Qua e là si continua a parlare di emigrati o immigrati per indicare gli
italiani, uomini e donne, che risiedono all'estero, anche se molti, come si
vedrà, non sono mai «emigrati» nel senso tradizionale del termine, ossia espatriati per
motivi di lavoro o, come si dice spesso oggi, «per motivi economici». La dizione
più frequente è tuttavia da qualche decennio un’altra, certamente più corretta,
quella di «italiani all'estero», ma anche questa espressione è discutibile.
Poiché al momento non ne esiste un’altra più precisa, la seconda è senz'altro
preferibile alla prima, ma merita qualche osservazione. Il chiarimento mi
sembra opportuno, al termine di questa lunga trattazione sull'immigrazione
italiana in Svizzera, perché la maggioranza della popolazione «italiana» presente
oggi in Svizzera non è più costituita da «immigrati» in senso proprio. Le
considerazioni che seguono riguardano principalmente la situazione svizzera,
ma, come emergerà chiaramente, possono avere una valenza molto più ampia.
Un po’ di storia, per iniziare
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Berna 29.11.2022: il Presidente Mattarella e
l’ambasciatore Mignano (a s.) |
Si diceva che oggi si preferisce parlare di «italiani all'estero» piuttosto
che di «emigrati italiani», non perché l’emigrazione dall'Italia sia
anacronistica (sono infatti ancora decine di migliaia gli italiani che ogni
anno emigrano), ma perché non tutti gli italiani che si trovano all'estero sono
realmente «espatriati» per motivi di lavoro. Infatti molti sono partiti per
ricongiungersi a parenti emigrati e altri, forse la maggioranza, non sono mai
«partiti» perché vi sono nati e non hanno mai messo piede in Italia.
Se si prescinde dal motivo o dai motivi per cui milioni di italiani
risiedono all'estero e si considera unicamente la condizione che li accomuna
tutti, quella di essere in possesso della cittadinanza italiana (passaporto), è
giusto che si parli di «italiani all'estero» e non di «emigrati italiani». Ma basta questo cambio terminologico per caratterizzare
l’attuale situazione? Che significa «italiani all'estero»?
Prima di rispondere a queste domande ritengo utile ricordare
brevemente che il problema di come chiamare gli italiani partiti all'estero per
motivi di lavoro si pose già nei primi decenni successivi all'unità d’Italia
(1861), ossia da quando esiste il fenomeno migratorio italiano. Furono i
nazionalisti dell’epoca a introdurre l’espressione «italiani all'estero» e
piacque non solo ai liberali, ma anche, più tardi, ai fascisti di Mussolini, sebbene abbiano tentato invano di sostituirla con quella di «italiani nel mondo».
A lungo si è continuato a parlare di «emigranti» ed «emigrati», ma oggi, non c’è dubbio, si
preferisce «italiani all'estero».
Va pure ricordato che sebbene
inizialmente emigrassero solo o prevalentemente adulti in età lavorativa,
divenne presto indispensabile estendere l’espressione «italiani all'estero» anche ad altri parenti (soprattutto moglie e figli) degli
emigrati che spesso li raggiungevano successivamente per ricomporre il nucleo
familiare nel Paese di immigrazione.
Incertezze terminologiche
Poiché nell'Ottocento l’emigrazione era un fenomeno di massa, lo Stato
unitario intervenne quasi subito per regolarlo (leggi sull'emigrazione e
organismi di gestione) e quantificarlo (statistiche). Non dev'essere stata
impresa facile sia perché qualsiasi normativa rischiava di intaccare una delle
libertà fondamentali dei cittadini (la libertà di movimento e di residenza) e
sia per la difficoltà di caratterizzare l’espatrio (soprattutto motivazioni e
durata). Non tutto, però, poté essere regolamentato e chiarito, per cui risulta
ancora oggi difficile ricostruire la storia completa dell’emigrazione italiana.
Per esempio, nelle statistiche italiane le persone interessate al fenomeno
migratorio sono chiamate a seconda delle epoche espatriati, emigranti,
emigrati, migranti, residenti all'estero, italiani all'estero, italiani nel
mondo, ecc. magari considerando i vari termini come sinonimi, mentre non lo
sono. Per evitare confusioni, alcune statistiche non prendevano in
considerazione le persone ma i movimenti delle persone (espatri, uscite,
rimpatri, rientri, ecc.), senza magari rendersi conto che oltre agli espatri
«regolari» ce n’erano anche molti «clandestini» e che espatri e rimpatri
potevano avvenire per una stessa persona più volte nell'arco di un anno. Spesso
veniva trascurata la caratteristica della «durata» degli spostamenti
(temporanei o definitivi), sebbene fosse di tutta evidenza la sua importanza.
La «durata» divenne importante soprattutto con l’intensificarsi
dell’emigrazione verso i Paesi europei perché ci furono periodi in cui
prevaleva l’emigrazione temporanea (soprattutto stagionale) e altri in cui era
l’emigrazione pressoché definitiva (o almeno fino all'età della pensione) a
prevalere, con inevitabili implicazioni. Si pensi, per esempio, alla perdita
della cittadinanza delle donne italiane quando sposavano cittadini svizzeri,
oppure al problema del servizio militare dei figli degli emigrati, quando tanto
la Svizzera che l’Italia pretendevano che i naturalizzati prestassero il
servizio militare nel Paese d’origine e non nel Paese dove avevano acquisito la
cittadinanza. Se il problema del servizio militare poté essere (facilmente)
risolto con accordi bilaterali, non altrettanto si può dire di altri problemi
concernenti la seconda e terza generazione o i doppi cittadini.
Italiani per
passaporto
Optando per l’espressione «italiani all’estero», applicata sia agli
italiani emigrati che ai loro discendenti diretti (seconda generazione) e
indiretti (terza generazione) e persino ai naturalizzati (cittadini
italo-svizzeri), di fatto l’Italia considera la cittadinanza (passaporto) come
l’unica caratteristica determinante comune degli italiani residenti in
Svizzera. Sia chiaro, questa caratteristica è fondamentale per ogni Stato
nell'ottica del diritto nazionale e internazionale, ma nella vita quotidiana,
nella carriera professionale, nell'ambito del diritto privato e nelle relazioni
sociali che implicazioni comporta? Non andrebbe fatta per lo meno qualche
distinzione, per esempio tra emigrati e non emigrati, tra cittadini con la sola
nazionalità italiana e doppi cittadini italo-svizzeri? Cosa dice o può dire l’AIRE (Anagrafe degli italiani residenti all'estero)
sull'italianità dei cittadini di seconda e
terza generazione e dei doppi cittadini?

Questa scelta, se fosse indirizzata unicamente a fini statistici, avrebbe
sicuramente un senso perché per ogni Stato è importante sapere non solo quanti
sono i propri cittadini residenti all’estero, ma anche i loro movimenti verso
l’estero o dall’estero in modo da offrire elementi significativi per decidere
adeguate politiche sociali, economiche, formative, migratorie, soprattutto in
un Paese come l’Italia dove ci sono Regioni a forte tasso emigratorio e Regioni
con evidenti carenze di personale.
Il fatto è che l’enfatizzazione della massa di «italiani all'estero»
talvolta sembra fine a sé stessa. Sono rimasto un po’ stupito, quando nel
novembre scorso, in occasione della visita di Stato in Svizzera del Presidente
della Repubblica Sergio Mattarella, l’ambasciatore Silvio Mignano, rivolgendogli il saluto di benvenuto
davanti a una rappresentanza della collettività italiana, lo ringraziò per aver
scelto «la nostra comunità come primo gesto appena arrivato in Svizzera. 670
mila è il numero straordinario di italiani che vivono nei Cantoni e nelle Città
della Svizzera. Essi costituiscono la terza comunità italiana all'estero e la
più grande comunità straniera in Svizzera».
Interrogativi aperti
Nell’ascoltare queste parole mi sono sorti alcuni
interrogativi, che mi spingono a ricercare il senso profondo della storia
dell’immigrazione italiana in Svizzera. So che non è facile rispondere, ma al
termine di questa lunga serie di articoli che le ho dedicato non mi sottraggo
al compito, che evidenzierò nel prossimo articolo. In questo indico solo alcune
delle domande a cui cercherò di rispondere:
Può essere un motivo di vanto, per l’Italia e per il suo
ambasciatore, che ci siano in questo piccolo Paese così tanti italiani con un
passato migratorio? E poi, queste 670 mila persone si sentono davvero tutte «italiane»?
Soprattutto la prima generazione, gli emigrati del dopoguerra venuti spesso con
la valigia di cartone, non hanno nulla da rimproverare all'Italia? Per loro è
stata più materna o matrigna? E se in occasione della visita in Svizzera il
Presidente Mattarella era sincero nel ringraziare gli italiani «per quello
che fate, per come rappresentate l’Italia nei vari settori di attività in cui
siete impegnati ed anche nella vita quotidiana», qualche rappresentante
delle autorità si è mai chiesto se questa buona rappresentanza è dovuta più
alle cure e ai servizi delle rappresentanze ufficiali dello Stato italiano o
più ai sacrifici, alle rinunce e agli sforzi degli italiani?
Osservando più da vicino la situazione della collettività
italiana in Svizzera alcuni interrogativi mi sembrano inevitabili riguardo, per
esempio, ai cosiddetti organismi di rappresentanza (parlamentari eletti
all'estero, CGIE, Comites) ma soprattutto riguardo alle giovani generazioni di
italiani, con una particolare attenzione ai doppi cittadini. (segue)
Giovanni Longu
Berna, 25.1.2023