Gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso sono stati per la Svizzera un
lungo periodo di forte espansione economica, che ha richiesto l’impiego
stagionale o annuale di milioni di lavoratori stranieri. Nella seconda metà
degli anni Sessanta il Governo federale dovette intervenire con misure
restrittive per limitarne la crescita incontrollata, che cominciava a
preoccupare molti cittadini, gli ambienti sindacali e alcune forze politiche di
destra e di sinistra. Tuttavia, poiché il ricorso a forze di lavoro
supplementari straniere sembrava irrinunciabile e gli ambienti economici
opponevano forti resistenze, il Consiglio federale dovette impegnarsi non poco
per imporre una nuova politica immigratoria che tenesse conto non solo dei
bisogni dell’economia, ma anche degli interessi generali del Paese, degli
accordi internazionali e delle esigenze degli stranieri. In sostanza, da una
politica dominata dagli interessi economici si doveva passare, gradualmente, a
una politica di stabilizzazione e d’integrazione degli stranieri.
Dalla rotazione alla stabilizzazione
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Gli anni '70 segnarono una svolta nell'immigrazione italiana: molti scelsero di restare in Svizzera e integrarsi, altri di rientrare in patria. |
Fino ad allora l’economia svizzera aveva potuto espandersi a
suo piacimento perché la politica aveva sempre assecondato le sue richieste.
Pretendere di invertire i ruoli, nel sistema liberale svizzero, dovette
apparire quantomeno azzardato a molti imprenditori. Di fatto, tutti i
provvedimenti (ordinanze) decisi dal governo per limitare il ricorso a
manodopera estera supplementare risultavano a tal punto inefficaci, da
convincere soprattutto i movimenti xenofobi in forte crescita che fosse
necessario modificare la Costituzione per limitare la popolazione straniera
residente.
Ad opporsi alle misure decise dal governo erano soprattutto
le imprese che faticavano ad approvvigionarsi sul mercato del lavoro svizzero
(negli anni Sessanta c’era la piena occupazione e i disoccupati erano poche
centinaia in tutta la Svizzera), tanto più che molti datori di lavoro
cominciavano ad avere difficoltà di reclutamento anche all’estero (il boom
economico italiano, specialmente al nord, assorbiva per esempio gran parte
della disoccupazione e richiamava molta manodopera dal sud).
Il «sistema di rotazione» della manodopera straniera era
stato introdotto nel dopoguerra (quando in Italia la disponibilità di
manodopera era enorme) per evitare o quantomeno rallentare l’aumento degli
stranieri residenti stabilmente in Svizzera e anche per non dover provvedere,
in caso di forte disoccupazione, alle necessità dei disoccupati stranieri. Per
due decenni aveva funzionato abbastanza bene (perché rientrava anche nella visione
politica del governo italiano e nella scelta di molti lavoratori, intenzionati
a stare in Svizzera solo qualche anno per poi rientrare), ma nella seconda metà
degli anni Sessanta era diventato quasi impraticabile.
In effetti, le rilevazioni statistiche sull’immigrazione
degli anni Sessanta attestavano anno dopo anno la sempre maggiore
stabilizzazione dei lavoratori stranieri, soprattutto degli italiani (che
allora rappresentavano oltre la metà di tutti gli stranieri), dovuta sia al
loro desiderio di prolungare il loro soggiorno in Svizzera e sia alla
convenienza dei datori di lavoro di tenere il più a lungo possibile la
manodopera che si erano formata. Non va infatti dimenticato che molti stranieri
occupavano posti «fissi» nell’industria (lasciati liberi da svizzeri
trasferitisi soprattutto nel settore dei servizi), governavano macchinari molto
costosi e spesso svolgevano ruoli di quadri medio-bassi. Per molti datori di
lavoro, privarsi di un numero significativo di stranieri avrebbe significato
ridurre la produzione (allora in forte espansione) o addirittura chiudere
l’impresa.
Gli stranieri sono infatti presenti in proporzioni assai
rilevanti non solo nell’edilizia e genio civile (dove ci sono cantieri senza un
solo operaio svizzero), ma anche nell’industria metallurgica e meccanica,
nell’industria tessile e dell’abbigliamento (in alcune aziende gli stranieri
rappresentano il 90% del personale).
Va inoltre tenuto presente che, soprattutto dopo l’accordo
italo-svizzero del 1964, molti immigrati hanno ricomposto in Svizzera il nucleo
familiare, per cui la stabilizzazione della popolazione straniera è ancor più
evidente. Al 31 dicembre 1970, su una popolazione straniera complessiva
(inclusi stagionali e frontalieri) di 1.212.416 persone, i residenti stabili
erano oltre l’80% (51% annuali, 30% domiciliati).
Stabilizzazione e ricongiungimenti familiari
Il problema dei ricongiungimenti familiari è stato uno dei
più discussi in Svizzera, a livello nazionale e internazionale, specialmente
nella prima metà degli anni Sessanta. Le difficoltà da superare erano di natura
soprattutto politica e non semplicemente etica (come alcuni politici ritenevano
e alcuni commentatori intendono ancora). Da una parte infatti si riconosceva il
sacrosanto diritto delle persone sposate a salvaguardare l’unione matrimoniale
e della famiglia anche in condizione di emigrazione, ma dall’altra si
riconosceva allo Stato il diritto di regolamentare l’ingresso e il soggiorno
degli stranieri nel proprio territorio.
Non è il caso di riproporre qui la discussione, ma è utile
ricordarla perché, nel ventennio che si sta considerando, il tema è rimasto
ancora attuale sotto altri punti di vista. Basti pensare al problema degli
alloggi, all’inserimento scolastico e professionale dei figli degli immigrati,
all’integrazione sociale, ecc.
All’origine, ai tempi del primo accordo di
emigrazione/immigrazione tra l’Italia e la Svizzera (1948), il problema non era
attuale perché si pensava soprattutto agli immigrati giovani e celibi ai quali
veniva accordato normalmente un permesso di lavoro e di soggiorno stagionale.
Supponendoli, almeno nella grande maggioranza, non sposati, per loro il
problema del ricongiungimento familiare non si poneva nemmeno e comunque non avrebbero
avuto il diritto di farsi raggiungere dalla famiglie. La Svizzera intendeva
scoraggiare, anche con questa privazione, che aumentasse il numero dei
residenti stabili e soprattutto dei domiciliati.
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Dagli anni '70 la penuria di abitazioni andò attenuandosi. |
In occasione delle trattative sul nuovo accordo
italo-svizzero di emigrazione/immigrazione (1961-1964) l’Italia chiese ed
ottenne una significativa riduzione del periodo di attesa prima del
ricongiungimento ad un massimo di 18 mesi, ma la Svizzera impose due
condizioni, la prima, la stabilità dell’impiego e, la seconda, «disporre per la
sua famiglia di un alloggio adeguato».
Entrambe, per emigrati spesso molto insicuri sul futuro e votati al risparmio,
non facili da assecondare. Di fatto, anche questo problema influirà non poco
sulla decisione fondamentale che l’emigrazione stava elaborando nel suo
complesso, sul finire degli anni Sessanta e inizio anni Settanta, se restare in
Svizzera e fare il possibile per integrarsi o rientrare definitivamente in
patria.
Per non esasperare le difficili condizioni di molti giovani
immigrati italiani, durante un incontro (giugno 1972) della Commissione mista
italo-svizzera prevista dall’accordo del 1964, l’Italia riuscì ad ottenere
un’ulteriore riduzione a 15 mesi del periodo di attesa e altre agevolazioni
riguardanti la possibilità di cambiare posto di lavoro, professione e Cantone,
fino ad allora alquanto limitate.
Nuovi problemi
La stabilizzazione della manodopera estera, se consentiva
una maggiore tranquillità sia ai datori di lavoro che agli immigrati,
comportava anche tutta una serie di nuovi problemi non previsti né negli
accordi bilaterali tra l’Italia e la Svizzera né negli incontri della Commissione
mista. Si pensi al problema degli alloggi (strettamente legato ai
ricongiungimenti familiari), anche se in via di soluzione, o a un altro
problema molto delicato legato piuttosto alla mancanza del ricongiungimento,
quello dei bambini affidati a parenti lontani, sistemati in collegi alla
frontiera («gli orfani della frontiera») o introdotti «clandestinamente» in
Svizzera.
Un’altra serie di problemi derivati dalla stabilizzazione
degli immigrati concerne soprattutto la cosiddetta «seconda generazione», ossia
i figli degli immigrati, ma non immigrati essi stessi (perché nati qui o
arrivati in età scolastica), ai quali bisognava garantire un futuro
possibilmente sereno sia nel caso che volessero restare e sia nell’evenienza
(statisticamente improbabile) di un rientro al seguito dei genitori. Si pensi
alla problematica «scuola italiana»-«scuola svizzera», alla formazione
professionale, alla gestione del tempo libero, ma anche al rapporto non sempre
armonioso all’interno della stessa famiglia.
Di questi e altri temi si tratterà nei prossimi articoli,
tenendo presente che nel ventennio 1970-1990, si è verificata una crisi
economica che ha inciso notevolmente sia sulla politica d’immigrazione svizzera
(all’epoca si parlò di «esportazione della disoccupazione») e sia sulla
politica di emigrazione italiana (che è continuata ininterrottamente
specialmente dal sud nonostante notevoli investimenti e soprattutto promesse di
rilancio economico mai mantenute). (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 5.2.2020
Berna, 5.2.2020