Se qualcuno, in Svizzera, si chiedesse perché dal Sud Italia si continua ad emigrare e cercasse risposte convincenti in Internet, anche in siti specializzati, resterebbe deluso perché troverebbe molte descrizioni della situazione precaria (mancanza di lavoro, povertà crescente, sottosviluppo, illegalità diffusa, ecc.), ma nessuna risposta seria sulle sue vere cause dirette e indirette. Si trova spesso questa singolare spiegazione: si continua a emigrare a causa del fallimento delle «politiche attive per l’occupazione» degli ultimi governi, che non sono state in grado di far incontrare domanda e offerta di lavoro. Ed è sorprendente che, in generale, gli analisti non si rendano conto che è proprio questo fallimento che andrebbe spiegato.
Drammaticità
della situazione
Alla base del fallimento delle politiche dell’impiego c’è probabilmente la supposizione che si possano incontrare due elementi che rispondono spesso, in Italia, a logiche molto divergenti. Infatti, la creazione di posti di lavoro risponde prevalentemente a logiche di mercato e di profitto senza le quali solo la mano pubblica può intervenire con altre motivazioni. Le forze di lavoro dovrebbero rispondere alle esigenze dell’economia, ma questa relazione nei programmi formativi, soprattutto al Sud, è assente o marginale. Non si studia e s’impara una professione perché l’economia lo richiede, ma supponendo che lo studio faccia aprire tante porte e garantisca poi un’occupazione stabile, pulita e ben retribuita. A queste condizioni, come potrebbero incontrarsi domanda e offerta di lavoro?
Solitamente un investitore è disposto ad investire in un’impresa
se questa offre non solo buoni profitti, ma anche sufficienti garanzie di restare
a lungo sul mercato. Si sa, tuttavia, che uno degli elementi imprescindibili a
garanzia della sostenibilità di un’impresa è la qualità delle sue risorse umane.
Purtroppo questa qualità è carente nel Mezzogiorno, per cui ben difficilmente
si creeranno nuove imprese in grado di offrire opportunità di lavoro e di
reddito.
Inoltre dovrebbe risultare chiaro soprattutto ai
responsabili politici della formazione che le professionalità di cui ha bisogno
l’economia moderna non s’improvvisano, non si approntano in corsi di pochi
mesi, ma richiedono una lunga preparazione e congrui investimenti pubblici e
privati. Il primo incontro tra domanda e offerta dovrebbe cominciare già nella
scuola dell’obbligo, soprattutto nel Mezzogiorno dove la dicotomia tra studio e
lavoro è molto accentuata. Senza questo incontro è illusorio immaginare un
rapido sviluppo del Sud in grado di competere con quello del Nord e la
situazione del Mezzogiorno potrà solo peggiorare.
Un esempio per chiarire
Per chiarire il senso delle affermazioni precedenti basterebbe
osservare come si è creduto di superare il mancato incontro tra domanda e
offerta di lavoro, soprattutto al Sud, utilizzando fra l’altro ingenti
finanziamenti pubblici nazionali ed europei. Tra i molteplici esempi che si
potrebbero citare ne basta uno, che ha avuto come protagonista nientemeno che
l'ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro).
Qualche anno fa l'ANPAL aveva lanciato un «progetto di
formazione specialistica con tirocinio in azienda», che mirava a «sviluppare le
abilità nel settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione» e
a «promuovere la crescita professionale e le opportunità occupazionali nel
Mezzogiorno dei giovani Neet [giovani che non studiano, non hanno un lavoro e
non sono impegnati in percorsi formativi]». Si voleva cogliere il momento
propizio perché il settore delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione (Ict) era in forte espansione e altrettanto la richiesta di specialisti
con «competenze digitali».
Leggendo queste espressioni, chiunque conosca il sistema di formazione professionale svizzero potrebbe pensare che ora anche in Italia si fa una formazione seria con tanto di tirocinio (che in Svizzera dura da 2 a 4 anni!), approccio alle nuove tecnologie, informatica, orientamento al futuro, ecc. Basta tuttavia proseguire la lettura del progetto per ricredersi. Infatti si viene a sapere che si trattava di «percorsi formativi mirati all'inserimento lavorativo di durata massima di 200 ore, al termine delle quali erano previsti tirocini della durata di 3 mesi» e al termine del percorso formativo e del tirocinio la possibilità (senza garanzia alcuna) per i giovani partecipanti di essere assunti «con contratto … di apprendistato professionalizzante o di mestiere».
No, la formazione professionale, come si diceva in altro articolo, è una cosa seria e richiede tempo, convinzione e denaro (https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2023/05/deprivazione-e-formazione-terza-parte.html). Per essere efficace, soprattutto nel Mezzogiorno, sarebbe auspicabile una profonda riforma della formazione generale e professionale, inculcando negli allievi, fin dalla scuola dell'obbligo e soprattutto nel grado secondario superiore, l'«educazione allo sviluppo sostenibile (ESS)», che consenta l'acquisizione delle competenze richieste dal mercato del lavoro. Ovviamente essa deve coinvolgere anche la formazione specifica e continua degli insegnanti. Che tale riforma sia possibile lo dimostra il rapporto del Consiglio federale del 16 giugno 2023, secondo il quale l'ESS è ben integrata nel sistema formativo svizzero.
Conclusione
Con questi ultimi articoli si è pensato di dare un
contributo d’idee alla soluzione della «questione meridionale», suggerendo un modo
efficace e realizzabile, grazie alle notevoli disponibilità finanziarie del
PNRR, per superare il divario tra Sud e Nord, ossia un sistema moderno e sostenibile
di formazione professionale in grado di valorizzare e sviluppare tutte le
risorse naturali e umane del Mezzogiorno. Non riuscire a cogliere questa
occasione unica, potrebbe significare sacrificare il Sud a vantaggio del Centro
e del Nord, dividere l’Italia e abbandonarne una parte al proprio destino infausto.
(Fine)
Giovanni Longu
Berna 28.06.2023