Consiglio
federale. Per l'USS era invece deludente (il sindacalista Ezio Canonica la
definì «miserabile»), per cui decise di lanciare il referendum, sperando in una
bocciatura popolare e nella possibilità di «una vera ed efficace riforma». Il
referendum però non andò a buon fine e il 1° gennaio 1980 la nuova legge entrò
in vigore. Non si trattava di una legge rivoluzionaria e dava la possibilità di
ulteriori riforme e miglioramenti.
Gli stranieri tra i beneficiari della riforma
A beneficiare della riforma furono tutti i protagonisti. Anzitutto i datori di lavoro che potevano contare su un sistema di formazione professionale flessibile, in grado di recepire tutte le esigenze delle nuove tecnologie, ma anche aperto ai futuri sviluppi della tecnica e dell’economia. I rappresentanti sindacali e della sinistra politica, pur non essendo riusciti a bloccare la legge col referendum, potevano considerarsi moderatamente soddisfatti di essere riusciti comunque a rafforzare nell'insegnamento professionale la cultura generale e le competenze sociali.
… ma anche elettronica, informatica e altre professioni (foto CISAP anni ’80 e ’90) |
Benché da un’analisi più attenta dei dati il quadro risulterebbe
meno soddisfacente (per esempio, nel Cantone di Berna, dei 520 apprendisti italiani
menzionati solo 183 seguivano un tirocinio di 4 anni) è innegabile dagli anni
Ottanta la tendenza di quasi tutti i giovani italiani a seguire, dopo la scuola
obbligatoria, una formazione di secondo grado superiore specialmente nella
forma dell’apprendistato e per alcuni a proseguire gli studi di grado
universitario.
I risultati più significativi arriveranno negli anni 2000. Il
censimento federale della popolazione del 2000 accerterà infatti ben 14.918
italiani titolari di formazioni di grado universitario, ossia il 13,2 per cento
della popolazione italiana residente stabilmente (nel 1970 era il 3,1%, nel
1980 il 2,9% e nel 1990 il 6,7%).
Giovanni Longu
Berna 26.1.2022