19 novembre 2022

Pace subito tra Russia e Ucraina

Le manifestazioni per la pace delle ultime settimane hanno dimostrato un diffuso desiderio che la guerra tra Russia e Ucraina finisca subito o presto, senza attendere ulteriori disastri per evidenziarne ancora di più l’inutilità e il danno. Oltretutto, persino gli americani si stanno rendendo conto che è illusorio attendersi che il conflitto possa finire nel breve periodo perché una delle due parti ha dovuto soccombere. E poiché nessuno dei belligeranti sembra essere in grado di stravincere e costringere l’avversario alla resa, tanto varrebbe, anche sotto il profilo militare, cessare subito le ostilità e avviare il processo di pace.

Difficoltà oggettive, ma superabili

Purtroppo le posizioni per trovare un accordo sul cessate il fuoco sono ancora molto lontane, complice anche il mondo occidentale che pare di fatto cinicamente indifferente all'inutile strage, alla distruzione di un intero Paese e all'archiviazione definitiva del progetto di «casa comune europea» dell’ultimo leader sovietico nonché premio Nobel per la pace Michail Gorbaciov, recentemente scomparso. Un’autorevole e convinta mediazione (l’ONU? l'OSCE? Paesi neutrali? Vaticano? Le Chiese?) potrebbe rendere possibile l’accordo.

E’ urgente agire, anche perché è irrealistico pensare che l’Ucraina riconquisti in tempi brevi tutti i territori persi e che la Russia rinunci spontaneamente alle conquiste fatte. Dovrebbero tenerne conto anche i Paesi della NATO, interrompendo il flusso degli armamenti e inducendo l’Ucraina ad accettare l’immediato cessate il fuoco e l’avvio di un negoziato di pace. La Russia si è già dichiarata disponibile. E’ infatti nell'interesse di entrambi gli Stati porre fine alla guerra, ben sapendo che interrompere i combattimenti non significa accettare il fatto compiuto, ma avviare una trattativa di pace, sotto l’egida di un’istanza internazionale condivisa da entrambi i belligeranti.

Ripartire dagli accordi di Minsk, ma andare oltre

Per avviare un utile processo di pace credo che sia giudizioso ripartire dagli accordi di Minsk del 2014 e 2015 sottoscritti da Ucraina, Russia e le Repubbliche secessioniste di Doneck e Lugansk, perfezionando i punti che li resero inapplicabili. Riassunti all’essenziale quegli accordi prevedevano, oltre all’immediato cessate il fuoco e allo scambio dei prigionieri, la creazione di una «zona di sicurezza» sotto la sorveglianza dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), libere elezioni nel Donbass, una profonda riforma costituzionale in Ucraina con la decentralizzazione dei poteri, uno statuto speciale per le regioni di Donetsk e Lugansk.

I punti essenziali non vennero mai applicati, preferendo di fatto che a decidere fossero le armi e non il dialogo e la democrazia. Tuttavia, com'è facile costatare, le armi hanno solo prodotto morte e devastazioni. C’è da sperare che russi e ucraini, ma anche i sostenitori degli uni e degli altri, si rendano conto che solo il rispetto reciproco e il dialogo possono creare le condizioni di pace.

Condizioni di pace

Tacciano le armi!
Una di queste, a mio parere, dovrebbe consistere nella condivisione del diritto all’autodeterminazione dei popoli garantito dalla Carta delle Nazioni Unite, rendendolo applicabile anche in Ucraina. Attualmente non lo è perché le popolazioni russofone delle regioni orientali non hanno avuto la possibilità né di un referendum libero, garantito dall’ONU e dall’OSCE, né l’autonomia regionale negoziata nel 2014-15.

In una prospettiva di pace duratura è anche fondamentale che l’Ucraina sia garantita internazionalmente come Paese neutrale (analogamente a quanto è avvenuto sinora per la Svizzera) e che la Nato non solo non si espanda ulteriormente ad est, ma venga ridimensionata, anche per via dei costi smisurati che comporta ai suoi membri. In questa prospettiva, tuttavia, dovrebbe essere scongiurata l’eventuale adesione dell’Ucraina alla Nato.

Prevale la «sovranità nazionale» o l’«integrità territoriale»?

Sarebbe anche opportuno che a livello di opinione pubblica, ma anche di organizzazioni internazionali si riflettesse seriamente sulla gerarchia tra questi due principi: la sovranità nazionale e l’integrità territoriale degli Stati, entrambi previsti dalla Carta della Nazioni Unite.

Concettualmente i due principi non sono sovrapponibili perché la «sovranità nazionale» appartiene al popolo, alle persone che risiedono stabilmente su un territorio, mentre l’integrità territoriale è una caratteristica dello Stato, che può essere anche lontano, com'era lo Stato coloniale. Recita bene la Costituzione italiana all'articolo 1, secondo comma: «La sovranità appartiene al popolo», dunque non allo Stato, intendendo per popolo quello che abita e possiede da tempo quel territorio, anche prima che esistesse lo Stato nazionale.

Poiché la mancata gerarchizzazione dei due principi può degenerare in un conflitto armato, come nella guerra in corso, sarebbe auspicabile che l’ONU stabilisse una gerarchia chiara tra i due principi, rafforzando l’obbligo degli Stati a risolvere pacificamente le controversie internazionali, senza ricorso alle armi o anche solo alla minaccia di usarle. Non sarà per nulla facile perché le potenze che potrebbero facilitare il chiarimento sono anche le più implicate in tutti i conflitti su ampia scala con notevoli interessi economici, militari, strategici.

Morire ancora «per la Patria»?

No, non lo merita se può esistere un’altra modalità per difendere e onorare il proprio Paese. Per questo è più che mai urgente che da subito l’opinione pubblica si mobiliti per trasformare il generico desidero della pace tra Russia e Ucraina in appelli ai vari Stati occidentali, che indirettamente e ipocritamente partecipano alla guerra con l’invio di armi, perché rinuncino a questi invii e perché si attivino con azioni concrete, soprattutto diplomatiche, a facilitare un negoziato di pace. Per il bene dell’intera umanità è necessario che si interrompa subito la diffusione dell’odio tra i popoli e si diffonda la filosofia del dialogo, del rispetto reciproco, degli scambi e della collaborazione.

La fine della guerra non garantirebbe comunque la pace durevole. Questa va conquistata giorno per giorno e i cittadini del mondo andrebbero educati a rispettare la priorità dei valori, che trova al primo posto la vita umana e la libertà, ma anche a diffidare della facile retorica del patriottismo, del nazionalismo, dei cosiddetti «valori occidentali», della «nostra» democrazia.

Diceva bene Don Lorenzo Milani ai suoi ragazzi: «
Don Lorenzo Milani (1923-1967)
Quando andavamo noi a scuola, i nostri maestri, Dio li perdoni, ci avevano bassamente ingannati. A sentir loro tutte le guerre erano “per la Patria”»,
mentre in realtà «i loro infelici babbi hanno sofferto e fatto soffrire in guerra per difendere gli interessi di una classe ristretta, di cui non facevano nemmeno parte, non gli interessi della Patria. Anche la Patria è una creatura, cioè qualcosa di meno di Dio, cioè un idolo se la si adora. I nostri maestri non ci dissero che nel 1866 l’Austria ci aveva offerto il Veneto gratis. Cioè quei morti erano morti senza scopo. Che è mostruoso andare a morire e uccidere senza scopo…».

Senza scopo è anche questa guerra tra Russia e Ucraina, a meno che sia considerato uno scopo degno di enormi sofferenze e di centinaia di migliaia di morti lo smembramento dell’Ucraina da parte della Russia, la rinuncia dell’Europa al sogno della «casa comune europea» di Gorbaciov, l’annientamento della Russia, per far piacere agli insaziabili USA, e lasciarla di fatto senza alcuna contropartita nelle mani di altre potenze mondiali, pronte a prendersene cura e ad approfittare delle sue enormi ricchezze.

Giovanni Longu
Berna, 19.11.2022

16 novembre 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 22. L’eredità degli immigrati italiani: senso della famiglia

La famiglia è sempre stata al centro degli interessi, delle speranze e dei problemi degli immigrati italiani in Svizzera. Nel tempo, però, la centralità della famiglia è cambiata nella società e di conseguenza anche negli immigrati. Si può essere d’accordo o meno sui cambiamenti che hanno finito per trasformarla, ma non si può dimenticare che milioni di immigrati italiani hanno orientato la loro esistenza al benessere della famiglia cosiddetta tradizionale: padre e madre e uno o più figli. Si deve anche aggiungere che, in generale, questo tipo di famiglia lasciato in eredità alla seconda generazione non veniva considerato solo il più comune e il più «naturale» tra persone adulte, ma anche il pilastro più solido della società, un autentico patrimonio dell’umanità, un’istituzione alla quale tutti si aggrappano anche per sopravvivere nel ricordo dei posteri.

Tutto cambia, anche il concetto di famiglia

Il Dio dei cristiani, incarnandosi, ha voluto
nascere in una famiglia (Lorenzo Lotto)
L’idea di famiglia che avevano gli immigrati italiani della prima generazione era semplice, non abbisognava di elaborazioni mentali particolari perché era «naturale» che tutti da grandi desiderassero sposarsi e avere una famiglia. Erano considerate eccezioni le persone che non riuscivano a realizzare quell'idea e suscitavano più compassione che comprensione. Generalmente non veniva nemmeno contestato il principio giuridico della famiglia fondata sul «matrimonio», anche perché il giorno della sua celebrazione era solitamente uno dei pochi di cui gli sposi si sarebbero ricordati fin nei particolari per tutta la vita.

Non a tutti evidentemente garbava che la famiglia si fondasse sul matrimonio, come voleva la tradizione e pure il diritto civile fondato sulla Costituzione (art. 29), anche se dagli anni Settanta tutti gli italiani sapevano che in Italia, come in molte altre parti del mondo, c’era la possibilità di divorziare se il matrimonio non era più sostenibile. Lo sapevano evidentemente anche gli immigrati in Svizzera, ma era considerata solitamente una possibilità remota, perché, si diceva, ci si sposa per sempre. E gli italiani si sposavano e facevano figli.

Nel 1970, quando gli italiani residenti erano oltre mezzo milione, fu registrato il numero massimo di matrimoni in cui almeno uno dei coniugi era di nazionalità italiana (4227) e anche il numero più elevato dei figli di madre italiana (18.452). Da allora, però, non solo cominciarono a diminuire i matrimoni e le nascite di italiani, ma cominciarono ad aumentare i divorzi (record nel 1999 con 1655 casi) e, soprattutto, altre forme di convivenza diverse dal matrimonio. Stava cambiando anche tra gli italiani l’idea della famiglia? Ebbene sì. Anche tra gli italiani, accanto alle famiglie regolari cominciarono a diffondersi dapprima le convivenze prematrimoniali e poi le convivenze tout court.

Della famiglia descritta dalla Costituzione italiana all'articolo 29 come «società naturale fondata sul matrimonio» andavano scomparendo nel sentire pubblico entrambi gli elementi di «società naturale» e «fondata sul matrimonio» (primo comma), mentre si rafforzava la parte in cui si dice che «il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi» (secondo comma).

Eredità o compito permanente?

Poiché entrambi gli aspetti dell’articolo 29 vanno modificandosi incessantemente dagli anni Settanta del secolo scorso anche tra gli italiani residenti in Svizzera, essi meritano qualche considerazione per capire se davvero la prima generazione lascia alla seconda e alla terza una buona eredità immediatamente spendibile o un compito permanente.

Non c’è dubbio che le concezioni sulla famiglia com'era intesa in passato in questi ultimi decenni si sono notevolmente modificate nell'opinione pubblica, nei media e persino nel diritto. Basti pensare all'introduzione del divorzio, alle «famiglie monoparentali» (di un solo genitore), alle «famiglie di fatto» (convivenze di due persone adulte non unite dal vincolo matrimoniale e talvolta nemmeno dai loro figli) o alle «famiglie omosessuali» (con possibili genitore A e genitore B) per rendersi conto che la famiglia tradizionale a cui era legata profondamente l’immigrazione italiana in Svizzera del dopoguerra oggi è pressoché scomparsa, almeno in alcune sue espressioni tipiche (matrimonio indissolubile, genitore capofamiglia, obbligo reciproco alla fedeltà e alla coabitazione, figli da «mantenere, istruire ed educare»).

Eppure sarebbe superficiale e sbagliato considerare quell'idea di famiglia tradizionale liquidata per sempre, proprio pensando al significato ch'essa ha rappresentato almeno per la stragrande maggioranza degli emigrati, ossia «il senso della vita», il bene supremo, lo scopo primario dell’emigrazione, forse ignorando, i primi emigranti, che avrebbe potuto comportare difficoltà inimmaginabili, incomprensioni, frustrazione, separazioni, privazioni, sofferenze fisiche e morali, rinunce importanti.

Oggi si può disquisire se la famiglia tradizione vada considerata superata perché le nuove forme di convivenza pure etichettate come «famiglie» si stanno affermando anche legalmente o se alcuni elementi della famiglia fondata sul matrimonio meritano di essere conservati e addirittura rafforzati. Tutte le opinioni sono legittime e rispettabili, ma bisogna chiedersi seriamente se la famiglia degli emigrati del dopoguerra non meriti di essere considerata comunque una preziosa eredità e quindi da preservare e difendere, perché forse può ancora esprimere valori irrinunciabili.

Famiglia tradizionale tra dubbi e certezze

Quando, trattando in generale della famiglia, si cerca di esaltarne le caratteristiche che l’hanno resa la cellula della società umana, patrimonio dell’umanità e nella sostanza insostituibile, inevitabilmente intervengono gli scettici per obiettare che non sempre la famiglia è il luogo della felicità, dell’armonia, dello sviluppo sano dei figli e pensano magari proprio alla famiglia di molti immigrati del dopoguerra. Hanno ragione, perché la famiglia «non sempre» garantisce tutto ciò e talvolta naufraga in un mare di guai. Anche per molti emigrati essa è stata fonte di grandi sofferenze e oggi nessuno può sostenere che sia un’istituzione perfetta. Non lo è mai stata. Eppure, come si vedrà meglio più avanti, anche la famiglia emigrata consente di affermare che, al momento, non ne esiste una migliore. Del resto, qui in Svizzera, la famiglia, nonostante i mutamenti sociali, resta ancora la forma di vita predominante degli adulti, anche stranieri.

Tondo Doni, Michelangelo
L’imperfezione della famiglia era palese anche tra gli immigrati italiani del dopoguerra. Per esempio, l’uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi apparteneva più al mondo dei desideri (soprattutto da parte delle donne) che alla realtà. La dipendenza della donna (moglie e madre) dal «capofamiglia» (normalmente il marito e padre) era una condizione non solo diffusa ma ritenuta quasi «normale» in molti ambiti familiari, persino in Italia anche dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975. I figli, poi, erano considerati sovente più fonti di preoccupazioni che motivi di gioia. Nei loro confronti i genitori hanno talvolta interpretato persino male il loro ruolo, specialmente nei campi dell’educazione, della formazione e della socialità.

Non si vuole riaprire qui il capitolo delle famiglie separate, ma si sa con quanta sofferenza è stata vissuta, soprattutto dalle madri, la separazione dai figli quando non potevano essere accuditi adeguatamente. Se ne parla poco, tranne che in alcune pubblicazioni volutamente polemiche e poco oggettive, ma è facile capire la sofferenza e l’umiliazione di genitori, e soprattutto di madri, costretti (e non certo inconsapevoli dei rischi) ad affidare i loro figli a parenti lontani, sapere che si affezionavano ai nonni che facevano loro da padre e da madre e che chiamavano papà e mamma, visto che quelli veri non li vedevano mai, rinunciare a vederli crescere, a iniziarli alla lettura e alla scrittura, ad avviarli nella vita.

Si può anche immagine con quanta gioia e quanta voglia di rimuovere evidenti sensi di colpa provavano questi genitori quando rientravano per le ferie, soprattutto a Natale, con valige stracolme di regali. Si può, invece, essere certi che anche questi immigrati con la loro vita testimoniavano che per il bene della famiglia, magari non nell'immediato, si potevano affrontare persino cammini di vita oltremodo difficili da percorrere senza badare a sofferenze, pericoli, privazioni, rinunce e persino sensi di colpa.

Valori da preservare

D’altra parte, se l’istituzione familiare è diffusa nel mondo intero, se è sopravvissuta attraverso le interminabili trasformazioni della società, se persino le «non-famiglie» vogliono essere considerate «famiglie» alla pari di quelle tradizionali, vuol dire che in queste ci sono delle qualità introvabili altrove, almeno tutte insieme. Il fatto che non siano perfette non significa che non siano perfettibili. Gli emigrati lo sapevano e per questo erano saldamente attaccati alla famiglia, che consideravano allo stesso tempo un fine e una tutela.

Alle nuove generazioni spetta il compito anzitutto di epurare i difetti della concezione del matrimonio e della famiglia che avevano genitori e nonni, ma soprattutto di conservare e sviluppare i valori che pure contenevano: la loro centralità nella vita individuale e sociale, il luogo privilegiato degli affetti più puri e sinceri, il sostegno reciproco anche nelle prove più difficili, il piacere dei migliori rapporti interpersonali.

Giovanni Longu
Berna, 16.11.2022