27 febbraio 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 5. La Svizzera bisognosa di manodopera


L’accordo di emigrazione con la Svizzera del 1948 non è stato uno dei numerosi accordi sollecitati dall’Italia con alcuni Paesi per consentire l’immigrazione di lavoratori italiani, ma un accordo intervenuto quando i flussi migratori, piuttosto consistenti, erano in atto già da tempo. Il movimento migratorio dall’Italia alla Svizzera era cominciato all’epoca dei grandi lavori ferroviari transalpini in base a un accordo del 1868, si era quasi completamente fermato nel periodo tra le due guerre mondiali ed era ripreso immediatamente dopo la fine dell’ultimo conflitto. La ripresa non fu casuale ma su espressa richiesta svizzera, che trovò, com’è facile capire, piena accoglienza da parte italiana, senza pretendere uno specifico accordo d’emigrazione/immigrazione. Per capire come e perché si giunse all’accordo del 1948 è opportuno chiarire anzitutto il contesto.

Contesto immigratorio
Fin dal 1900 si è parlato in Svizzera
di «inforestierimento».
I primi immigrati italiani giunti in Svizzera nel secondo dopoguerra non si trovarono completamente isolati e disorientati perché avevano la possibilità d’incontrare, soprattutto nei grandi centri urbani, collettività italiane o di origine italiana ben radicate. La prima ondata immigratoria risaliva all’epoca delle grandi infrastrutture ferroviarie di fine Ottocento e del grande sviluppo industriale della Svizzera, quando molti svizzeri, piuttosto che lavorare nei cantieri di montagna a scavare gallerie o all’interno di grandi fabbriche preferivano emigrare, soprattutto verso le Americhe. Molti immigrati italiani non erano più rientrati e alla fine del secolo costituivano, insieme alle loro famiglie, un gruppo nazionale di oltre 100.000 persone.
Questa comunità, che era stata determinante per lo sviluppo della Svizzera moderna, contribuì anche a trasformare la Svizzera da Paese di emigrazione (fino al 1888 con un saldo migratorio negativo) a Paese d’immigrazione. Alla carenza di manodopera indigena suppliva attraendo lavoratori stranieri sempre più necessari alle crescenti esigenze dell’industria e dei servizi con «accordi di stabilimento» vantaggiosi per entrambe le parti.
Grazie a quegli accordi, gli arrivi dai Paesi confinanti di tedeschi, austriaci, francesi e italiani divennero sempre più numerosi. Al censimento del 1910 gli stranieri residenti (552.011) avevano raggiunto una percentuale per quei tempi enorme, il 14,7 per cento della popolazione complessiva (3.753.293 abitanti). Gli italiani (202.809) costituivano il secondo gruppo straniero (36,7%) di poco inferiore al primo rappresentato dai tedeschi (39,8%). L’immigrazione era divenuta strutturale e gli stranieri erano e si sentivano sempre più indispensabili per lo sviluppo dell’economia.
Anche durante il fascismo la comunità italiana era sopravvissuta bene, nonostante le pressioni e i condizionamenti del regime, anzi si era persino arricchita sul piano organizzativo e culturale grazie della collaborazione e al prestigio di numerosi fuorusciti, alcuni dei quali furono all’origine di associazioni importanti, per esempio le Colonie Libere Italiane.

Xenofobia in aumento
Gli immigrati del secondo dopoguerra dovettero fare i conti anche con la xenofobia. Sul finire dell’Ottocento e fino alla prima guerra mondiale, man mano che la popolazione straniera cresceva, aumentava anche la xenofobia, ossia la paura e talvolta l’ostilità della popolazione svizzera nei confronti degli stranieri. Già nel 1920 fu depositata a Berna una iniziativa popolare, munita di oltre 60.000 firme, per la modifica della Costituzione in senso antistranieri. Fu respinta, ma il fronte xenofobo non si arrese.
Ritenendo il numero di stranieri eccessivo (anche se in calo dall’inizio della guerra), nel 1928 fu approvata (70,7% di sì) una nuova iniziativa popolare che chiedeva l’inserimento nella Costituzione federale di una norma che impegnasse la Confederazione ad adottare misure idonee a contrastare «l’inforestierimento». Con questo termine introdotto nella discussione politica nel 1900 s’intendeva specialmente il pericolo di dipendere sempre più dagli stranieri, soprattutto economicamente, ma anche culturalmente e persino politicamente.
Il Consiglio federale non poteva non tener conto dell’atteggiamento ostile verso gli stranieri di una parte consistente della popolazione e avvalendosi dei suoi poteri intervenne a più riprese per ridurre il numero di stranieri, pur nel rispetto degli accordi internazionali, ottenendo risultati apprezzabili. In effetti la quota di stranieri scese sensibilmente dal 14,7% del 1910 al 10,4% del 1920, poi all’8,7% nel 1930 e infine al 5,2% nel 1941, il minimo storico del secolo. Per i movimenti xenofobi, tuttavia, si trattava di risultati temporanei perché non dipendenti da norme legali costringenti. Per essi era indispensabile un quadro giuridico vincolante.

La legge sugli stranieri del 1931
Fino alla fine degli anni Venti del secolo scorso il Consiglio federale era intervenuto nei confronti degli stranieri quasi esclusivamente utilizzando strumenti di governo, ossia decreti federali, ma non legislativi perché in gran parte ancora inesistenti. Per superare l’ostacolo occorreva una legge federale sugli stranieri, che dal 1925 il Consiglio federale cominciò a preparare. La legge «concernente la dimora e il domicilio degli stranieri» (LDDS) fu approvata il 26 marzo 1931 ed entrò in vigore il 1° gennaio 1934.
La nuova legge costituì da quel momento la base giuridica per la politica federale riguardante l’immigrazione e anche per la lotta contro l’«inforestierimento». Essa avrebbe influito necessariamente anche sui rapporti sociali e amministrativi degli immigrati del dopoguerra, anche se ben pochi di essi ne conoscevano la reale portata.

L’obiettivo della legge era chiaro: la lotta all’«inforestierimento» (Überfremdung) attraverso un sistema di vincoli, prescrizioni e autorizzazioni finalizzato non tanto a contenere l’afflusso di stranieri (molto difficile da raggiungere per le esigenze preponderanti dell’economia e per gli accordi internazionali), quanto piuttosto a rendere estremamente difficoltosa la strada per ottenere il diritto di residenza stabile (permesso di domicilio) in Svizzera. Un servizio dell’amministrazione, la Polizia degli stranieri, governava con molta discrezionalità il sistema.
Il raggiungimento di tale obiettivo condizionava non solo le modalità d’ingresso in Svizzera degli stranieri, ma anche le ragioni del loro ingresso. Dal momento dell’ingresso l’autorizzazione del soggiorno era vincolata non solo all’ottenimento di un permesso di lavoro ma anche alla capacità di accoglienza del Paese. Non bastava quindi un permesso di lavoro, ma anche l’autorizzazione della Polizia degli stranieri, divenuta praticamente l’organo esecutivo delle disposizioni federali in materia di soggiorno degli stranieri.
Si era ormai ben lontani dalla politica migratoria liberale della seconda metà dell’Ottocento fino alla prima guerra mondiale e i nuovi immigrati se ne resero ben presto conto. 

La Svizzera del dopoguerra
L’elemento determinante per comprendere l’immediatezza e l’intensità dei flussi migratori dall’Italia alla fine della seconda guerra mondiale resta comunque la situazione di bisogno di manodopera italiana dell’economia svizzera. A differenza di gran parte degli Stati confinanti, la Svizzera era un Paese toccato solo marginalmente dalla guerra e con un apparato industriale molto efficiente in grado di accrescere la produzione e le esportazioni.
I comparti maggiormente sollecitati dalla domanda interna ed esterna erano quelli tessile, metallurgico, meccanico, chimico-farmaceutico, elettrico e orologiero, ma anche quelli relativi al turismo, ai servizi domestici, all’agricoltura e soprattutto il ramo delle costruzioni e del genio civile. Nonostante una certa esitazione al rilancio della produzione industriale temendo una crisi simile a quella prebellica, fin dal 1945 l’industria elvetica iniziò la sua produzione a ritmi crescenti e occupando tutta la manodopera indigena disponibile, in parte proveniente dal settore agricolo.
L’agricoltura, a sua volta, reclamava manodopera per sostituire i numerosi addetti passati all’industria e ai servizi (commercio, banche, assicurazioni, ecc.), settori considerati più remunerativi e sicuri. Anche all’interno del secondario e del terziario la mobilità verso l’alto degli svizzeri era notevole, creando verso il basso vuoti occupazionali.
La carenza di personale era, specialmente in alcuni settori, talmente acuta che, subito dopo la guerra, fin dal mese di luglio diversi Cantoni, e in particolare i Cantoni di Zurigo e di San Gallo, chiesero al Consiglio federale un allentamento delle misure restrittive in materia d’immigrazione. La guerra aveva tuttavia mutato il quadro politico dei Paesi tradizionali fornitori di manodopera alla Svizzera imponendo anche limiti all’emigrazione, per cui anche una maggiore apertura da parte delle autorità federali non sarebbe bastata a ottenere tutto il personale necessario. Si trattava infatti di un fabbisogno di decine di migliaia di persone.
Come l’Italia divenne il maggior fornitore di manodopera alla Svizzera si vedrà prossimamente.
Giovanni Longu
Berna, 27.02.2019