22 agosto 2012

L’Adula e la «crociata» per l’italianità



Oggi è facile affermare che «senza il Ticino la Svizzera non sarebbe di certo quella che è, caratterizzata dalla sua pluralità linguistico-culturale, motivo di vanto e orgoglio per questo Paese» (Cons. fed. Alain Berset a Locarno il 1° agosto 2012). Non è sempre stato evidente.

Dato l’interesse attuale per la lingua e la cultura italiane in Svizzera, il tema sarà affrontato prossimamente in questa rubrica in una serie di articoli, in cui si cercherà di mettere in luce gli stretti rapporti tra il Ticino e l’Italia da una parte e l’apporto specifico del Ticino alla Confederazione dall’altra. Due aspetti della stessa realtà che vanno tenuti uniti, come lo erano cent’anni fa, quando l’intensità del dibatto sull’italianità del Ticino raggiunse un livello molto elevato e coinvolse le maggiori personalità ticinesi e persino intellettuali italiani.

Il dibattito sull’italianità cent’anni fa
La questione della specificità «italiana» del Ticino, rimasta latente per decenni, esplose dopo che il 1° ottobre 1908 tutti i quotidiani ticinesi pubblicarono un manifesto redatto da Francesco Chiesa per conto di un gruppo di intellettuali ticinesi, in cui si proponeva la costituzione di una sezione ticinese della Società Dante Alighieri. Fu la classica goccia che fa traboccare il vaso.
Andando ben al di là dell’oggetto in questione si aprì un dibattito addirittura a livello nazionale sull’essenza stessa, linguistica, culturale e politica, del Ticino nel contesto della Confederazione. Mentre alcuni oppositori rifiutavano la proposta perché ritenevano la Dante Alighieri d’Italia un’espressione della massoneria, il quotidiano bernese Der Bund, considerato organo ufficioso del Consiglio federale, riteneva che la sezione ticinese della Dante sarebbe stata una sorta di cavallo di Troia dell’irredentismo italiano.
Viste le opposizioni (con motivazioni talvolta pretestuose), la proposta di una sezione ticinese della Dante Alighieri fu per il momento lasciata cadere, mentre il dibattito sull’italianità restò più aperto che mai. Dapprima si caratterizzò soprattutto come reazione all’«intedeschimento» del Ticino e difesa dell’italianità. Tornò persino alla ribalta un vecchio progetto di una Università Ticinese «non solo per salvaguardare i diritti della nostra cultura latina (...) ma anche per permetterci di fare comodamente i nostri studi nel Cantone, senza dover rivolgerci agli Atenei d'Italia o delle altre parti della Svizzera, ciò che crea spesso delle difficoltà non lievi».
Intanto la discussione si animava sempre più per l’accusa al Ticino d’irredentismo. A dar fuoco alle micce erano stati alcuni articoli pubblicati sul Giornale degli Italiani, un periodico sedicente «apolitico», organo della colonia italiana del Ticino, che credendo di dare man forte ai ticinesi in funzione antigermanica, di fatto contribuirono ad alimentare le diffidenze di numerosi confederati. Il Ticino prese subito le distanze dal Giornale degli Italiani, non accettando intromissioni straniere nelle questioni interne ticinesi, ma respinse ai vari mittenti anche le accuse d’irredentismo. Contemporaneamente molti ticinesi percepirono chiaramente che lo sviluppo dell’italianità nel Ticino e nei Grigioni doveva avvenire non solo nell’interesse della Svizzera italiana, ma anche degli svizzeri tedeschi e francesi, considerando sicuramente «un gran vantaggio poter studiare tre lingue e tre culture sul nostro territorio».

La «crociata» dell’Adula
Fu nel bel mezzo di questo dibattito che nel 1912 venne fondato da Rosetta Colombi e Teresa Bontempi l’Adula come «organo svizzero di coltura italiana». Il nome della testata non fu ovviamente casuale. L’Adula è infatti la vetta più alta del Ticino al confine con i Grigioni. Si voleva, tentando di coinvolgere i migliori elementi dell’italianità presenti in Svizzera, creare una specie di piattaforma su cui i vari temi di cultura italiana ed europea potessero essere discussi ad alto livello. Doveva anche rappresentare concretamente un efficace strumento di difesa dell’italianità del Ticino «dall’intedeschimento e dall’imbastardimento culturale».
L’Adula avviò ufficialmente la sua «crociata» in difesa dell’italianità il 4 luglio 1912 e per diversi anni operò efficacemente. Il livello degli articoli era generalmente alto perché vi scrivevano, oltre alle due fondatrici, firme illustri come Francesco Chiesa, lo storico Eligio Pometta, il glottologo Carlo Salvioni e lo stesso Giuseppe Prezzolini dall’Italia.

Giovanni Longu
Berna, 22.08.2012

Marcinelle e la memoria corta



Da alcuni anni, l’8 agosto si celebra la Giornata del sacrificio e del lavoro italiani nel mondo. In realtà da celebrare non c’è nulla, da commemorare e ricordare molto, a cominciare dalla tragedia di Marcinelle (Belgio) dell’8 marzo 1956, che stroncò la vita a 262 lavoratori, fra cui 136 italiani. Questa Giornata fu istituita, tuttavia, per dare l’occasione, almeno una volta l’anno, di una riflessione individuale e collettiva sull’emigrazione più o meno forzata di milioni di italiani, molti dei quali morti sul lavoro in terra straniera.

Ricordare è importante per la memoria collettiva, fatta di dati e di emozioni tramandati e da tramandare. La tragedia di Marcinelle, nella miniera di carbone di Bois du Cazier, è un punto di riferimento insostituibile perché quella tragedia fu vissuta praticamente in diretta nel mondo intero grazie ai mezzi di comunicazione di massa già allora molto sviluppati. Per questo, a giusta ragione, quella miniera, conservata quasi allo stato in cui si trovava nel 1956, è dal 1° luglio di quest’anno patrimonio della umanità dell’Unesco. E’ sacrosanto, dunque che la Giornata del sacrificio e del lavoro italiani nel mondo parta di lì.
Il contributo della stampa italiana anche quest’anno è stato notevole nel rievocare quella tragedia, assurta ormai a simbolo delle mille tragedie, fortunatamente meno gravi di quella di Marcinelle ma pur sempre drammatiche, occorse a migliaia di lavoratori italiani all’estero. Tra i vari discorsi e messaggi commemorativi spiccano anche quest’anno quelli istituzionali del Capo dello Stato e dei presidenti delle due Camere e quelli ormai consuetudinari di alcuni deputati eletti all’estero, per i quali guai non essere «presenti» in certe circostanze.

Sacrosanto ricordare… tutto!
Giusto e sacrosanto, ricordare le vittime e le disgrazie, ma il ricordo, per essere obiettivo e condiviso dovrebbe essere anche completo. Invece ciò che manca, sistematicamente, in queste commemorazioni, mi verrebbe da dire d’ufficio, è proprio la completezza. Non mi riferisco alla mancata menzione di altre gravi disgrazie, soprattutto a quelle capitate in Svizzera, da quella del Lötschberg o quella di Mattmark (il cui triste anniversario cade proprio alla fine di questo mese), perché l’elenco sarebbe ovviamente lunghissimo. Mi riferisco alla sistematica dimenticanza, non saprei dire se consapevole (e sarebbe gravissimo!) o inconsapevole delle responsabilità della politica, ossia della famosa «casta» a cui appartengono i vari mentori della tragedia di Marcinelle.
A prescindere da eventuali responsabilità personali, difficili da individuare e documentare, è innegabile che la politica italiana in generale è sempre stata carente e negligente nella gestione del fenomeno migratorio. Non c’è dubbio che soprattutto nei primi decenni del dopoguerra i vari governi della Repubblica, a cominciare da quello di De Gasperi, non hanno saputo contemperare le esigenze della nazione e il dovere di garantire i diritti fondamentali dei cittadini italiani emigrati.

La responsabilità della politica
In questa Giornata avrei voluto leggere qualche parola critica proprio nei confronti dell’accordo tra l’Italia e il Belgio del 23 giugno 1946, il famoso (o famigerato?) Protocollo di Roma, firmato da De Gasperi (col benestare di Togliatti e Nenni!) e il ministro belga Van Hacker. In esso si formalizzava lo scambio tra carbone e manodopera. L’Italia s’impegnava a favorire l’emigrazione nelle miniere del Belgio di circa 50.000 lavoratori, duemila ogni settimana, e il Belgio a vendere mensilmente all’Italia almeno 2500 tonnellate di carbone per ogni mille operai inviati.
Si gridò allora allo scandalo perché, si diceva, cittadini italiani erano «venduti per un sacco di carbone». Quel sentimento era ampiamente condiviso tra la popolazione, soprattutto dopo i racconti delle condizioni di lavoro, di alloggio e di vita dei primi minatori. Ufficialmente, invece, l’Italia stava combattendo la «guerra del carbone» necessario per la ripresa economica.
Si partiva, è vero, su base «volontaria» perché molti italiani, soprattutto disoccupati, si lasciarono sedurre da una propaganda ingannevole – il famoso «manifesto rosa» diffuso in tutta Italia dalla Federazione carbonifera belga di Bruxelles – che prometteva «condizioni particolarmente vantaggiose» a chi andava a svolgere «il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe». Nessuno, né del governo né dell’opposizione, diceva loro che le condizioni di sicurezza in quelle miniere erano scarse, che gli incidenti sul lavoro era molto frequenti e spesso mortali, che le condizioni di alloggio erano miserevoli, che spesso gli operai «erano trattati come bestie o poco più», che a causa del lavoro in miniera si moriva, spesso, anche dopo aver smesso di lavorare, per silicosi.

Questo e magari altro ancora non andrebbe cancellato dalla memoria collettiva quando si commemorano certe ricorrenze, riguardanti l’emigrazione italiana. Anche questo è storia.

Giovanni Longu
Berna 22.08.2012