Nei precedenti articoli di questa serie si è visto che molti
immigrati italiani alloggiavano in condizioni disagiate, ma spesso migliori di
quelle che avevano lasciato in Italia, e che le condizioni di lavoro erano
generalmente più dure di quelle degli svizzeri. Si è visto tuttavia che
l’emigrato era anche molto condizionato nelle sue scelte dal forte
desiderio di risparmio e dalla bassa qualifica professionale che non gli
consentivano alloggi migliori e salari più elevati. Alla base delle difficoltà
c’era soprattutto lo statuto di «migrante», ossia di chi era chiamato a
supplire gli svizzeri che avevano deciso di disertare certi posti e certe
posizioni perché ritenute poco rimunerative e poco gratificanti. Con queste
premesse è facile concludere che anche le condizioni di vita degli immigrati dovessero
essere al di sotto della media (quella costituita dalla grande maggioranza
degli svizzeri). Era così?
Impossibile generalizzare
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Tra i motivi del disagio
di molti immigrati degli anni ’60 e ’70 c’era soprattutto la preoccupazione per la famiglia |
Per rispondere a questa domanda mi pare
doveroso ricordare che è impossibile generalizzare. L’immigrazione italiana in
Svizzera ha avuto infatti fasi molto diverse con protagonisti molto diversi in
quadri economici, sociali, culturali e anche giuridici molto differenti. In
questa enorme varietà ci sono stati periodi in cui l’immigrato italiano era richiesto, accettato, rispettato e benvoluto, mentre in altri periodi gli immigrati
italiani erano spesso malvisti, considerati invasori e osteggiati.
Inoltre, le condizioni di vita sono anche
molto soggettive: c’è chi si adatta facilmente e chi tenta di ribellarsi, chi
sceglie un tipo di vita e chi la subisce, chi ha un progetto di vita e chi ne
ha un altro. Non è mai esistita un’unica categoria di immigrati, anche se tutti
avevano in comune di non essere svizzeri, di essere venuti in Svizzera per
motivi di lavoro e con la speranza di poter un giorno, il più presto possibile,
rientrare nel proprio Paese d’origine.
Dicendo questo potrebbe sembrare che voglia
sfuggire alla domanda. Non è così, pur esitando a dare una risposta
secca e precisa. Prendendo in considerazione solo i primi decenni del dopoguerra credo
che si possa affermare con una certa tranquillità che le condizioni di vita dei
primi immigrati italiani, provenienti quasi interamente dal nord, erano generalmente
buone, mentre quelle degli immigrati degli anni ’60 e ’70 erano molto spesso peggiori.
Con «spesso», «generalmente», voglio dire che anche per gruppi le
generalizzazioni sono impossibili, date le moltissime eccezioni.
Alcune distinzioni s’impongono
Un dato demografico aiuta a capire le
affermazioni precedenti. Gli immigrati della prima ondata del dopoguerra fino
alla metà degli anni ’50 erano soprattutto giovani, che avevano nella mente e
nel cuore più ottimismo che rassegnazione, il senso dell’avventura più del
senso del dovere, la voglia di vivere e di divertirsi più che l’obbligo
(morale) di risparmiare e di fare vita ritirata (anche per non spendere).
Anche dal punto di vista dei rapporti lavorativi
i primi immigrati stavano meglio di quelli venuti dopo. I primi erano
chiamati, richiesti, per svolgere una funzione ben precisa e ne erano capaci e coscienti,
mentre gli immigrati degli anni ’60 e ’70 non vantavano le stesse
caratteristiche perché venuti a cercar lavoro, spesso uno qualsiasi, a
qualunque condizione e senza una preparazione specifica. Parlando di questi ultimi la letteratura basata su numerosi
racconti autobiografici fa pensare a persone frustrate, isolate, discriminate,
vittime di soprusi, scoraggiate, in una parola, infelici. Mentre i primi
immigrati sapevano condurre una certa vita «mondana», spensierata, i secondi
riuscivano a socializzare soprattutto nelle associazioni che cercavano di
riprodurre l’ambiente che avevano lasciato emigrando e al quale restavano
intimamente legati.
Ha scritto una protagonista di un lungo
periodo d’immigrazione, Luisa Moraschinelli, che i primi immigrati qui non
venivano nemmeno chiamati «stranieri», ma «erano considerati dei collaboratori e basta.
Valutati per quello che sapevano fare e per l'impegno che dimostravano
nell'imparare quello che dovevano». In effetti, come risulta anche da rapporti
di imprenditori, i lavoratori italiani del dopoguerra provenienti dal nord erano molto apprezzati e
godevano del rispetto del padrone e delle maestranze.
Mentre i
primi immigrati, in generale, non si lamentavano del lavoro che svolgevano e
della vita che conducevano fuori dell’ambiente lavorativo, nei racconti di
moltissimi immigrati della seconda ondata emerge il malessere che provavano per
il tipo di lavoro svolto, per la frustrazione dovuta all’incomunicabilità
con gli svizzeri a causa della lingua, per l’incapacità o impossibilità di
godere del tempo libero, se non occasionalmente; un malessere reso ancor più
accentuato dalla nostalgia della propria terra, dalla lontananza dagli affetti
familiari, dalla
tristezza di sentirsi in questo Paese indesiderati e malvisti.
Il disagio
di moltissimi immigrati degli anni ’60 e ’70 è innegabile, ma anch’esso
riusciva a trovare forme di superamento, come si vedrà nel prossimo articolo.
Giovanni LonguBerna, 01.11.2017