31 luglio 2025

Ignazio di Loyola, un santo moderno

Dopo aver trattato negli ultimi due articoli dell’antropologia di Sant'Agostino ispirandomi alla Città di Dio, l’opera più completa della sua maturità, oggi desidero presentare un altro gigante della fede, che continua ad avere seguaci in tutto il mondo: Sant'Ignazio di Loyola, di cui oggi 31 luglio ricorre la memoria liturgica. Tra i due non esiste alcun legame storico diretto (anche se non sarebbe difficile trovare qualche analogia), ma entrambi possono essere considerati artefici di primissimo piano nella costruzione del pensiero moderno occidentale impregnato di valori cristiani. Basterebbe pensare all’influenza che hanno ancora nel mondo moderno alcune opere di Sant’Agostino e gli «Esercizi spirituali» di Sant’Ignazio. Del resto, i due ordini religiosi che s’ispirano ai carismi dei due Santi, l’Ordine di Sant'Agostino (o Agostiniani) e la Compagnia di Gesù (o Gesuiti) sono ancora vitali, impegnati, utili alla Chiesa e al mondo. Basti ricordare che l’attuale papa Leone XIV è un agostiniano e il suo predecessore Francesco era un gesuita. In quest’articolo tratterò tuttavia  solo della Compagnia di Gesù, di cui il 27 settembre ricorre il 485° di fondazione, per evidenziarne soprattutto la singolarità del nome e la sua costante influenza anche nel mondo d’oggi.

Ignazio di Loyola e l’esperienza religiosa

Ritratto di Sant'Ignazio di Loyola (1491-1556), di P. P. Rubens
Di solito quando si parla dei Gesuiti al passato si pensa a una dimensione più appariscente che interiore, con l’aggiunta spesso di una buona dose di esagerazione. Si pensa, per esempio, al ruolo ch'essi avrebbero avuto nell'evangelizzazione, nell'arte di convertire gli infedeli e gli eretici, nella formazione dei quadri dirigenti, nell'educazione dei giovani, nella diffusione del pensiero cattolico, ecc. talvolta esagerandone la portata e, soprattutto, dimenticando da quali principi erano mossi e con quale spirito agivano.

Spesso si dimentica che il fondatore dei Gesuiti, Iñigo Lopez de Loyola (1491-1556) non ha voluto un manipolo di combattenti, ben addestrati (intellettualmente), obbedienti e coraggiosi, per contrastare il paganesimo e l’eresia, ma un gruppo di amici tra loro e innamorati di Gesù Cristo. Infatti, pur essendo di origine cavalleresca, Ignazio di Loyola, non volle costituire una compagnia di cavalieri alle sue dipendenze che portasse il suo nome (come si usava allora), sia pure a fini religiosi, ma seguì una sorta di illuminazione celeste e, visto che non avevano un capo se non Gesù Cristo che volevano servire, propose al gruppo di chiamarsi «Compagnia di Gesù», anche se oggi i suoi membri sono forse più noti come «Gesuiti».

A mio parere si è fantasticato molto, anche tra i suoi primi biografi, su come Ignazio e i suoi primi compagni siano giunti a quel nome, lasciandosi magari suggestionare dalla mentalità dell’epoca che considerava gli Ordini religiosi come milizie scelte della Chiesa al comando del Papa. Persino Francesco d’Assisi era cantato in un carme francescano «capitano di uomini apostolici che guerreggiano contro le guarnigioni del mondo, della carne, di Satana». E anche lo stesso Ignazio di Loyola, almeno in certi momenti, ha considerato la Compagnia di Gesù una truppa scelta della Chiesa a disposizione del Papa, provvidenzialmente suscitata da Dio a difesa della fede cattolica contro i Protestanti del Nord Europa e per evangelizzare «tutte le terre degli infedeli».

In realtà, Ignazio di Loyola ha sempre pensato soprattutto a un «gruppo di amici, compagni», uniti nella fede e nell'amore di Cristo, che desideravano imitare fino in fondo e servire in modo esclusivo, pur lasciando decidere al Papa «dove», se in Palestina o altrove, ma sempre pronti a recarsi in qualunque parte del mondo fosse necessario per il bene della Chiesa e degli uomini. Per questo dovevano essere particolarmente preparati e ben disposti («obbedienza»).

Ignazio stesso si era voluto preparare, dapprima alla meglio (in alcune città spagnole) e poi scrupolosamente a Parigi, dove divenne dottore in teologia. In realtà l’ambizione di Ignazio e dei suoi compagni era quella di rassomigliare il più possibile a Cristo, nella povertà estrema, nella sofferenza e persino andando in prigione a causa della verità. Per questo maturavano l’idea di volersi chiamare come gruppo nient’altro che la «Compagnia di Gesù».

Il papa Paolo III approva la Compagnia di Gesù (1540) 

Quando chiesero al Papa Paolo III il riconoscimento ufficiale del gruppo nella forma di un nuovo Ordine religioso, la Curia sollevò non poche obiezioni (forse anche a causa del nome prescelto) finché il Papa il 27 settembre 1540 ne decise l’approvazione con la bolla «Regimini Militantis Ecclesiae» (Al governo della Chiesa militante), ma ne limitò anche il numero di membri a sessanta (un numero presto superato, facendo abrogare la limitazione).

La Compagnia di Gesù

Ignazio scriverà nella «Formula» dell’istituzione: «Chiunque voglia militare per Dio sotto il vessillo della Croce in questa Compagnia, che vogliamo insignita del nome di Gesù e voglia mettersi al servizio del Signore e del Romano Pontefice, suo vicario in terra,… tenga sempre presente che la intera Compagnia e i singoli suoi membri combattono al servizio di Gesù…».

Esula dall'ambito di questo articolo ricordare anche solo per sommi capi l’intera biografia di Ignazio di Loyola e soprattutto la storia dei Gesuiti, ma a prescindere da qualsiasi giudizio storico si dia su di essa, non si può non ricordare che la Compagnia di Gesù è nata attorno a un Capo, Gesù Cristo, «vero e sommo Capitano», «un re così generoso e così umano», ma anche un Capo esigente perché non chiede una semplice collaborazione esterna nella conquista del Regno, ma esige la donazione completa di tutta la persona, della mente e del cuore, di tutte le proprie forze, come Cristo che si è dato totalmente al servizio del Padre. Ignazio considerava il servizio apostolico richiesto alla Compagnia un impegno gravoso perché «dobbiamo essere occupati per la maggior parte del giorno e perfino della notte ad aiutare quelli che soffrono nel corpo e nell'animo».

Ignazio di Loyola alla ricerca della volontà di Dio!
Per questo il fondatore della Compagnia si è sempre preoccupato della consistenza interiore dei suoi seguaci ai quali additava costantemente come fine la sequela di Cristo nella Chiesa, nella fede, nell'amore e nelle opere (l’apostolato nelle più svariate forme). Per questo ogni gesuita e ogni seguace doveva «cercare Dio in ogni cosa», sviluppare il «discernimento dei diversi spiriti», ossia la capacità di riconoscere la volontà di Dio attraverso riflessioni, sentimenti ed emozioni, dedicarsi periodicamente agli «esercizi spirituali» (esame di coscienza, meditazione, preghiera vocale e mentale, ecc.), non dimenticando, però, che «non è il sapere molto che sazia e soddisfa l'anima, ma il sentire e gustare le cose internamente».

Se la Compagnia di Gesù sia sempre stata fedele alla sua «Formula», se abbia sempre cercato di «militare sotto il vessillo della Croce» e se abbia sempre cercato la «maggior gloria di Dio» spetta agli studiosi deciderlo. La storia ha comunque già assegnato alla Compagnia di Gesù un posto di rilievo nella Chiesa, nella cultura e nel mondo moderno. Del resto, la pratica degli Esercizi spirituali secondo il metodo ignaziano è sempre molto diffusa anche tra i laici, soprattutto tra coloro che cercano di «disporre l'anima a liberarsi da tutte le affezioni disordinate e, dopo averle eliminate, a cercare e trovare la volontà di Dio nell'organizzazione della propria vita in ordine alla salvezza dell'anima».

Giovanni Longu
31 luglio 2025

29 luglio 2025

Antropologia agostiniana (2a parte)

A chi leggesse frettolosamente e frammentariamente le opere principali di Sant'Agostino o anche solo il De Civitate Dei l’antropologia agostiniana potrebbe apparire negativa e pessimistica già dalla definizione di uomo come composto di anima e corpo, in cui l’anima, pur essendo la parte superiore è fortemente condizionata e appesantita sulla terra dal corpo, la parte inferiore, corruttibile, gravato pesantemente dal peccato originale, che rende tutto l’uomo «peccatore» e autore del disordine del mondo dopo aver abbandonato la Città di Dio per vivere nella Città terrena «senza Dio». Ad una lettura più attenta, invece, l’antropologia agostiniana risulterebbe sostanzialmente positiva, ottimistica, sublime, ovviamente nel contesto di fede in cui vive e scrive Agostino.

L’uomo salvabile, anima e corpo

Ritratto di Agostino (354-430) di S. Botticelli, 1480.

Benché peccatore, tanto da meritare di essere cacciato dal Paradiso e di trasmettere all’intera umanità il peccato originale, l’uomo per Agostino è ancora salvabile, sia pure non per merito suo, ma perché Dio stesso, facendosi uomo, ha salvato la natura umana nella sua essenza e può renderlo ancora partecipe della gloria eterna. Anche un non credente, leggendo il De Civitate Dei, sarebbe soggiogato dalla convinzione e dall’enfasi con cui Agostino tratta il mistero dell’Incarnazione («Il Verbo fatto carne») e della Salvezza attraverso Gesù Cristo, «vero uomo e vero Dio», che ha reso l’uomo «fratello» e Dio «padre», anche nostro.

L’uomo per Agostino è dunque salvabile, come se Dio non si fosse rassegnato a perdere la sua creatura speciale, creata a sua «immagine e somiglianza», ciò che costituisce una certa affinità tra il Creatore e la creatura umana, benché non si possa ritenere questa «somiglianza» una copia perfetta, altrimenti l’uomo sarebbe come Dio.

Agostino ha dovuto lottare con quanti avevano dell’uomo opinioni diverse e più pessimistiche (da Platone ai Manichei) ed è riuscito a trasmettere ai contemporanei e a noi stessi un’immagine dell’uomo originariamente buono, libero e immortale. La caduta ha rovinato il suo primigenio stato di grazia, ha reso l’uomo «fiacco, fragile e destinato alla morte», ma Dio non l’ha privato di tanti doni e soprattutto della possibilità di salvarsi attraverso la conoscenza, la fede e la grazia divina. Anche il corpo potrà raggiungere la felicità e l’immortalità.

Per Agostino, il corpo, soggetto a corruzione appesantisce l'anima, ma non l’opprime. In alcune opere ne ammira le capacità, la bellezza, il suo tendere costantemente al bello e al vero. Poco importa, sembra dire Agostino, che l’uomo sia fatto di anima e corpo perché è unico, per grazia di Dio. E anche se il corpo prima o poi morirà, l’uomo anima e corpo è destinato a sopravvivere alla morte, che di per sé «non è niente», è solo un passaggio. Del resto, già su questa terra il suo corpo è una meraviglia e Agostino si domanda: «in esso la posizione dei sensi e le altre membra non sono forse così disposte, l'aspetto, l'atteggiamento e la statura di tutto il corpo non sono forse così regolate che esso si rivela organizzato per il servizio dell'anima razionale?». E non è meravigliosa la complessità e l’armonia delle varie parti del corpo umano con il suo «groviglio di vene, nervi e viscere, nascondiglio di funzioni vitali»?

L’uomo, la grazia e l’immortalità

L’uomo, dice Agostino, a differenza di tutti gli altri esseri viventi «privi di ragione e chini verso la terra» ha una forma « che si erge verso il cielo» e fa pensare che egli capisca le cose dell'alto. «La sorprendente facilità di movimento, che è stata assegnata alla lingua e alle mani, appropriata e congiunta al parlare e allo scrivere e a compiere le opere di molte tecniche e servizi, non dimostra forse chiaramente a quale anima, per esserle sottomesso, è stato unito un corpo simile?»

E che meraviglia gli altri sensi, attraverso i quali l’uomo riesce a percepire la bellezza e l’utilità della realtà creata «nella multiforme e varia bellezza del cielo, della terra e del mare, nella grande profusione e meraviglioso splendore della luce stessa nel sole e luna e nelle stelle, nella ombrosità dei boschi, nel colore e odore dei fiori, nella diversità e numero degli uccelli ciarlieri e variopinti, nella diversa vaghezza di tanti e tanto grandi animali, fra i quali destano maggiore ammirazione quelli che hanno il minimo della grossezza, perché ammiriamo di più l'operosità delle formiche e delle api che i corpi immensi delle balene, e nella immensa veduta del mare quando, come di una veste, si ricopre di vari colori e talvolta è verde nelle varie gradazioni, talora color porpora, talora azzurro e lo si ammira anche quando è in tempesta…».

E che dire dell’avvicendarsi del giorno e della notte, della carezzevole tiepidezza delle brezze, della varietà della vegetazione e del bestiame, della ricchezza dei colori e dei sapori! Agostino però va oltre e quando sembra interrogarsi se «tutti questi beni sono sollievi d'infelici e condannati» o piuttosto «premio dei beati» pone un’altra domanda: «che cosa sarà dunque quel bene [il premio dei beati] se già questi [terreni] sono tanti, così considerevoli e grandi? Che cosa darà a coloro che ha predestinato alla vita colui che li ha anche dati a coloro che ha predestinato alla morte? Quali beni farà avere nella vita beata a coloro per i quali in questa vita infelice ha voluto che il suo Figlio unigenito soffrisse tanti mali fino alla morte?»

Agostino non ha dubbi, sarà «una grande, abbagliante, certa scienza di tutte le cose, senza errore e inquietudine, perché lì si berrà la sapienza dalla sua stessa sorgente con somma serenità, senza difficoltà». Anche il corpo avrà la sua ricompensa che consisterà in una «grande perfezione».

Libertà e grazia per l’eternità

Sulla terra, però, l’uomo non ha sempre un compito facile perché deve scegliere, tra il bene e il male, è libero. Infatti, nel Paradiso terrestre, dopo il peccato originale, Dio non gli ha tolto la libertà, gliela ha lasciata perché da uomo libero decidesse a quale Città appartenere, a quella terrena o a quella celeste, con la possibilità di rinunciare o perseguire, sia pure con l’aiuto della grazia divina, il fine per cui è stato creato, ossia la contemplazione di Dio stesso che «ci hai fatti per sé e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in Lui».

Agostino, che eredita dalla filosofia greca, specialmente da Platone, molte nozioni e considerazioni generali, a quelle nozioni sovrappone le sue scoperte più geniali e confortanti, frutto di lunghe riflessioni, una conoscenza approfondita delle Sacre Scritture, una grande umiltà e una incrollabile fede: l’uomo non ha solo un’origine divina, ma è l’immagine di Dio, a Lui deve tendere con tutte le sue forze senza lasciarsi deviare da altri amori. Solo in Lui, infatti, l’uomo raggiungerà la felicità eterna.

Forse nessuno meglio di Agostino, nel mondo occidentale, ci ha tramandato un’antropologia così originale, preziosa, ottimistica e incoraggiante, perché sottolinea la tensione fortissima dell’uomo verso la Trascendenza. L’uomo, infatti, secondo Agostino, lo sappia o no, lo voglia o no, è sempre in cammino verso Dio perché è da Lui è stato creato a sua immagine e somiglianza ed è fatto per Lui. (Fine)

Giovanni Longu
Berna 26.07.2025