Gli anni
Sessanta del secolo scorso sono stati importanti non solo a livello globale
(guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica), ma anche a livello locale, nella
maggior parte dei grandi Paesi europei. Anche per l’Italia e la Svizzera gli
anni Sessanta segnarono cambiamenti profondi. L’Italia visse il periodo del
«miracolo economico» senza per altro riuscire ad avvicinare nord e sud, settentrionali
e meridionali. La Svizzera proseguì lo sviluppo economico avviato subito dopo
la guerra, apparentemente senza ostacoli, in realtà accentuando le disparità
tra svizzeri e stranieri. Gli italiani in particolare furono messi di fronte a
una scelta difficile: rientrare o integrarsi.
Gli
anni Sessanta
A
livello mondiale gli anni Sessanta rappresentarono il periodo di massimo
rischio di una nuova guerra mondiale a causa delle forti tensioni tra est e
ovest, tra l’Unione Sovietica di Nikita Krusciov e gli Stati Uniti di John Fitzgerald Kennedy (crisi di Cuba, ottobre 1962). Fortunatamente
si giunse da entrambe le parti a più miti consigli e una serie di accordi
ridusse le tensioni tra le due superpotenze.
L’Italia conobbe il boom economico, con tassi di crescita
mai visti prima. Si parlò di «miracolo economico», dimenticando talvolta di
aggiungere che il benessere e la ricchezza si concentravano soprattutto al nord
nel famoso «triangolo industriale» Milano-Torino-Genova. Qui industrie e
commerci garantivano la piena occupazione, mentre al sud cresceva la
disoccupazione. Per rincorrere il benessere, molti meridionali abbandonarono le
campagne e cercarono lavoro al nord, dove venivano chiamati in tono
dispregiativo «terroni» e considerati un po’ sottosviluppati. Molti emigrarono
ancora più a nord, soprattutto in Svizzera e in Germania, dove non ricevettero
una migliore accoglienza. Il decennio si concluse in Italia malamente con il
famoso «autunno caldo» del 1969 e conseguenze pesanti per il decennio
successivo.
La Svizzera era
messa molto meglio dell’Italia. Lo sviluppo industriale avviato a pieno regime
nell’immediato dopoguerra proseguiva la sua corsa senza troppi ostacoli, richiamando
ogni anno soprattutto dall’Italia decine di migliaia di immigrati. In Ticino li
chiamavano «badilanti», sapendo che venivano soprattutto dalla campagna, nella
Svizzera interna «Tschingg», perché nel tempo libero pronunciavano
spesso cinq giocando
alla morra. Erano tanti perché la manodopera indigena non bastava: nel 1961,
alla fine di agosto si contavano appena 551 persone in cerca d’impiego e decine
di migliaia di posti di lavoro non occupati. Erano tanti anche perché si
trattava di manodopera relativamente a buon mercato.
L’economia era particolarmente florida, crescevano
la produzione, le esportazioni, i consumi e il reddito per abitante (più del
doppio di quello italiano), in una parola, il benessere. Per molti italiani
lavorare in Svizzera rappresentava la soluzione di tanti problemi, anche se a
costi umani e sociali pesanti.
Malcontento e politica
Nel 1960 vivevano stabilmente in Svizzera
circa 350.000 italiani e costituivano il 59,2 % della popolazione straniera.
Altri 123.000 erano gli italiani stagionali o frontalieri. Il buon funzionamento di molte imprese
dipendeva da loro. Non per questo però erano benaccetti dalla popolazione.
Gli immigrati in
generale erano considerati non solo «forza lavoro», «braccia», in funzione
dello sviluppo economico, ma anche «lavoratori ospiti», ossia temporanei. A
loro erano assegnate le mansioni più dure, ripetitive e pericolose. Le loro
retribuzioni spesso non corrispondevano al lavoro reso perché le loro qualifiche
erano ritenute inferiori a quelle dei colleghi svizzeri. A loro difesa non
intervenivano nemmeno i sindacati perché in particolare gli italiani
preferivano non iscriversi ai sindacati. Nessun’altra istituzione pubblica,
svizzera o italiana, si interessava praticamente dei loro problemi sul posto di
lavoro e nella vita sociale. L’emarginazione, l’isolamento, la discriminazione
(oggettiva anche se non espressamente voluta) erano caratteristiche comuni alla
massa di immigrati italiani.

Nel 1963, alcuni gravi episodi di espulsioni e
presunti maltrattamenti di lavoratori italiani diedero origine dapprima sulla
stampa, soprattutto sull’Unità, e poi nella Camera dei Deputati a una vivace
discussione, in cui si parlò addirittura di «persecuzioni» e di gravi
violazioni della «dignità» di cittadini italiani all’estero. Il rischio maggiore,
per il governo, era che se il flusso emigratorio verso la Svizzera si fosse
interrotto o avesse subito una flessione avrebbe potuto procurare ulteriori
disagi e malcontento soprattutto al sud, dove era sempre alta la
disoccupazione. Dunque bisognava intervenire.
1964: l’Accordo che segnò una svolta
Il rischio non era infatti irreale perché in
Svizzera la destra nazionalista e xenofoba, che vantava un largo seguito tra la
popolazione, esercitava forti pressioni sul governo elvetico per la riduzione
degli immigrati. Per di più anche il maggiore sindacato svizzero chiedeva fin
dal 1962 una politica immigratoria più restrittiva. Il governo svizzero era
chiamato ad assicurare un difficile equilibrio tra le esigenze (ritenute
comunque prioritarie) dell’economia che procurava benessere e i legittimi interessi
della popolazione che mal sopportava un aumento sconsiderato di stranieri «in
casa propria».
L’Italia, che in quegli anni stava negoziando
con la Svizzera un nuovo accordo sull’emigrazione/immigrazione, preferì
rinunciare a una parte delle rivendicazioni, piuttosto che far fallire il
difficile negoziato con pretese o richieste esagerate. Con l’Accordo del 1964, anche il Consiglio
federale preferì fare alcune importanti concessioni soprattutto sui
ricongiungimenti familiari, piuttosto che privare l’economia svizzera di un
sicuro approvvigionamento di forza lavoro a buon mercato. A entrambe le parti
sembrò un compromesso soddisfacente. A non essere per nulla soddisfatti furono
i movimenti antistranieri, che dalla metà del decennio si dimostrarono campioni
nella lotta all’inforestierimento (Überfremdung) e nella xenofobia,
contribuendo ad aggravare la difficile convivenza tra la popolazione svizzera e
gli stranieri.
Di fatto l’Accordo del 1964 segnò una cambio
di paradigma fondamentale nella politica emigratoria italiana come in quella
immigratoria svizzera. L’Italia divenne da allora più attenta alle
rivendicazioni degli emigrati italiani in campo assicurativo (assicurazioni
sociali), formativo (soprattutto in favore delle seconde generazioni) e associazionistico
(sostegno finanziario alle principali associazioni di immigrati). La Svizzera
pure cominciò a mettere in discussione il principio della «rotazione» (per
favorire la stabilizzazione della manodopera piuttosto che sostituirla in
continuazione) e a ipotizzare forme d’integrazione, comunque di difficile
introduzione per la forte opposizione dei movimenti xenofobi e per la mancanza
di modelli, ma anche per le resistenze in seno alla collettività italiana
immigrata (si pensi per esempio alla difesa ad oltranza delle scuole italiane).
Principali cambiamenti
Una vera politica d’integrazione verrà
adottata dalla Svizzera solo negli anni Settanta e Ottanta, quando i movimenti
xenofobi uscirono ripetutamente indeboliti dalle varie votazioni popolari su
altrettante iniziative antistranieri e quando divenne chiaro tra gli immigrati
italiani che l’alternativa all’integrazione era solo il rientro in patria.
Quanto all’economia va detto che, se in un primo tempo aveva visto di buon
occhio la politica della «rotazione», dagli anni ’60 la maggior parte degli
imprenditori preferì fidelizzare la manodopera stabilmente residente.
Quando si affronta il tema dell’integrazione è
facile cadere in alcuni pregiudizi. Alcuni, a mio parere troppo
frettolosamente, attribuiscono la mancata integrazione della prima generazione esclusivamente
agli innumerevoli ostacoli rappresentati dalle leggi, dai regolamenti e dalle autorità
di questo Paese. Altri non esitano ad attribuirne la responsabilità agli stessi
immigrati (che non s’impegnarono nemmeno a imparare la lingua del posto) e al
loro mondo associazionistico chiuso. Come al solito o almeno spesso, credo che
le responsabilità vadano equamente ripartite.

Trovo emblematica del momento difficile che
attraversava la collettività italiana immigrata sul finire degli anni Sessanta
la costituzione del Comitato Nazionale d’Intesa (CNI) nel corso di un
grandioso convegno a Lucerna nel 1970. Dopo anni di faticosi tentativi di
superamento della infruttuosa frammentazione dell’associazionismo, il CNI quale
organo di rappresentanza di oltre 400 associazioni sembrava la soluzione giusta.
Nessuno si rendeva conto che anche il CNI, senza un cambiamento d’intenti delle
principali componenti, non avrebbe resistito a lungo al vento del cambiamento
che soffiava in altra direzione. Così è stato. Hanno resistito soltanto quelle
poche associazioni che hanno saputo adattarsi alle esigenze del cambiamento e dell’integrazione.
[Questa
serie di articoli sulla storia dell’immigrazione italiana in Svizzera viene
temporaneamente sospesa e sarà ripresa tra qualche settimana]
Giovanni LonguBerna, 22.11.2017