L’ondata di immigrati
italiani in Svizzera subito dopo la seconda guerra mondiale non fu dovuta solo
alla dinamica classica della migrazione dai Paesi poveri verso i Paesi ricchi,
ma esprimeva la convergenza di due esplicite politiche opposte: quella
immigratoria svizzera e quella emigratoria italiana. A determinare l’entità, il
ritmo e le modalità del flusso emigratorio/immigratorio fu soprattutto la
Svizzera, che decideva in base alle esigenze della propria economia, tenendo
conto degli accordi bilaterali in materia (1948 e 1964), ma soprattutto della
propria legislazione sugli
stranieri.
Interessi
dell’Italia
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Destinazione Svizzera: sempre più frequente dal 1946... |
Quando nel 1945
le autorità svizzere costatarono l’impossibilità di reclutare lavoratori
tedeschi, austriaci e francesi, si rivolsero all’Italia, sapendo che la
risposta non avrebbe potuto essere che affermativa. L’Italia aveva infatti
perso la guerra, era un Paese
povero, con più di due milioni di disoccupati, soprattutto al Nord e una
capacità produttiva dell’industria fortemente ridotta, non solo a causa delle
distruzioni ma anche per la scarsità di materie prime e carburanti (carbone,
petrolio e derivati). Senza ripresa della produzione e delle esportazioni, che
avrebbero dovuto fornire la valuta necessaria alle importazioni, non avrebbe
potuto risolvere nessuno dei grandi problemi creati o accentuati dalla guerra.
In questa difficile
situazione, le autorità italiane non facevano mistero di contare molto sulla
ripresa dei rapporti commerciali e finanziari con la Svizzera, un Paese
economicamente e finanziariamente solido e tradizionalmente amico. Durante la
guerra i rapporti Italia-Svizzera non si erano mai interrotti, ma furono ripresi
con grande intensità subito dopo e il 10 agosto 1945 era pronto un accordo
commerciale. Non poté essere ratificato da parte italiana per la mancata approvazione
degli alleati, ma segnò comunque l’inizio di una ripresa generale dei buoni
rapporti bilaterali. Anche la Svizzera aveva interesse a normalizzare i
rapporti bilaterali, sia per esigenze di approvvigionamento di merci attraverso
il porto di Genova e sia per avere sufficienti garanzie in caso di un prestito
finanziario.
Quando sul finire del 1945
la Svizzera chiese di potersi approvvigionare di manodopera al mercato
italiano, la risposta affermativa dell’Italia fu quasi scontata, nonostante un divieto pregiudiziale degli
alleati (primavera 1945), subito abrogato perché l’Italia, non essendo un Paese
occupato, fece valere le sue ragioni vitali di trovare sbocchi migratori ai numerosi disoccupati
(oltre un milione solo al nord). Nell’ottica del governo l’emigrazione
rappresentava per l’Italia se non la soluzione dei problemi sociali certamente
un significativo aiuto a risolvere almeno parzialmente il problema della
disoccupazione al nord e il rischio dei conflitti sociali.
Emigrazione
«indispensabile»
Il problema
dell’emigrazione sarà attentamente valutato dalla Costituente (1946-1948) quando
si tratterà di inserire o meno la
libertà di emigrazione nella Costituzione. Questa libertà verrà inserita senza difficoltà nell’articolo 35 (La Repubblica «riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero») perché l’emigrazione sembrava per tutti gli orientamenti politici una «dura ma indispensabile necessità per l’economia italiana».
Per la stessa ragione
non ci fu probabilmente alcuna esitazione a consentire alla Svizzera di
attingere a piene mani la manodopera necessaria nel mercato del lavoro
italiano. Inoltre, alla luce dei buoni rapporti tra l’Ufficio federale
dell’industria, delle arti e mestieri e del lavoro (UFIAML) e la Legazione
italiana in Berna (Ambasciata dal 1953), si trovò facilmente un accordo
informale, tanto è vero che nessuna delle parti richiese un accordo ufficiale
(come invece avvenne tra l’Italia e il Belgio per il cosiddetto «Patto del
carbone», firmato il 23.6.1946).
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Migranti italiani a Briga, anni '50 |
Probabilmente né
l’Italia né la Svizzera chiesero un accordo formale non solo perché i rapporti
bilaterali erano improntati alla fiducia reciproca, ma anche perché in quel
momento era del tutto imprevedibile lo sviluppo che avrebbe avuto l’economia
svizzera (già si parlava di una prossima crisi) e dunque anche l’evoluzione del
flusso migratorio.
Si deve anche supporre
che le autorità italiane conoscessero bene la nuova politica immigratoria
svizzera e le condizioni di assunzione dei nuovi immigrati e, almeno
apparentemente, non vi fossero ostacoli di sorta a una risposta affermativa
alla richiesta svizzera. Oppure, nel confronto costi/benefici, i secondi
risultavano preponderanti.
Di fatto, finita la
guerra (8 maggio 1945), aziende svizzere cominciarono senza indugio a reclutare
personale in Italia e già nell’agosto 1945 un primo gruppo di 300 donne
provenienti dalla provincia di Sondrio entrò in Svizzera per lavorare in alcuni
alberghi dell’Engadina. Ma il grande flusso immigratorio cominciò nel 1946 quando
ben 48.808 lavoratori italiani poterono trovare lavoro in Svizzera. Proseguì nel
1947 con ben 105.112 persone con regolare permesso, alle quali ne andrebbero
aggiunte sicuramente altre, entrate in Svizzera come turiste, in realtà in
cerca di lavoro. Il biennio 1947-1949 fu quello del massimo afflusso di
italiani, segno dell’ottima congiuntura dell’economia svizzera, mentre quello
successivo 1949-1950 fu quello del minor afflusso.
Il forte calo del
movimento migratorio verso la Svizzera nel biennio 1949-1950 fu dovuto
principalmente a cause congiunturali legate alla recessione americana di quegli
anni e spinse le autorità federali ad essere prudenti e vigilanti negli ingressi
di stranieri, tanto più che già alla fine della guerra nessuno prevedeva uno
sviluppo durevole dell’economia.
Qualche
considerazione
Quella che
inizialmente sembrava per la Svizzera una strada obbligata (ricorrere agli
italiani perché non erano disponibili tedeschi, austriaci e francesi) si
trasformò fin dall’inizio in un buon affare. Le imprese svizzere potevano
infatti attingere facilmente la manodopera di cui abbisognavano, anche
qualificata, nel Nord Italia e le loro scelte erano soddisfacenti. Nel 1948 il
Consiglio federale rilevava: «i nostri imprenditori sono generalmente
soddisfatti della manodopera italiana» e, d’altra parte, «i lavoratori italiani
nell’insieme non hanno avuto di che lamentarsi delle condizioni di vita e di
lavoro avute in Svizzera».
In effetti, nei
documenti diplomatici svizzeri dei primi anni postbellici non si trovano quasi
mai riferimenti a situazioni problematiche riguardanti gli immigrati italiani.
Solo negli anni '50
emergeranno alcuni problemi, destinati ad aumentare negli anni '60. Pertanto, almeno stando alla documentazione
ufficiale, non rappresentavano alcun ostacolo alla pacifica convivenza le
numerose limitazioni che imponevano agli stranieri le leggi e i regolamenti in
vigore. Si può ben ritenere che nei primi immigrati provenienti dal Nord Italia
ci fosse una buona dose di accettazione e sopportazione, sicuramente mitigata
dalla consapevolezza delle «condizioni» previste dai contratti di lavoro, dal
desiderio prevalente del guadagno che apportava l’attività svolta, dalla
soddisfazione dei datori di lavoro e anche dal clima generale, non ancora
deteriorato da diffusi sentimenti xenofobi che caratterizzeranno soprattutto
gli anni ’60.
Più in generale, la
prova che in quegli anni l’emigrazione italiana verso la Svizzera
rappresentasse per l’Italia del dopoguerra e per i diretti interessati una
buona soluzione (certamente non quella ideale e nemmeno la migliore) è data
dalle cifre. Secondo statistiche italiane, tra il 1946 e il 1961 emigrarono liberamente
in Svizzera circa 1.284.000 italiani. La Svizzera era il principale Paese di
destinazione dei migranti italiani. Nel 1950 gli italiani residenti
costituivano circa il 50% degli stranieri. Alla fine del decennio erano quasi
il 60%. Fino al 1957 la provenienza era soprattutto dal Nord Italia, dal 1958
prevalse l’emigrazione dal Sud e dal centro Italia, dal 1961 prese nettamente
il sopravvento il Sud Italia; nel 1969 i due terzi degli italiani provenivano
dal Sud.
Dibattito
sull’emigrazione
In Italia il dibattito
sull’emigrazione in generale e su quella verso la Svizzera in particolare si
accese fin dai primi anni ’50 con intenti non sempre trasparenti, anzi spesso
strumentali nella dialettica governo-opposizione. Una parte della sinistra
italiana, all’opposizione, considerava l’emigrazione
In effetti, i primi
governi del dopoguerra, a guida democristiana, avendo dato la priorità alla
ricostruzione del Paese e allo sviluppo industriale, concentrato essenzialmente
al Nord, avevano provocato non solo un’intensa migrazione interna dal sud a
nord, ma anche verso l’estero, soprattutto dal sud. Per di più, contravvenendo
all’articolo 35 della Costituzione, non sempre avevano tutelato
sufficientemente il lavoro degli emigrati. Fu anche sotto la spinta delle
opposizioni, ma forse soprattutto delle costatazioni critiche del Ministro
d’Italia a Berna Egidio Reale, che si giunse a un accordo d’emigrazione
formale (22 giugno 1948).
Ai lavoratori italiani
vennero concessi alcuni benefici, ma l’Italia non riuscì ad ottenere tutto quel
che chiedeva, per esempio in materia di reclutamento, e dovette accontentarsi
di quanto concesso dalla Svizzera. La debolezza dell’Italia nella trattativa
dipendeva dal forte interesse che aveva a ridurre la pressione dei disoccupati,
a mantenere elevato il flusso emigratorio e dalla speranza di poter
riequilibrare la bilancia dei pagamenti con le rimesse degli emigrati, scese a
32 milioni di dollari nel 1947. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 26.4.2017
Berna, 26.4.2017