Spesso, in un tipo di narrazione basata sul pregiudizio che
l’emigrazione sia una forma di schiavitù moderna ad opera di un capitalismo
spregiudicato e di una società egoista e ostile, gli emigrati sono descritti
come persone oppresse, discriminate, tristi. E’ innegabile che molti datori di
lavoro abbiano sfruttato la manodopera estera, che una parte della società
svizzera non vedesse di buon occhio gli stranieri, che molti di essi, uomini e
donne, si siano sentiti sfruttati e discriminati. Ma la maggior parte degli
immigrati ha avuto anche molte opportunità per socializzare, coltivare
amicizie, praticare sport, imparare, cantare, sognare, divertirsi, organizzare
feste. L’associazionismo degli anni Cinquanta e Sessanta è stato una risorsa
straordinaria a disposizione di tutti. No, gli immigrati di quel periodo erano
persone «normali», intraprendenti, positive, coraggiose, ottimiste e anche
allegre.
E’ giusto tuttavia ricordare che, essendo i rapporti con la
popolazione locale praticamente inesistenti o comunque difficili, la socialità
degli emigrati si praticava quasi esclusivamente nei loro ambienti, la Missione
Cattolica, la Casa d’Italia, le associazioni (negli anni Cinquanta e Sessanta
ne nacquero moltissime in tutta la Svizzera), baracche adattate a centri
d’incontro in cui si giocava a carte e alla morra, ma anche la stazione.
L’importante era vincere la malinconia, rompere la solitudine, smorzare la
nostalgia, parlare liberamente.
Poiché il tempo libero degli immigrati italiani della prima
generazione era poco, perché durante la settimana la stanchezza del lavoro esigeva
riposo, i giorni in cui si concentravano il divertimento, gli incontri, le
feste erano il sabato e la domenica. Le feste erano momenti aggregativi
straordinari. Ne venivano organizzate in tutte le città e la partecipazione era
solitamente molto alta. Spesso erano animate da artisti venuti appositamente
dall’Italia. L’atmosfera era tipicamente italiana.
Negli anni Sessanta, a Zurigo, al Kongresshaus
(Palazzo dei Congressi), venne anche organizzato un festival della canzone
italiana, trasmesso dalla Svizzera di lingua tedesca e dalla televisione
italiana. Il Festival, fu un successo e fu deciso di ripeterlo (1957-1967). Fiorenza
Venturini, attenta osservatrice del fenomeno migratorio del dopoguerra,
annotò che durante una di queste competizioni canore «ogni regione aveva
portato il fior fiore dei propri complessi folcloristici. I romagnoli erano i
più brillanti», ma «quello dei napoletani fu un vero trionfo» e «le
fondamenta del Kongresshaus tremarono
addirittura quando entrarono in scena i siciliani».
«Ich liebe dich»
Erano soprattutto gli adulti a partecipare alla vita
associativa e alle feste, ma anche i giovani (che negli anni Sessanta erano
ormai tantissimi) ne approfittavano per ballare, incontrare ragazze e fare
amicizie. Essi, però, cominciavano anche a uscire dalla cerchia degli italiani
ed esibendo qualche frasetta d’occasione imparata a memoria come la famosa «ich
liebe dich», cominciarono anche ad avvicinare le ragazze del posto, che non
sempre disdegnavano il contatto, sebbene a rischio di problemi in famiglia (non
certo come all’inizio del secolo, quando interveniva addirittura la polizia per
impedire che le ragazze ballassero con gli italiani).
Osservava la Venturini al riguardo che «le ragazze del
Konsum e della Migros, disorientate da tutta quell’invasione di maschi giovani
dal sud, avevano imparato a farsi i ricci tutte le settimane, però con i
“Tschingg” non ci sarebbero andate a spasso neanche a morire. S’accontentavano
di mirarli, di goderseli cogli occhi, di fingere di portarli in giro per farsi
osservare di più». Si sa che questi
pregiudizi finirono per cadere, almeno in parte, e da questi rapporti sono nati
molti matrimoni misti e soprattutto il superamento dell’incomunicabilità.
L’italianità finirà per piacere
Gli anni Cinquanta e Sessanta furono anni di chiusura nei
contatti tra svizzeri e italiani, ma alla fine del ventennio l’italianità si
era ormai imposta all’attenzione di tutti. Soprattutto nei pomeriggi
domenicali, annotava da Berna il corrispondente della Stampa Francesco
Rosso, «Berna si abbiglia all’italiana. Seduti sulle panchine dei
giardini pubblici, i giovanotti in casacche rosse e azzurre, ammirano le
ragazze che passeggiano in abiti fascianti e scollati… Non è facile immaginare
il meridionalissimo ”struscio”, la passeggiata domenicale ricca di sottintesi,
con rapidi sfioramenti di corpi giovani, nella Svizzera dell’efficienza, della
precisione, del puritanesimo (sia pure solo apparente) ma i nostri emigranti
sono riusciti a trapiantarlo con disinvolta facilità…».
Non solo lo struscio, ma l’italianità finirà per
diffondersi, affermarsi e piacere, anche se il processo cominciato in quegli
anni non sarà né breve né facile.
Giovanni Longu
Berna 30.10.2019
Berna 30.10.2019