L’accordo di
emigrazione con la Svizzera del 1948 non è stato uno dei numerosi accordi
sollecitati dall’Italia con alcuni Paesi per consentire l’immigrazione di
lavoratori italiani, ma un accordo intervenuto quando i flussi migratori,
piuttosto consistenti, erano in atto già da tempo. Il movimento migratorio
dall’Italia alla Svizzera era cominciato all’epoca dei grandi lavori ferroviari
transalpini in base a un accordo del 1868, si era quasi completamente fermato
nel periodo tra le due guerre mondiali ed era ripreso immediatamente dopo la
fine dell’ultimo conflitto. La ripresa non fu casuale ma su espressa richiesta
svizzera, che trovò, com’è facile capire, piena accoglienza da parte italiana,
senza pretendere uno specifico accordo d’emigrazione/immigrazione. Per capire
come e perché si giunse all’accordo del 1948 è opportuno chiarire anzitutto il
contesto.
Contesto
immigratorio
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Fin dal 1900 si è parlato in Svizzera di «inforestierimento». |
Questa comunità,
che era stata determinante per lo sviluppo della Svizzera moderna, contribuì
anche a trasformare la Svizzera da Paese di emigrazione (fino al 1888 con un
saldo migratorio negativo) a Paese d’immigrazione. Alla carenza di
manodopera indigena suppliva attraendo lavoratori stranieri sempre più
necessari alle crescenti esigenze dell’industria e dei servizi con «accordi di
stabilimento» vantaggiosi per entrambe le parti.
Grazie a quegli accordi, gli arrivi dai Paesi confinanti di
tedeschi, austriaci, francesi e italiani divennero sempre più numerosi. Al
censimento del 1910 gli stranieri residenti (552.011) avevano raggiunto una
percentuale per quei tempi enorme, il 14,7 per cento della popolazione
complessiva (3.753.293 abitanti). Gli italiani (202.809) costituivano il
secondo gruppo straniero (36,7%) di poco inferiore al primo rappresentato dai tedeschi
(39,8%). L’immigrazione era divenuta strutturale e gli stranieri erano e si
sentivano sempre più indispensabili per lo sviluppo dell’economia.
Anche durante il fascismo la comunità italiana era
sopravvissuta bene, nonostante le pressioni e i condizionamenti del regime,
anzi si era persino arricchita sul piano organizzativo e culturale grazie della
collaborazione e al prestigio di numerosi fuorusciti, alcuni dei quali furono
all’origine di associazioni importanti, per esempio le Colonie Libere Italiane.
Xenofobia in aumento
Gli immigrati del secondo dopoguerra dovettero fare i conti
anche con la xenofobia. Sul finire dell’Ottocento e fino alla prima guerra
mondiale, man mano che la popolazione straniera cresceva, aumentava anche la
xenofobia, ossia la paura e talvolta l’ostilità della popolazione svizzera nei
confronti degli stranieri. Già nel 1920
fu depositata a Berna una iniziativa
popolare, munita di oltre 60.000 firme, per la modifica della Costituzione in
senso antistranieri. Fu respinta, ma il fronte xenofobo non si arrese.
Ritenendo il numero di stranieri eccessivo (anche se in calo
dall’inizio della guerra), nel 1928 fu approvata (70,7% di sì) una nuova
iniziativa popolare che chiedeva l’inserimento nella Costituzione federale di
una norma che impegnasse la Confederazione ad adottare misure idonee a
contrastare «l’inforestierimento». Con questo termine introdotto nella
discussione politica nel 1900 s’intendeva specialmente il pericolo di dipendere
sempre più dagli stranieri, soprattutto economicamente, ma anche culturalmente
e persino politicamente.
Il Consiglio federale non poteva non tener conto
dell’atteggiamento ostile verso gli stranieri di una parte consistente della
popolazione e avvalendosi dei suoi poteri intervenne a più riprese per ridurre
il numero di stranieri, pur nel rispetto degli accordi internazionali,
ottenendo risultati apprezzabili. In effetti la quota di stranieri scese
sensibilmente dal 14,7% del 1910 al 10,4% del 1920, poi all’8,7% nel 1930 e
infine al 5,2% nel 1941, il minimo storico del secolo. Per i movimenti
xenofobi, tuttavia, si trattava di risultati temporanei perché non dipendenti
da norme legali costringenti. Per essi era indispensabile un quadro giuridico
vincolante.
La legge sugli stranieri del 1931
Fino alla fine degli anni Venti del secolo scorso il
Consiglio federale era intervenuto nei confronti degli stranieri quasi
esclusivamente utilizzando strumenti di governo, ossia decreti federali, ma non
legislativi perché in gran parte ancora inesistenti. Per superare l’ostacolo
occorreva una legge federale sugli stranieri, che dal 1925 il Consiglio
federale cominciò a preparare. La
legge «concernente la dimora e il domicilio degli stranieri» (LDDS) fu approvata il 26 marzo 1931 ed entrò in vigore il 1°
gennaio 1934.
La nuova legge
costituì da quel momento la base
giuridica per la politica federale riguardante l’immigrazione e anche
per la lotta contro l’«inforestierimento».
Essa avrebbe influito necessariamente anche sui rapporti sociali e
amministrativi degli immigrati del dopoguerra, anche se ben pochi di essi ne
conoscevano la reale portata.

Il raggiungimento
di tale obiettivo condizionava non solo le modalità d’ingresso in Svizzera
degli stranieri, ma anche le ragioni del loro ingresso. Dal momento
dell’ingresso l’autorizzazione del soggiorno era vincolata non solo
all’ottenimento di un permesso di lavoro ma anche alla capacità di accoglienza
del Paese. Non bastava quindi un permesso di lavoro, ma anche l’autorizzazione
della Polizia degli stranieri, divenuta praticamente l’organo esecutivo delle
disposizioni federali in materia di soggiorno degli stranieri.
Si era ormai ben
lontani dalla politica migratoria liberale della seconda metà dell’Ottocento
fino alla prima guerra mondiale e i nuovi immigrati se ne resero ben presto
conto.
La Svizzera del
dopoguerra
L’elemento determinante per comprendere l’immediatezza e
l’intensità dei flussi migratori dall’Italia alla fine della seconda guerra
mondiale resta comunque la situazione di bisogno di manodopera italiana
dell’economia svizzera. A differenza di gran parte degli Stati confinanti, la
Svizzera era un Paese toccato solo marginalmente dalla guerra e con un apparato
industriale molto efficiente in grado di accrescere la produzione e le
esportazioni.
I comparti maggiormente sollecitati dalla domanda interna ed
esterna erano quelli tessile, metallurgico, meccanico, chimico-farmaceutico,
elettrico e orologiero, ma anche quelli relativi al turismo, ai servizi
domestici, all’agricoltura e soprattutto il ramo delle costruzioni e del genio
civile. Nonostante una certa esitazione al rilancio della produzione
industriale temendo una crisi simile a quella prebellica, fin dal 1945
l’industria elvetica iniziò la sua produzione a ritmi crescenti e occupando
tutta la manodopera indigena disponibile, in parte proveniente dal settore
agricolo.
L’agricoltura, a sua volta, reclamava manodopera per
sostituire i numerosi addetti passati all’industria e ai servizi (commercio,
banche, assicurazioni, ecc.), settori considerati più remunerativi e sicuri.
Anche all’interno del secondario e del terziario la mobilità verso l’alto degli
svizzeri era notevole, creando verso il basso vuoti occupazionali.
La carenza di personale era, specialmente in alcuni settori,
talmente acuta che, subito dopo la guerra, fin dal mese di luglio diversi
Cantoni, e in particolare i Cantoni di Zurigo e di San Gallo, chiesero al
Consiglio federale un allentamento delle misure restrittive in materia
d’immigrazione. La guerra aveva tuttavia mutato il quadro politico dei Paesi
tradizionali fornitori di manodopera alla Svizzera imponendo anche limiti
all’emigrazione, per cui anche una maggiore apertura da parte delle autorità
federali non sarebbe bastata a ottenere tutto il personale necessario. Si
trattava infatti di un fabbisogno di decine di migliaia di persone.
Come l’Italia divenne il maggior fornitore di manodopera
alla Svizzera si vedrà prossimamente.
Giovanni Longu
Berna, 27.02.2019
Berna, 27.02.2019