La bocciatura, il 7 giugno 1970, dell’iniziativa
Schwarzenbach, aveva fatto tirare un sospiro di sollievo agli immigrati
italiani che si erano sentiti direttamente minacciati, ma non aveva dato alcuna
garanzia per il futuro. La convivenza tra svizzeri e stranieri sarebbe
migliorata? I movimenti xenofobi avrebbero imparato finalmente la lezione?
Almeno i giovani (seconda generazione) sarebbero stati sostenuti di fronte alle
difficoltà della lingua, della scuola, della formazione professionale,
dell’integrazione? Che ne sarebbe stato del patrimonio linguistico, culturale,
professionale costruito faticosamente dagli italiani di prima generazione? Per
tutti questi e altri interrogativi quella sconfitta non aveva dato alcuna
risposta rassicurante e bastò il lancio di una nuova iniziativa antistranieri,
pochi mesi dopo, per confermare i dubbi preesistenti. Essa indicava tuttavia in
maniera inequivocabile che il futuro avrebbe rappresentato una sfida per tutti,
per la politica migratoria svizzera e italiana, per la società svizzera, ma
anche per gli immigrati, anzi soprattutto per questi. Ma tutti erano
impreparati.
Le sfide per gli immigrati
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Anni '70: molti immigrati italiani decisero di rientrare in Italia. |
Gli immigrati avevano capito che una parte consistente della
popolazione, se era disposta ad accettarli come lavoratori non era altrettanto
bendisposta a riconoscerli come «con-cittadini», corresponsabili dello stesso
destino e compartecipi degli stessi doveri e degli stessi benefici. Per
ignoranza, per egoismo, per incomprensione o per un miscuglio di pregiudizi
sedimentati nel tempo molti svizzeri si sentivano minacciati dalla presenza
sempre più ingombrante degli stranieri, tanto più che fino agli inizi degli
anni Settanta non facevano che aumentare sia con nuovi arrivi e sia con un
notevole incremento di nascite.
Gli immigrati avvertivano chiaramente il distacco non solo
psicologico e sociale, ma anche fisico (basti pensare alla concentrazione degli
stranieri in certi tipi di abitazioni, in certi quartieri e in certe periferie)
tra loro e gli svizzeri e reagivano allo stesso modo dei gruppi minacciati,
chiudendosi in difesa. Per molto tempo il rifugio ideale fu rappresentato dalla
Missione cattolica italiana, dalla Casa d’Italia (dove c’era) e dalle
molteplici associazioni.
Purtroppo furono pochissimi i gruppi, le associazioni, le
istituzioni che capirono subito che quello era il momento dell’apertura,
dell’incontro, del dialogo e bisognava attrezzarsi perché questo funzionasse.
Il CISAP, il Centro italo-svizzero di formazione professionale di Berna, stava
dimostrando già da diversi anni che quella era la strada da seguire perché
esigeva collaborazione, corresponsabilità, partecipazione. Il suo esempio,
lentamente, farà scuola anche in altri settori della vita sociale.
Per la collettività italiana, ma specialmente per gli
immigrati della seconda ondata proveniente dal Mezzogiorno più che per quelli
dell’immediato dopoguerra provenienti dal Nord e in gran parte ben integrati,
la sfida più impegnativa che si prospettava nell’immediato era tuttavia se
interrompere l’esperienza emigratoria e rientrare, oppure restare cercando un
maggiore contatto con gli svizzeri attraverso un sincero desiderio di superare
i pregiudizi da entrambe le parti, una maggiore conoscenza reciproca, il
rispetto reciproco, ecc.
Come si sa e come si vedrà più approfonditamente in altro
articolo, furono moltissimi a lasciare la Svizzera nella prima metà degli anni
Settanta, ma furono anche molti quelli che decisero di rimanere, spesso
motivati dalla posizione professionale raggiunta magari a costo di grandi
sacrifici, ma soprattutto da considerazioni relative alla formazione e al
futuro professionale dei figli.
Le sfide per la politica emigratoria italiana
Da anni la politica emigratoria italiana cercava soluzioni
radicali per eliminare le cause principali dell’emigrazione, ossia la
disoccupazione e il disagio sociale che si registravano soprattutto al Sud. Nel
1966 il presidente del Consiglio dei ministri italiano Aldo Moro,
presentando il suo terzo governo, s’impegnava a «offrire ai nostri concittadini
crescenti opportunità di impiego in Patria, sì da dare sempre più al fenomeno
emigratorio dignità di una libera, consapevole scelta tra differenti sbocchi,
nell'interesse del lavoratore che aspiri ad utilizzare nel modo migliore le sue
capacità».
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Berna, Ambasciata d'Italia. Dal 1970 le
autorità italiane furono molto sollecitate dai connazionali in difficoltà. |
Si tratta di cifre inferiori a quelle che si registravano
negli anni precedenti, ma pur sempre molto consistenti, segno che la politica
emigratoria italiana ancora non funzionava, nonostante la Cassa per il
Mezzogiorno, i notevoli investimenti (strade, acquedotti, reti elettriche,
scuole, ospedali, fabbriche, comprese le numerose «cattedrali nel deserto»), le
forti pressioni dell’opposizione comunista sul governo e persino una certa
diffusione del benessere anche nelle regioni del Sud.
A scuotere l’inerzia del governo italiano interverrà la
crisi economica che dal 1974 farà rientrare in Italia decine di migliaia di
persone in più rispetto al già alto numero di rientri abituali dovuti al regime
di «rotazione». Negli anni della crisi, le rappresentanze diplomatiche e
consolari italiane si prodigarono oltre che per prestare la doverosa assistenza
a chi aveva perso il lavoro, per rallentare il flusso dei rientri più o meno
forzati (il tema sarà trattato in un prossimo articolo), ma anche per studiare
una nuova strategia d’integrazione per quanti intendevano restare.
Negli incontri periodici all’Ambasciata d’Italia con la
stampa italiana di quegli anni di crisi, l’impreparazione e la debolezza
strategica delle autorità italiane risultavano evidenti. Superare le fasi forse
più critiche della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, quella del
dopo Schwarzenbach e quella della crisi economica e occupazionale degli anni
Settanta, deve aver rappresentato una notevole sfida per le autorità
diplomatiche e consolari italiane, nonostante che proprio in quegli anni
registrassero una grande intesa con le autorità federali e cantonali svizzere.
Basti pensare che in un ventennio la collettività residente italiana (con la
sola nazionalità italiana) sarebbe passata da 583.855 (nel 1970) a 383.204 (nel
1990).
Le sfide per la politica immigratoria svizzera
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Berna, Palazzo federale. Dal 1970 le autorità
federali s'impegnarono per una nuova politica verso gli stranieri. |
Arginare l’offensiva della destra xenofoba però non sarebbe
bastato, perché anche i sindacati aspettavano segnali concreti di un
contenimento dell’immigrazione, l’economia stava entrando in una delicata fase
di ristrutturazione che avrebbe coinvolto inevitabilmente anche numerosi
immigrati, la società civile chiedeva sicurezza e chiarezza nei confronti degli
stranieri e poi c’era soprattutto il problema della seconda generazione, che
non poteva essere trattata alla stregua della prima.
Il Consiglio federale aveva di fronte a sé anche un altro
tipo di sfida dovuto alla difficoltà, non sempre compresa dagli studiosi
dell’immigrazione, del federalismo, per cui la riuscita di molte politiche
innovative dipende dal consenso dei principali attori politici, dalla
collaborazione dei tre livelli istituzionali, Confederazione, Cantoni e Comuni
e dal sostegno popolare (in caso di votazioni di iniziative popolari o
referendum).
Questo spiega, almeno in parte, la lentezza con cui la
Confederazione è riuscita a mettere a punto i vari strumenti d’intervento
normativi e amministrativi e a realizzare, gradualmente, gli obiettivi che si
era dati già verso la fine degli anni Sessanta. Va riconosciuto tuttavia al
Consiglio federale di essersi mosso subito adottando una strategia atta a
coinvolgere tutte le istituzioni e le parti coinvolte, compresi gli stranieri.
(Segue)
Giovanni Longu
Berna, 1.4.2020
Berna, 1.4.2020