Oltre che nel segno dell’apertura europea, la popolazione
italiana in Svizzera durante il decennio 1991-2000 si conferma come il gruppo
straniero più numeroso e più integrato, ma anche tendenzialmente in diminuzione
a causa dei numerosi rientri in Italia e del calo delle nascite. La popolazione
italiana complessiva, comprendente anche i doppi cittadini, tende tuttavia ad
aumentare, grazie soprattutto all'avanzata dei giovani della seconda
generazione che incontrano sul loro cammino di crescita formativa, sociale e
professionale molte meno difficoltà della prima generazione. Alla fine del
decennio la piena integrazione non sarà ancora raggiunta, ma la parità tra
giovani italiani e svizzeri sarà molto vicina, grazie soprattutto alla nuova
politica immigratoria svizzera, ma anche alle scelte coraggiose e lungimiranti
degli italiani.
Continua il bisogno di manodopera straniera
Negli ultimi anni Ottanta fino al 1990 erano stati creati in
Svizzera molti nuovi posti di lavoro, che erano stati occupati in gran parte da
nuovi immigrati (per lo più non italiani). Poiché anche negli anni Novanta
l’economia aveva continuamente bisogno di manodopera, c’era il rischio che la
percentuale di stranieri, ridottasi in seguito alla crisi della metà degli anni
Settanta, tornasse ai valori dell’inizio di quel decennio, facendo il gioco dei
movimenti xenofobi, sempre all'erta e in grado di lanciare pericolose
iniziative popolari miranti a limitare il numero degli stranieri residenti.
Il Consiglio federale non intendeva tuttavia derogare né
agli imperativi della legge sugli stranieri del 1931, né a suoi impegni
programmatici assunti di fronte al Parlamento, ai sindacati e all’opinione
pubblica di stabilizzare (e possibilmente
ridurre gradualmente) la popolazione straniera. La legge del 1931 sulla dimora
e il domicilio degli stranieri ancora in vigore, obbligava le autorità preposte
alla concessione dei permessi a tener conto «nelle loro decisioni, degli
interessi morali ed economici del Paese nonché dell’eccesso della popolazione straniera».
Per questo dal 1970 la Confederazione aveva preso impegni precisi sulla
stabilizzazione e l’integrazione della popolazione straniera.
La stabilizzazione raggiunta
Indipendentemente dalla pressione degli ambienti xenofobi,
il Consiglio federale non era disposto in alcun modo a tollerare assunzioni
indiscriminate di stranieri (com’era avvenuto nel dopoguerra fino al 1963 e in
parte anche dopo, nonostante alcune misure di rallentamento introdotte tra il
1963 e il 1970), ma nemmeno ad accettare una regolamentazione rigida
dell’immigrazione come chiedeva la destra nel 1994 con un’iniziativa popolare.
Piuttosto mirava a garantire «un rapporto equilibrato tra l’effettivo della
popolazione residente svizzera e quella straniera», sebbene non fosse ben chiaro
cosa intendesse per «equilibrato».
Negli anni Ottanta, il governo era già riuscito a rallentare
l’incremento della popolazione straniera, dalla seconda metà degli anni Novanta
riuscirà a stabilizzarla. Dal 1991, infatti, la percentuale di crescita invertirà
la tendenza e passerà dal 5,8 per cento del 1990 allo 0,3 per cento nel 1997.
Se fino al 1990 il numero degli arrivi superava quello delle partenze, dal 1991
queste superano gli arrivi.
A questo punto il Consiglio federale avrebbe forse potuto
affrontare i temi da decenni sollevati dagli ambienti immigratori dei
ricongiungimenti familiari e della libera circolazione, ma probabilmente ha
ritenuto che i tempi non fossero ancora propizi, considerando che
nell'eventualità di una votazione popolare avrebbero incontrato sicuramente
molte resistenze sia negli ambienti politici e sindacali che nell'opinione
pubblica.
Il momento dev'essere sembrato invece propizio per
sottolineare la necessità di intensificare gli sforzi per incoraggiare
l’integrazione degli stranieri e di semplificare e accelerare la procedura di
naturalizzazione, anche alla luce della diminuzione negli ultimi anni Ottanta
delle naturalizzazioni, scese complessivamente da 14.287 (nel 1985) a 8757 (nel
1991) e, relativamente agli italiani, da 3259 (1985) a 1802 (1991).
La situazione degli italiani
La stabilizzazione della popolazione straniera è avvenuta
soprattutto grazie alla diminuzione degli italiani che per tutti gli anni
Ottanta e Novanta hanno fatto registrare un saldo migratorio negativo. Tra il
1970 e il 2000 la popolazione italiana residente è diminuita di oltre 260.000
persone. Nel 1990 gli italiani residenti, secondo i dati del censimento
federale della popolazione, erano 383.204 e rappresentavano il 30,8 per cento
della popolazione straniera; nel 2000 risultarono 321.795 e costituivano ormai
meno di un quarto della popolazione straniera (22,6%).
Stando alle statistiche italiane (MAE-AIRE), gli italiani residenti in Svizzera nel 2000 erano invece 525.385 e cinque anni prima erano già 413.941. Dunque in soli cinque anni è stato registrato un aumento di ben 211.444 cittadini italiani. Non è facile spiegare questo dato, ma probabilmente si è trattato di nuovi arrivati, di nuovi naturalizzati che hanno conservato la cittadinanza italiana e di naturalizzati che hanno riacquistato la cittadinanza italiana. Dal 1992 per la Svizzera, come pure per l’Italia, la naturalizzazione non comporta più la perdita della cittadinanza originaria.
Integrazione «compito politico» dello Stato
Nel suo Rapporto sulla politica in materia di rifugiati e di
stranieri del 1991, il Consiglio federale non aveva dubbi sull'importanza
dell’integrazione degli stranieri, che costituiva «il secondo pilastro
dell'attuale politica in materia di stranieri» e un «compito politico» dello
Stato. A differenza di quanto era avvenuto negli anni Settanta e Ottanta,
quando l’integrazione era stata considerata un problema sociale e assistenziale
di competenza prevalente dei Cantoni e dei Comuni, ora era lo Stato che se ne
faceva carico.
Nel 1991 si parlava della «futura politica d’integrazione»,
ma se ne delineavano già i contorni essenziali, come quando si affermava che
«un'ampia politica d'integrazione riuscirà soltanto se svizzeri e stranieri
sapranno dar prova di reciproca comprensione» o quando si precisava che «la
futura politica d'integrazione […] dovrà perseguire un duplice obiettivo: a
tutti i gruppi della popolazione per i quali la Svizzera è divenuta patria
d'elezione, essa deve garantire l'accesso a una piena integrazione sociale»
oppure quando si dava l’indicazione di una nuova concezione della politica
d'integrazione «che tenga conto del modello di libera circolazione».
Non c’è dubbio che accingersi a concepire e poi a dover
implementare una nuova politica immigratoria così impegnativa incentrata
sull'integrazione doveva apparire al Consiglio federale un compito non
indifferente. D’altra parte era lo stesso organo federale che riconosceva la
necessità «creare condizioni favorevoli all'integrazione degli stranieri che
abitano e lavorano nel nostro Paese» e di adottare «in misura molto più
rilevante che in passato» provvedimenti efficaci per il promovimento
dell’integrazione, «a tutti i livelli del nostro ordinamento statale».
Il Consiglio federale si rendeva sicuramente ben conto anche
delle difficoltà che avrebbe incontrato la realizzazione della futura politica
d’integrazione non solo a livello politico, ma anche e forse soprattutto a
livello sociale. Perciò, nel Rapporto menzionato, ripetutamente si parla di
«sforzi» da compiere e intensificare per stimolare «la disponibilità [degli
svizzeri] ad accogliere gli stranieri», «per l'integrazione della popolazione
straniera residente e il mantenimento della disponibilità degli svizzeri nei
confronti degli stranieri», ecc.
Se la politica d’integrazione è divenuta dagli anni Novanta
un compito politico dello Stato, non va dimenticato che i soggetti maggiormente
coinvolti erano gli stranieri, ma questi stavano cambiando rapidamente,
soprattutto gli italiani. Del loro atteggiamento di fronte al tema
dell’integrazione e della naturalizzazione si tratterà nel prossimo articolo.
Giovanni Longu
Berna 6.4.2022