30 agosto 2025

Mattmark, 60 anni fa: dopo la disgrazia il silenzio!

Oggi, 30 agosto 2025, si ricorda la terribile disgrazia di Mattmark che provocò la morte di 88 persone, di cui 56 lavoratori italiani. E’ giusto ricordare, non solo per onorare e ricordare le vittime, ma anche perché 60 anni fa fu scritta a più mani una pagina tragica della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera tenuta a lungo nascosta. In questo articolo non riferisco i fatti già noti e su cui si è già scritto molto, né intervengo sui processi che si sono celebrati contro i presunti colpevoli, tutti assolti, sebbene a qualche ricercatore autoreferenziale quelle sentenze continuino ad apparire ingiustificate. Mi limiterò solo a poche precisazioni e a sollevare il tema sempre taciuto delle responsabilità plurime, anche italiane, di cui non si parla (quasi) mai, perché indirette, e sistematicamente rimosse nelle commemorazioni ufficiali, anche oggi.

Fu una «disgrazia naturale», forse evitabile!

La diga di Mattmark, una delle più grandi della Svizzera
Comincio col ripetere (come ho già fatto altre volte), che la «verità giudiziaria» ha assolto definitivamente tutti i presunti responsabili della disgrazia perché il distacco di quel micidiale pezzo del ghiacciaio Allalin, sopra Mattmark, nel Vallese (Svizzera), era imprevedibile e la decisione di collocarvi sotto uno dei cantieri principali non fu dettata da speculazione, negligenza o azzardo[1], ma era stata considerata idonea anche dagli esperti locali. Che quel ghiacciaio facesse paura a molti, perché ogni tanto qualche pezzo si staccava e precipitava a valle fragorosamente, in sede processuale fu ritenuto vero ma non sufficiente per ritenere i responsabili del cantiere colpevoli di omicidio colposo e di negligenza nei confronti della sicurezza degli operai[2].

Di fronte alla non-colpevolezza dei dirigenti del cantiere, alcuni esponenti dell’associazionismo italiano hanno messo sotto accusa le aziende appaltatrici ree di frenesia nel voler portare a termine il lavoro prima dell’inverno, di avidità di guadagno, di sfruttamento dei lavoratori, di eccessivo risparmio a scapito della prevenzione, ecc. Si è scritto che gli operai addetti alla realizzazione della diga erano sfruttati e costretti (!) a lavorare anche 15-16 ore al giorno, domenica e festivi, dimenticando di ricordare che a (quasi) tutti facevano comodo gli straordinari, tant'è che «moltissimi» lavoratori avevano «salari pari o superiori al guadagno massimo assicurato»[3].


Il cantiere di Mattmark prima della catastrofe...
Credo che siano applicabili anche alla tragedia di Mattmark le parole della presidente della Confederazione Karin Keller-Sutter, pronunciate in una circostanza simile: «Non potevamo evitare la catastrofe, ma dobbiamo essere grati di vivere in un Paese che è in grado di gestire queste crisi». In effetti, dopo la catastrofe di Mattmark i soccorsi furono immediati e a differenza di alcuni rappresentanti della sinistra italiana che pretendevano subito «giustizia» nei confronti dei responsabili del cantiere, fu fatto tutto il possibile per recuperare i morti, assistere i sopravvissuti, accogliere i famigliari delle vittime, assegnare con straordinaria rapidità le rendite dell’ente assicurativo SUVA ai superstiti.

... e dopo la catastrofe.
In campo italiano si continuava a discutere, si organizzavano convegni, s’invocavano misure straordinarie, si sollecitava l’intervento del governo, si chiedevano maggiori protezioni sul lavoro, ecc. ma spesso tutto assumeva «una funzione puramente propagandistica con ben definiti scopi politici» (L’ECO del 9.2.1967)
[4]. Pesava pure la contrapposizione tra svizzeri e stranieri, anche se la tragedia di Mattmark aveva accomunato nel dolore gli uni e gli altri e invano qualcuno sollecitava la responsabilità degli italiani immigrati a «unirci e confonderci con loro armoniosamente» perché «dipende da noi soltanto il futuro dei nostri figli e di noi stessi» (L’ECO del 2.2.1967).

Il fatto che per la giustizia svizzera e per l’opinione pubblica la disgrazia di Mattmark sia stata una «catastrofe naturale» non significa che nessuno ne sia stato corresponsabile. Lo furono certamente le aziende appaltatrici[5], le istanze preposte al controllo e alle autorizzazioni, i sindacati, i patronati, le autorità svizzere e italiane almeno per carenza di sorveglianza e d’informazione, lo furono gli accordi bilaterali che pretesero poco in materia di formazione e prevenzione, lo fu almeno in parte anche il sistema migratorio perché s’investiva troppo poco nella preparazione e poco nel frenare l’ansia del guadagno, ecc. Con un miglioramento generalizzato in tutti questi ambiti forse la tragedia si sarebbe potuta evitare.

Perché la tragedia di Mattmark è stata a lungo dimenticata?

Se lo sono chiesto in molti e ancora viene ripetuto in alcuni scritti commemorativi. La domanda è pertinente perché effettivamente nei primi anni dopo la disgrazia nessuno saliva a Mattmark (se non a scopi turistici) e teneva discorsi commemorativi. La risposta non è ovviamente semplice, ma si può tentare di formularla, lasciando al lettore di verificarne la plausibilità.

Mattmark, sul luogo della catastrofe con
Ilario Bagnariol (a sin.), uno dei sopravvissuti.

Va comunque precisato subito che non sono stati né Toni Ricciardi, con i suoi numerosi interventi per altro assai discutibili, né le autorità diplomatiche e consolari italiane (l’allora ambasciatore Marchiori non si trovava nemmeno in sede[6] e a Briga c’era solo un viceconsole[7] con pochi impiegati) a far riemergere il ricordo della tragedia di Mattmark. A dare il segnale che quella tragedia andava studiata, compresa e commemorata fu l’on. Mirko Tremaglia, ministro per gli Italiani nel mondo, in occasione della commemorazione del 40° anniversario della tragedia di Mattmark il 3 e 4 settembre 2005.

Il ritardo nelle commemorazioni di Mattmark come di altre disgrazie simili fu dovuto a mio parere anche a un senso di colpa delle autorità italiane. Lo evocarono implicitamente anche le parole di Mirko Tremaglia nel 2005 quando ricordò che «migliaia di italiani furono costretti dalla necessità e dalla povertà a lasciare la loro patria, la loro famiglia, i loro cari per cercare all'estero migliori condizioni di vita, spesso accettando i lavori più umili, più pericolosi, che altri non volevano fare perché il rischio era troppo alto»[8]. Avrebbe potuto anche aggiungere che nei primi decenni del dopoguerra l’Italia favoriva l’emigrazione, investiva pochissimo nella preparazione e nell'accompagnamento tant'è che gli immigrati si sentivano molto spesso del tutto «abbandonati», ma soprattutto nel tentare di eliminare le cause dell’emigrazione[9].

Lapide a ricordo della tragedia del 30 agosto 1965 (foto gl)
Si deve però aggiungere che ci fu certamente anche un’altra ragione ed è che in Svizzera, proprio in quegli anni, stava montando la xenofobia e dev'essersi ritenuto (soprattutto da parte delle autorità e delle organizzazioni italiane) che non fosse opportuno insistere sulle difficoltà, sulle limitazioni e sul sangue versato dagli italiani perché la risposta degli xenofobi sarebbe stata immediata e tagliente: gli italiani non erano costretti a venire, erano liberi di andarsene, erano loro che dovevano adeguarsi al sistema svizzero e non il contrario. Del resto le numerose espulsioni di quegli anni parlavano chiaro: la propaganda «comunista» era vietata e sembrava, agli occhi degli svizzeri, annidarsi in ogni gruppo di persone.

Le autorità italiane ne erano consapevoli e invitavano costantemente alla prudenza e alla moderazione. Ancora nel 1973, il ministro Tullio Migneco, all'epoca responsabile dell’ufficio emigrazione dell’Ambasciata d’Italia in Svizzera, in un incontro con la stampa ammise che purtroppo a molte segnalazioni di emigrati italiani che si sentivano discriminati non si poteva dar seguito per la difficoltà di disporre di prove concrete e per non urtare la sensibilità degli svizzeri. Purtroppo si preferì anche di non commemorare le vittime di Mattmark.

Giovanni Longu
Berna, 30.8.2025


[1]     Il crollo di milioni di metri cubi di ghiaccio non era ritenuto né prevedibile né probabile. La possibilità che accadesse era ritenuta solo teorica.

[2]     «Nella sua motivazione scritta di 82 pagine il tribunale [che assolse tutti gli imputati] spiegò perché non riconosceva alcuna negligenza. Si potevano prevedere al massimo piccoli cedimenti del ghiacciaio e nessuno aveva avvisato gli imputati, in qualsivoglia forma, in merito alla minaccia incombente. Una valanga di ghiaccio di quel tipo rappresentava una possibilità remota che nella vita non si deve mettere ragionevolmente in conto» (https://www.suva.ch/it-ch/chi-siamo/la-suva/traguardi/eventi-di-grandi-proporzioni/mattmark).

[3]     La Suva interviene «con una rapidità esemplare» in Internet, URL consultato il 25.8.2025 ( https://www.suva.ch/it-ch/chi-siamo/la-suva/traguardi/eventi-di-grandi-proporzioni/mattmark).

[4]     Non va dimenticato che anche in quegli anni di governi di centro-sinistra la contrapposizione tra governo a guida democristiana e il principale partito d’opposizione (PCI) era molto forte e si riverberava anche nell'immigrazione italiana organizzata in Svizzera.

[5]     Puntando specialmente al loro tornaconto relegarono in secondo piano i problemi della sicurezza e di ulteriori accertamenti prima di collocare le baracche proprio sotto il ghiacciaio. Si è parlato, probabilmente non a torto d’incoscienza da parte dei dirigenti del cantiere, anche se a posteriori tutto sembra più facile.

[6]     L’ambasciatore Carlo Marchiori (dal 1964 al 1965) il 16 marzo 1965 era stato nominato dal Ministro degli Affari Esteri Amintore Fanfani capo gabinetto e praticamente da allora aveva lasciato Berna e non vi tornò più se non saltuariamente. Alla fine del mandato fu ricevuto (22 settembre1965) dal consigliere federale Friedrich Traugott Wahlen (1899-1985) e fu questi ad accennare alla tragedia di Mattmark (anche se Marchiori ne era stato informato subito dopo il disastro).

[7]     Il viceconsolato era stato istituito da poco e dal 24 aprile 1952 era retto dal viceconsole Odoardo Masini, che si prodigò in ogni modo per aiutare le vittime e i sopravvissuti di Mattmark. Al riguardo riferì al cronista svizzero Dario Robbiani di certe visite: «Poi sono arrivati i deputati e i sindacalisti comunisti. Hanno detto che era colpa di questo e di quest'altro, che bisognava costruire uno sbarramento di cemento armato per isolare il ghiacciaio, e contenere la morena con muraglioni. Allora sono scoppiato: - Sì, adesso voi rimproverate agli svizzeri di non aver messo il bichini al ghiacciaio. Non hanno più parlato. Mi facciano il piacere: è perlomeno di cattivo gusto fare polemiche del genere sopra ottantotto bare».

[8]     Intervento di Mirko Tremaglia in occasione della commemorazione del 40° anniversario della tragedia di Mattmark il 3 e 4 settembre 2005.

[9]     Specialmente l’opposizione trovava inaccettabile il comportamento del governo «sulle proposte di inchiesta parlamentare sulle cause e sulle conseguenze dell'emigrazione e sulle condizioni di vita, di lavoro, di trattamento degli emigrati italiani, proposte presentate ormai da oltre un anno» (Camera dei Deputati Discussione /20.1.1965/ del disegno di legge: Ratifica ed esecuzione dell'accordo tra l'Italia e la Svizzera relativo all'emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera, con protocollo finale e dichiarazioni comuni, concluso a Roma il 10 agosto 1964).

27 agosto 2025

Teilhard de Chardin: visionario illuminato

Pierre Teilhard de Chardin è stato non solo un genio (parzialmente) incompreso (cfr. articolo precedente, del 12 agosto 2025), ma anche un visionario illuminato. Non ha avuto in vita un grande seguito perché le sue «visioni» sull'uomo, sull'universo, su Cristo, sulla Chiesa, sulla religione… furono ritenute in alcuni ambienti pericolose. Per questo non ha potuto pubblicarle mentre era in vita e da morto i suoi sostenitori hanno faticato molto a raccogliere i suoi scritti in almeno 13 volumi. Hanno contribuito alla sua rivalutazione postuma il gesuita Henri de Lubac (1962), lo scrittore Giancarlo Vigorelli (1963), ma soprattutto il cardinale Ratzinger, poi papa Benedetto XVI, che lo citò più volte, affermando, fra l’altro, che quella di Teilhard fu una «grande visione» per cui alla fine «avremo una vera liturgia cosmica, e il cosmo diventerà ostia vivente». Dopo aver accennato nel precedente articolo alla «passione dell’Assoluto» che ha animato l’intera vita di Teilhard de Chardin, in questo desidero soffermarmi su due altri aspetti della vita e della ricerca del gesuita francese: l’universo «divino» e il «fenomeno umano».

L’Universo «divino»

L’idea del cosmo (universo) ha sempre affascinato filosofi e ricercatori fin dall’antica Grecia, dando alla filosofia e alla scienza stimoli preziosi per tutte le ricerche che miravano a svelare il mistero dell’universo che ci avvolge e ci comprende. Per Teilhard de Chardin, però, tutte le visioni cosmologiche antiche avevano un limite perché consideravano l’universo secondo un modello statico e geocentrico (con al centro la terra), in un cosmo finito.

Studiando la terra nei suoi vari aspetti fisici ed evolutivi (organici e inorganici) e immersa nell'universo siderale, Teilhard maturò invece l’idea che l’universo non fosse statico ma in continua evoluzione. A spingerlo in questo interminabile movimento sarebbe la coscienza o meglio il «vento di coscienza», che soffia in continuazione da un’infima semplicità verso una sempre maggiore complessità per culminare, un giorno, nel «Punto Omega» (di cui si è molto discusso), una specie di super-organismo, coincidente, però, con Dio stesso nella persona di Gesù Cristo, «Dio da Dio», «Luce da Luce», «Dio vero da Dio vero».

Mi sembra inutile addentrarsi in queste considerazioni, ma ritengo la visione dell’universo di Teilhard de Chardin molto interessante perché squarcia l’universo, solitamente considerato statico e indecifrabile, in un universo dinamico e certamente più umano, perché ci avvolge e coinvolge tutti, cerca di dare senso a ogni cosa, è capace di animare i nostri sogni e le nostre speranze, offre la possibilità di conciliare la scienza con la fede nel pieno rispetto delle convinzioni religiose di ciascuno. Per questo Teilhard chiama «divino» il movimento che agita in continuazione l’universo.

Il «fenomeno umano»

Ciò che colpiva maggiormente Teilhard de Chardin nell'immenso universo era tuttavia il «fenomeno umano», l’uomo visto non solo come «punto superiore e forse ultimo» dell’evoluzione sul pianeta Terra e «chiave d’interpretazione dell’universo», ma soprattutto come essere pensante (sulla scia dell’aristotelico «l’anima è tutto», anima est omnia) e «coscienza», che ha il senso dell’immensità siderale, del tempo e dello spazio, «occupa una posizione chiave, di asse principale, una posizione polare nel mondo», è testa, nucleo, chiave, asse, freccia dell’evoluzione, naturalmente proiettato verso il Punto Omega.

È difficile seguire il pensiero di Teilhard de Chardin perché disperso in numerosi scritti non sistematici, ma è facile comprendere la passione e lo spirito che lo hanno spinto e guidato nella ricerca e nella vita religiosa. Egli infatti ha sempre cercato da una parte di cogliere la complessità dell’universo e dell’azione umana, mettendo in evidenza la forza dell’«energia umana», capace di produrre tanto bene (per es. strumenti sofisticati per la ricerca scientifica, strumenti di lavoro per rendere l’uomo meno dipendente dalla fatica, ecc.), ma anche tanto male (per es. costruendo e usando la bomba atomica per distruggere) e dall'altra di cogliere la presenza del divino nell'universo, proponendo di fatto un nuovo volto di Dio, il Dio dell'evoluzione e cercando di far capire che l’universo si compie nel Cristo e che Cristo si coglie nell'universo spinto al massimo delle sue possibilità.

In questo sforzo di valorizzazione del «fenomeno umano» non va dimenticato che Teilhard de Chardin ha dedicato molta attenzione e molte pagine anche all'«eterno femminino», come contributo fondamentale al progresso umano verso il Punto Omega: «c’è ancora bisogno di me [eterno femminino] per elevare l’anima verso il divino». E ancora: «L’amore è una funzione a tre termini: l’uomo, la donna, Dio» e solo l’armonioso equilibrio è perfezione; trinomio mai riducibile a binomio.

In una lettera alla cugina Margherita, egli riconosce come valore il movimento di affermazione della donna, anche se spera che la donna non perda la sua femminilità e la sua capacità di illuminazione, idealizzazione, forza tranquillizzante per semplice azione di presenza. Ricorda anche che nella vita, il femminino «essenziale universale» si manifesta soprattutto nella forma di sposa-madre.

Purtroppo non è possibile trattare altri aspetti del pensiero di Teilhard de Chardin, anche se lo meriterebbero (valore del tempo, dell’azione, della scienza, della religione, ecc.), ma non si esclude di riparlarne qualora se ne presentasse l’occasione, anche perché questo visionario illuminato è uno dei più interessanti pensatori moderni nell'ambito dell'antropologia e della filosofia della religione.

Giovanni Longu
Berna 20.8.2025