12 maggio 2021

Svizzera – Unione europea: l’accordo s’ha da fare!

Il recente incontro a Bruxelles (23 aprile 2021) tra il presidente della Confederazione Guy Parmelin e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen non ha messo in luce solo la distanza delle posizioni tra le due parti su alcuni punti del progetto di accordo istituzionale, ma anche la difficoltà a comprendersi. La Svizzera è forse troppo rigida nelle sue posizioni e miope nel vedere a distanza i benefici che otterrebbe dall'accordo? E l’Unione europea (UE) è forse troppo sicura di sé per non rendersi conto che anch'essa ha bisogno della Svizzera e che questa, per la sua storia e le sue istituzioni, non cederà mai su alcuni punti che considera irrinunciabili? Non sarebbe preferibile per entrambe le parti un’analisi seria dei costi e benefici e la ricerca di possibili compromessi?

La situazione

Per comprendere le difficoltà d’interpretazione e di accettazione dell’accordo quadro istituzionale soprattutto da parte svizzera va premesso che la Svizzera e l’UE sono già legate da numerosi accordi bilaterali. L’UE vorrebbe tuttavia interromperne la serie e concludere un accordo istituzionale che inquadri quelli esistenti e ne garantisca gli sviluppi futuri.

Palesemente le aspettative dell’una e dell’altra parte non erano e non sono coincidenti. Per l’UE è fondamentale che siano garantite anche in Svizzera tutte le libertà fondamentali dei cittadini dell’Unione e il recepimento del diritto europeo. La Svizzera sperava invece, attraverso l’accordo quadro, di poter continuare a sviluppare la via bilaterale e concludere nuovi accordi di accesso al mercato europeo. Per il Consiglio federale, infatti, la prosperità («la Svizzera assicura durevolmente la sua prosperità») figura sempre al primo posto degli obiettivi politici di legislatura. Ufficialmente le divergenze che impediscono alla Svizzera di firmare l’accordo quadro riguardano soprattutto tre punti: la cittadinanza europea, la protezione dei salari e gli aiuti di Stato.

Senza entrare in dettagli troppo tecnici, la prima divergenza riguarda essenzialmente l’interpretazione da dare alla direttiva dell’UE sulla cittadinanza europea, per l’impatto che potrebbe avere sulle assicurazioni sociali. Al Consiglio federale, immaginando la reazione che potrebbe suscitare nell’opinione pubblica svizzera, non sembra accettabile che le assicurazioni sociali svizzere siano rese accessibili indiscriminatamente a tutti i cittadini europei nella Confederazione anche se inoccupati.

Sebbene la Commissione europea abbia fatto sapere che per accedere alle assicurazioni sociali esistono già precise condizioni e limiti, in Svizzera si continua a temere una sorta di «immigrazione verso l’assistenza sociale». Non sembrano sussistere invece difficoltà insormontabili per quanto riguarda le misure di accompagnamento per la protezione dei salari come pure gli aiuti di Stato dei Cantoni.

L’atteggiamento svizzero

Napoleone (1769-1821), di Jacques-Louis David 
L’atteggiamento svizzero nei confronti dell’accordo lungamente negoziato con l’UE, prima di essere liquidato con una semplice approvazione o condanna, come fanno tanti, andrebbe anzitutto capito. Chi conosce anche solo sommariamente la storia svizzera sa bene che tre sono state le istituzioni attorno alle quali si è avuta quasi sempre la massima coesione: il federalismo, la democrazia diretta e l’esercito di milizia a garanzia della neutralità e integrità territoriale. Persino Napoleone ha dovuto arrendersi alla volontà degli svizzeri che rifiutavano la «Repubblica Elvetica» una e indivisibile imposta dai francesi (1799) e ripristinare con l’Atto di Mediazione (1803) il federalismo.

Dopo la sconfitta definitiva di Napoleone, il successivo Congresso di Vienna (1815) confermò nell'essenziale il disegno napoleonico della Confederazione Svizzera anche nel mutato quadro geopolitico europeo che l’attorniava. Le grandi potenze Austria, Francia, Gran Bretagna, Prussia e Russia ne garantirono l’indipendenza e l’integrità territoriale ma a condizione che restasse per sempre un Paese «neutrale».

La nuova situazione avrebbe dovuto sollevare la Svizzera, almeno in teoria, dal timore di aggressioni e annessioni. In pratica, invece, le paure non finirono mai e la Svizzera continuò a pensare alla sua difesa. Anzi vi continua a pensare pure oggi perché, secondo la consigliera federale Karin Keller-Sutter, «il Servizio delle attività informative della Confederazione (SIC) costata dal 2015 una minaccia terroristica elevata in Svizzera».

Tutto questo per dire quanto la Svizzera sia rimasta nei confronti dell’estero diffidente o per lo meno vigilante. Che anche oggi il Consiglio federale abbia scelto un atteggiamento attendista nella firma dell’accordo quadro istituzionale con l’UE si comprende alla luce della sua lunga storia. Guai, tuttavia, se la Svizzera restasse bloccata dal suo passato.

Che fine farà il negoziato?

Non è pensabile che anni di trattative vengano vanificati da divergenze che per quanto apparentemente
rilevanti, in realtà non lo sono. A dirlo è lo stesso responsabile del Dipartimento federale degli affari esteri Ignazio Cassis, secondo cui «l'accordo quadro è comunque essenziale ed è a favore della Svizzera».

Finora il Consiglio federale non ha ritenuto opportuno di accettare il testo di accordo proposto ritenendo che in votazione popolare non otterrebbe il necessario avvallo. Questa paura dovrebbe essere superata evidenziando soprattutto i vantaggi dell’accordo, ma sottolineando anche i rischi di non firmarlo. Un’analisi seria e obiettiva dei pro e dei contro aiuterebbe non poco a uscire dalle ideologie e tornare nella realtà, che è quella di un’Europa che continuerà ad andare avanti e a integrarsi sempre più fino a raggiungere l’unione politica e di una Svizzera che non potrà stare semplicemente a guardare.

Guy Parmelin (CH) e Ursula von der Leyen (UE)

Sarà certamente utile a molti svizzeri riflettere anche sul ruolo della Svizzera in Europa, correggendo alcuni difetti e assumendo maggiori responsabilità. L’economista Basilio M. Biucchi scrisse una quarantina di anni fa che «nessun Paese è così costantemente fedele ai propri difetti come la Svizzera, o meglio, nessun Paese è capace, come la Svizzera, a dare ai suoi difetti plurisecolari l’apparenza di virtù nazionali».

Biucchi si riferiva al tema dell’«immigrazione di forze di lavoro straniere» e probabilmente non userebbe gli stessi termini in riferimento alla politica estera attuale; ma avrebbe sicuramente ancora qualcosa da eccepire. Se infatti negli anni Settanta aveva ragione di criticare la Svizzera di allora che chiamava gli operai stranieri di cui aveva enorme bisogno per immetterli come ultima ruota del carro negli ingranaggi economici, ma in fondo li disprezzava come una categoria sociale inferiore, non credo che tacerebbe oggi di fronte al rifiuto del Consiglio federale di prendere in considerazione la richiesta dell’UE di considerare tutti i cittadini europei uguali di fronte al diritto alle prestazioni sociali, siano essi attivi o no.

In conclusione

E’ auspicabile che l’accordo quadro istituzionale venga presto firmato, magari con qualche ritocco, non perché lo imponga l’UE e risulti utile anche alla Svizzera, ma perché è nell'interesse sia dell’una che dell’altra.

Sarà certamente utile alla Svizzera perché la convergenza di valori e interessi con l’UE è talmente elevata da non poter più fare a meno l’una dell’altra. Del resto la Svizzera è quella che è perché almeno dal 1815 è sempre stato anche nell'interesse dell’Europa che conservasse la propria indipendenza e integrità territoriale, potesse svilupparsi a piacimento col contributo di milioni di immigrati europei e potesse smerciare gran parte dei prodotti della sua economia nel continente.

Sarà utile anche all'UE perché dalla Svizzera potrà capire meglio cosa vuol diventare: una congerie di Stati disposti a condividere un minimo di valori e di interessi e poi ognuno per sé oppure una unione politica ed economica di tipo federale (Luciano Fontana)?

Grazie all'accordo quadro con l’UE la Confederazione potrà continuare a svilupparsi e a perseguire per il suo popolo la prosperità che le impone come fine la Costituzione, ma non dovrebbe dimenticare di avere anche delle responsabilità altrettanto importanti verso i più deboli («la forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri») e verso le generazioni future, che avranno sempre più legami in tutti i campi con un’Europa sempre più integrata.

Giovanni Longu
Berna, 12.05.2021