06 aprile 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 02.Integrazione «compito politico» dello Stato

Oltre che nel segno dell’apertura europea, la popolazione italiana in Svizzera durante il decennio 1991-2000 si conferma come il gruppo straniero più numeroso e più integrato, ma anche tendenzialmente in diminuzione a causa dei numerosi rientri in Italia e del calo delle nascite. La popolazione italiana complessiva, comprendente anche i doppi cittadini, tende tuttavia ad aumentare, grazie soprattutto all'avanzata dei giovani della seconda generazione che incontrano sul loro cammino di crescita formativa, sociale e professionale molte meno difficoltà della prima generazione. Alla fine del decennio la piena integrazione non sarà ancora raggiunta, ma la parità tra giovani italiani e svizzeri sarà molto vicina, grazie soprattutto alla nuova politica immigratoria svizzera, ma anche alle scelte coraggiose e lungimiranti degli italiani.

Continua il bisogno di manodopera straniera

Negli anni Novanta, la politica svizzera, dopo aver raggiunto in larga misura la stabilizzazione della popolazione straniera, pur restando fondamentalmente in linea col passato tende ad aprirsi a nuovi impulsi provenienti dalla migliorata situazione economica, dalla tendenza integrativa europea e dalle scelte prospettiche degli italiani, sempre più decisi a inserirsi nelle migliori posizioni dell’economia e della società svizzere.

Negli ultimi anni Ottanta fino al 1990 erano stati creati in Svizzera molti nuovi posti di lavoro, che erano stati occupati in gran parte da nuovi immigrati (per lo più non italiani). Poiché anche negli anni Novanta l’economia aveva continuamente bisogno di manodopera, c’era il rischio che la percentuale di stranieri, ridottasi in seguito alla crisi della metà degli anni Settanta, tornasse ai valori dell’inizio di quel decennio, facendo il gioco dei movimenti xenofobi, sempre all'erta e in grado di lanciare pericolose iniziative popolari miranti a limitare il numero degli stranieri residenti.

Il Consiglio federale non intendeva tuttavia derogare né agli imperativi della legge sugli stranieri del 1931, né a suoi impegni programmatici assunti di fronte al Parlamento, ai sindacati e all’opinione pubblica di stabilizzare (e possibilmente ridurre gradualmente) la popolazione straniera. La legge del 1931 sulla dimora e il domicilio degli stranieri ancora in vigore, obbligava le autorità preposte alla concessione dei permessi a tener conto «nelle loro decisioni, degli interessi morali ed economici del Paese nonché dell’eccesso della popolazione straniera». Per questo dal 1970 la Confederazione aveva preso impegni precisi sulla stabilizzazione e l’integrazione della popolazione straniera.

La stabilizzazione raggiunta

Indipendentemente dalla pressione degli ambienti xenofobi, il Consiglio federale non era disposto in alcun modo a tollerare assunzioni indiscriminate di stranieri (com’era avvenuto nel dopoguerra fino al 1963 e in parte anche dopo, nonostante alcune misure di rallentamento introdotte tra il 1963 e il 1970), ma nemmeno ad accettare una regolamentazione rigida dell’immigrazione come chiedeva la destra nel 1994 con un’iniziativa popolare. Piuttosto mirava a garantire «un rapporto equilibrato tra l’effettivo della popolazione residente svizzera e quella straniera», sebbene non fosse ben chiaro cosa intendesse per «equilibrato».

Negli anni Ottanta, il governo era già riuscito a rallentare l’incremento della popolazione straniera, dalla seconda metà degli anni Novanta riuscirà a stabilizzarla. Dal 1991, infatti, la percentuale di crescita invertirà la tendenza e passerà dal 5,8 per cento del 1990 allo 0,3 per cento nel 1997. Se fino al 1990 il numero degli arrivi superava quello delle partenze, dal 1991 queste superano gli arrivi.

A questo punto il Consiglio federale avrebbe forse potuto affrontare i temi da decenni sollevati dagli ambienti immigratori dei ricongiungimenti familiari e della libera circolazione, ma probabilmente ha ritenuto che i tempi non fossero ancora propizi, considerando che nell'eventualità di una votazione popolare avrebbero incontrato sicuramente molte resistenze sia negli ambienti politici e sindacali che nell'opinione pubblica.

Il momento dev'essere sembrato invece propizio per sottolineare la necessità di intensificare gli sforzi per incoraggiare l’integrazione degli stranieri e di semplificare e accelerare la procedura di naturalizzazione, anche alla luce della diminuzione negli ultimi anni Ottanta delle naturalizzazioni, scese complessivamente da 14.287 (nel 1985) a 8757 (nel 1991) e, relativamente agli italiani, da 3259 (1985) a 1802 (1991).

La situazione degli italiani

La stabilizzazione della popolazione straniera è avvenuta soprattutto grazie alla diminuzione degli italiani che per tutti gli anni Ottanta e Novanta hanno fatto registrare un saldo migratorio negativo. Tra il 1970 e il 2000 la popolazione italiana residente è diminuita di oltre 260.000 persone. Nel 1990 gli italiani residenti, secondo i dati del censimento federale della popolazione, erano 383.204 e rappresentavano il 30,8 per cento della popolazione straniera; nel 2000 risultarono 321.795 e costituivano ormai meno di un quarto della popolazione straniera (22,6%).

Stando alle statistiche italiane (MAE-AIRE), gli italiani residenti in Svizzera nel 2000 erano invece 525.385 e cinque anni prima erano già 413.941. Dunque in soli cinque anni è stato registrato un aumento di ben 211.444 cittadini italiani. Non è facile spiegare questo dato, ma probabilmente si è trattato di nuovi arrivati, di nuovi naturalizzati che hanno conservato la cittadinanza italiana e di naturalizzati che hanno riacquistato la cittadinanza italiana. Dal 1992 per la Svizzera, come pure per l’Italia, la naturalizzazione non comporta più la perdita della cittadinanza originaria.

Integrazione «compito politico» dello Stato

Nel suo Rapporto sulla politica in materia di rifugiati e di stranieri del 1991, il Consiglio federale non aveva dubbi sull'importanza dell’integrazione degli stranieri, che costituiva «il secondo pilastro dell'attuale politica in materia di stranieri» e un «compito politico» dello Stato. A differenza di quanto era avvenuto negli anni Settanta e Ottanta, quando l’integrazione era stata considerata un problema sociale e assistenziale di competenza prevalente dei Cantoni e dei Comuni, ora era lo Stato che se ne faceva carico.

Nel 1991 si parlava della «futura politica d’integrazione», ma se ne delineavano già i contorni essenziali, come quando si affermava che «un'ampia politica d'integrazione riuscirà soltanto se svizzeri e stranieri sapranno dar prova di reciproca comprensione» o quando si precisava che «la futura politica d'integrazione […] dovrà perseguire un duplice obiettivo: a tutti i gruppi della popolazione per i quali la Svizzera è divenuta patria d'elezione, essa deve garantire l'accesso a una piena integrazione sociale» oppure quando si dava l’indicazione di una nuova concezione della politica d'integrazione «che tenga conto del modello di libera circolazione».

Non c’è dubbio che accingersi a concepire e poi a dover implementare una nuova politica immigratoria così impegnativa incentrata sull'integrazione doveva apparire al Consiglio federale un compito non indifferente. D’altra parte era lo stesso organo federale che riconosceva la necessità «creare condizioni favorevoli all'integrazione degli stranieri che abitano e lavorano nel nostro Paese» e di adottare «in misura molto più rilevante che in passato» provvedimenti efficaci per il promovimento dell’integrazione, «a tutti i livelli del nostro ordinamento statale».

Il Consiglio federale si rendeva sicuramente ben conto anche delle difficoltà che avrebbe incontrato la realizzazione della futura politica d’integrazione non solo a livello politico, ma anche e forse soprattutto a livello sociale. Perciò, nel Rapporto menzionato, ripetutamente si parla di «sforzi» da compiere e intensificare per stimolare «la disponibilità [degli svizzeri] ad accogliere gli stranieri», «per l'integrazione della popolazione straniera residente e il mantenimento della disponibilità degli svizzeri nei confronti degli stranieri», ecc.

Se la politica d’integrazione è divenuta dagli anni Novanta un compito politico dello Stato, non va dimenticato che i soggetti maggiormente coinvolti erano gli stranieri, ma questi stavano cambiando rapidamente, soprattutto gli italiani. Del loro atteggiamento di fronte al tema dell’integrazione e della naturalizzazione si tratterà nel prossimo articolo.

Giovanni Longu

Berna 6.4.2022 

04 aprile 2022

Conflitto russo-ucraino: è anche una guerra di religione?

Qualche osservatore lo sostiene perché il patriarca ortodosso russo Kirill è schierato dalla parte di Putin e il metropolita ucraino Epifanij dalla parte di Zelensky. Non credo, tuttavia che si possa parlare di una guerra di religione, perché lo scontro tra la Russia e l’Ucraina non è scoppiato per questioni religione, ma per questioni geopolitiche ed eccesso di nazionalismo.

Non si può negare, tuttavia, che le due Chiese ortodosse, a differenza della Chiesa cattolica (Santa Sede) decisamente schierata per la pace e contro la guerra, contribuiscano più ad alimentare la guerra che a favorire la pace. Se per Kirill l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è una «guerra santa» da combattere contro un Occidente corrotto, per Epifanij è «un cinico attacco» ed è compito degli ucraini «respingere il nemico, difendere la patria e il nostro futuro dalla tirannia dell’aggressore». Nessuno dei due sembra invocare la cessazione della guerra fratricida, il ristabilimento della pace e la riconciliazione cristiana. Perché non lo fanno?

Non voglio speculare su poche affermazioni diffuse dalla stampa, ma credo che la ragione sia una sola: entrambi i capi religiosi sono impotenti nei confronti dei rispettivi governi statali e succubi di nazionalismi che puntano più a esasperare le differenze che a valorizzare ciò che unisce russi e ucraini.

Non è il caso, in questa nota, di ricercare nella storia delle tensioni interne del grande mondo ortodosso le «ragioni» delle due Chiese, perché comunque non giustificherebbero in alcun modo una guerra così sanguinosa e distruttiva e il ritorno a un passato che si riteneva remoto perché non ha più senso parlare di «guerra santa» e di «resistenza fino all'ultimo uomo». Possibile che persone colte e «uomini di Dio» non si rendano conto dell’oltraggio a Dio oltre che alla vita e all'umanità?

Non penso in ogni caso che la guerra tra Russia e Ucraina sia configurabile come «guerra di religione», perché ben altri sono gli interessi in gioco, di natura certamente anche etnica, etica (in senso generale, ma profondo), culturale e identitaria, ma soprattutto economica (perché l’est e l’ovest dell’Ucraina non si equivalgono).

Ritengo invece che la guerra si avvicinerebbe alla fine o cesserebbe del tutto se i capi delle due chiese ortodosse si «vergognassero» di quello che sta accadendo oggi in Ucraina (prendendo esempio da papa Francesco) e facessero, in questo tempo di quaresima, almeno un tentativo di riconciliazione. Molti o forse tutte le persone coinvolte nel conflitto seguirebbero il loro esempio. Potrebbe Francesco mediare?

Giovanni Longu