01 novembre 2017

Italiani in Svizzera: 28. Condizioni di vita molto varie nel dopoguerra



Nei precedenti articoli di questa serie si è visto che molti immigrati italiani alloggiavano in condizioni disagiate, ma spesso migliori di quelle che avevano lasciato in Italia, e che le condizioni di lavoro erano generalmente più dure di quelle degli svizzeri. Si è visto tuttavia che l’emigrato era anche molto condizionato nelle sue scelte dal forte desiderio di risparmio e dalla bassa qualifica professionale che non gli consentivano alloggi migliori e salari più elevati. Alla base delle difficoltà c’era soprattutto lo statuto di «migrante», ossia di chi era chiamato a supplire gli svizzeri che avevano deciso di disertare certi posti e certe posizioni perché ritenute poco rimunerative e poco gratificanti. Con queste premesse è facile concludere che anche le condizioni di vita degli immigrati dovessero essere al di sotto della media (quella costituita dalla grande maggioranza degli svizzeri). Era così?

Impossibile generalizzare
Tra i motivi del disagio di molti immigrati degli anni ’60
e ’70 c’era soprattutto la preoccupazione per la famiglia
Per rispondere a questa domanda mi pare doveroso ricordare che è impossibile generalizzare. L’immigrazione italiana in Svizzera ha avuto infatti fasi molto diverse con protagonisti molto diversi in quadri economici, sociali, culturali e anche giuridici molto differenti. In questa enorme varietà ci sono stati periodi in cui l’immigrato italiano era richiesto, accettato, rispettato e benvoluto, mentre in altri periodi gli immigrati italiani erano spesso malvisti, considerati invasori e osteggiati.
Inoltre, le condizioni di vita sono anche molto soggettive: c’è chi si adatta facilmente e chi tenta di ribellarsi, chi sceglie un tipo di vita e chi la subisce, chi ha un progetto di vita e chi ne ha un altro. Non è mai esistita un’unica categoria di immigrati, anche se tutti avevano in comune di non essere svizzeri, di essere venuti in Svizzera per motivi di lavoro e con la speranza di poter un giorno, il più presto possibile, rientrare nel proprio Paese d’origine.
Dicendo questo potrebbe sembrare che voglia sfuggire alla domanda. Non è così, pur esitando a dare una risposta secca e precisa. Prendendo in considerazione solo i primi decenni del dopoguerra credo che si possa affermare con una certa tranquillità che le condizioni di vita dei primi immigrati italiani, provenienti quasi interamente dal nord, erano generalmente buone, mentre quelle degli immigrati degli anni ’60 e ’70 erano molto spesso peggiori. Con «spesso», «generalmente», voglio dire che anche per gruppi le generalizzazioni sono impossibili, date le moltissime eccezioni.

Alcune distinzioni s’impongono
Un dato demografico aiuta a capire le affermazioni precedenti. Gli immigrati della prima ondata del dopoguerra fino alla metà degli anni ’50 erano soprattutto giovani, che avevano nella mente e nel cuore più ottimismo che rassegnazione, il senso dell’avventura più del senso del dovere, la voglia di vivere e di divertirsi più che l’obbligo (morale) di risparmiare e di fare vita ritirata (anche per non spendere).
Anche dal punto di vista dei rapporti lavorativi i primi immigrati stavano meglio di quelli venuti dopo. I primi erano chiamati, richiesti, per svolgere una funzione ben precisa e ne erano capaci e coscienti, mentre gli immigrati degli anni ’60 e ’70 non vantavano le stesse caratteristiche perché venuti a cercar lavoro, spesso uno qualsiasi, a qualunque condizione e senza una preparazione specifica. Parlando di questi ultimi la letteratura basata su numerosi racconti autobiografici fa pensare a persone frustrate, isolate, discriminate, vittime di soprusi, scoraggiate, in una parola, infelici. Mentre i primi immigrati sapevano condurre una certa vita «mondana», spensierata, i secondi riuscivano a socializzare soprattutto nelle associazioni che cercavano di riprodurre l’ambiente che avevano lasciato emigrando e al quale restavano intimamente legati.
Ha scritto una protagonista di un lungo periodo d’immigrazione, Luisa Moraschinelli, che i primi immigrati qui non venivano nemmeno chiamati «stranieri», ma «erano considerati dei collaboratori e basta. Valutati per quello che sapevano fare e per l'impegno che dimostravano nell'imparare quello che dovevano». In effetti, come risulta anche da rapporti di imprenditori, i lavoratori italiani del dopoguerra provenienti dal nord erano molto apprezzati e godevano del rispetto del padrone e delle maestranze.
Mentre i primi immigrati, in generale, non si lamentavano del lavoro che svolgevano e della vita che conducevano fuori dell’ambiente lavorativo, nei racconti di moltissimi immigrati della seconda ondata emerge il malessere che provavano per il tipo di lavoro svolto, per la frustrazione dovuta all’incomunicabilità con gli svizzeri a causa della lingua, per l’incapacità o impossibilità di godere del tempo libero, se non occasionalmente; un malessere reso ancor più accentuato dalla nostalgia della propria terra, dalla lontananza dagli affetti familiari, dalla tristezza di sentirsi in questo Paese indesiderati e malvisti.
Il disagio di moltissimi immigrati degli anni ’60 e ’70 è innegabile, ma anch’esso riusciva a trovare forme di superamento, come si vedrà nel prossimo articolo.
Giovanni Longu
Berna, 01.11.2017