26 aprile 2017

Italiani in Svizzera: 13. Realtà e speranze nel dopoguerra



L’ondata di immigrati italiani in Svizzera subito dopo la seconda guerra mondiale non fu dovuta solo alla dinamica classica della migrazione dai Paesi poveri verso i Paesi ricchi, ma esprimeva la convergenza di due esplicite politiche opposte: quella immigratoria svizzera e quella emigratoria italiana. A determinare l’entità, il ritmo e le modalità del flusso emigratorio/immigratorio fu soprattutto la Svizzera, che decideva in base alle esigenze della propria economia, tenendo conto degli accordi bilaterali in materia (1948 e 1964), ma soprattutto della propria legislazione sugli
stranieri.

Interessi dell’Italia
Destinazione Svizzera: sempre più frequente dal 1946...
Quando nel 1945 le autorità svizzere costatarono l’impossibilità di reclutare lavoratori tedeschi, austriaci e francesi, si rivolsero all’Italia, sapendo che la risposta non avrebbe potuto essere che affermativa. L’Italia aveva infatti perso la guerra, era un Paese povero, con più di due milioni di disoccupati, soprattutto al Nord e una capacità produttiva dell’industria fortemente ridotta, non solo a causa delle distruzioni ma anche per la scarsità di materie prime e carburanti (carbone, petrolio e derivati). Senza ripresa della produzione e delle esportazioni, che avrebbero dovuto fornire la valuta necessaria alle importazioni, non avrebbe potuto risolvere nessuno dei grandi problemi creati o accentuati dalla guerra.
In questa difficile situazione, le autorità italiane non facevano mistero di contare molto sulla ripresa dei rapporti commerciali e finanziari con la Svizzera, un Paese economicamente e finanziariamente solido e tradizionalmente amico. Durante la guerra i rapporti Italia-Svizzera non si erano mai interrotti, ma furono ripresi con grande intensità subito dopo e il 10 agosto 1945 era pronto un accordo commerciale. Non poté essere ratificato da parte italiana per la mancata approvazione degli alleati, ma segnò comunque l’inizio di una ripresa generale dei buoni rapporti bilaterali. Anche la Svizzera aveva interesse a normalizzare i rapporti bilaterali, sia per esigenze di approvvigionamento di merci attraverso il porto di Genova e sia per avere sufficienti garanzie in caso di un prestito finanziario.
Quando sul finire del 1945 la Svizzera chiese di potersi approvvigionare di manodopera al mercato italiano, la risposta affermativa dell’Italia fu quasi scontata, nonostante un divieto pregiudiziale degli alleati (primavera 1945), subito abrogato perché l’Italia, non essendo un Paese occupato, fece valere le sue ragioni vitali di trovare sbocchi migratori ai numerosi disoccupati (oltre un milione solo al nord). Nell’ottica del governo l’emigrazione rappresentava per l’Italia se non la soluzione dei problemi sociali certamente un significativo aiuto a risolvere almeno parzialmente il problema della disoccupazione al nord e il rischio dei conflitti sociali.

Emigrazione «indispensabile»
Il problema dell’emigrazione sarà attentamente valutato dalla Costituente (1946-1948) quando si tratterà di inserire o meno la

libertà di emigrazione nella Costituzione. Questa libertà verrà inserita senza difficoltà nell’articolo 35 (La Repubblica «riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero») perché l’emigrazione sembrava per tutti gli orientamenti politici una «dura ma indispensabile necessità per l’economia italiana».
Per la stessa ragione non ci fu probabilmente alcuna esitazione a consentire alla Svizzera di attingere a piene mani la manodopera necessaria nel mercato del lavoro italiano. Inoltre, alla luce dei buoni rapporti tra l’Ufficio federale dell’industria, delle arti e mestieri e del lavoro (UFIAML) e la Legazione italiana in Berna (Ambasciata dal 1953), si trovò facilmente un accordo informale, tanto è vero che nessuna delle parti richiese un accordo ufficiale (come invece avvenne tra l’Italia e il Belgio per il cosiddetto «Patto del carbone», firmato il 23.6.1946).
Migranti italiani a Briga, anni '50
Probabilmente né l’Italia né la Svizzera chiesero un accordo formale non solo perché i rapporti bilaterali erano improntati alla fiducia reciproca, ma anche perché in quel momento era del tutto imprevedibile lo sviluppo che avrebbe avuto l’economia svizzera (già si parlava di una prossima crisi) e dunque anche l’evoluzione del flusso migratorio.
Si deve anche supporre che le autorità italiane conoscessero bene la nuova politica immigratoria svizzera e le condizioni di assunzione dei nuovi immigrati e, almeno apparentemente, non vi fossero ostacoli di sorta a una risposta affermativa alla richiesta svizzera. Oppure, nel confronto costi/benefici, i secondi risultavano preponderanti.
Di fatto, finita la guerra (8 maggio 1945), aziende svizzere cominciarono senza indugio a reclutare personale in Italia e già nell’agosto 1945 un primo gruppo di 300 donne provenienti dalla provincia di Sondrio entrò in Svizzera per lavorare in alcuni alberghi dell’Engadina. Ma il grande flusso immigratorio cominciò nel 1946 quando ben 48.808 lavoratori italiani poterono trovare lavoro in Svizzera. Proseguì nel 1947 con ben 105.112 persone con regolare permesso, alle quali ne andrebbero aggiunte sicuramente altre, entrate in Svizzera come turiste, in realtà in cerca di lavoro. Il biennio 1947-1949 fu quello del massimo afflusso di italiani, segno dell’ottima congiuntura dell’economia svizzera, mentre quello successivo 1949-1950 fu quello del minor afflusso.
Il forte calo del movimento migratorio verso la Svizzera nel biennio 1949-1950 fu dovuto principalmente a cause congiunturali legate alla recessione americana di quegli anni e spinse le autorità federali ad essere prudenti e vigilanti negli ingressi di stranieri, tanto più che già alla fine della guerra nessuno prevedeva uno sviluppo durevole dell’economia.

Qualche considerazione
Quella che inizialmente sembrava per la Svizzera una strada obbligata (ricorrere agli italiani perché non erano disponibili tedeschi, austriaci e francesi) si trasformò fin dall’inizio in un buon affare. Le imprese svizzere potevano infatti attingere facilmente la manodopera di cui abbisognavano, anche qualificata, nel Nord Italia e le loro scelte erano soddisfacenti. Nel 1948 il Consiglio federale rilevava: «i nostri imprenditori sono generalmente soddisfatti della manodopera italiana» e, d’altra parte, «i lavoratori italiani nell’insieme non hanno avuto di che lamentarsi delle condizioni di vita e di lavoro avute in Svizzera».
In effetti, nei documenti diplomatici svizzeri dei primi anni postbellici non si trovano quasi mai riferimenti a situazioni problematiche riguardanti gli immigrati italiani. Solo negli anni '50 emergeranno alcuni problemi, destinati ad aumentare negli anni '60. Pertanto, almeno stando alla documentazione ufficiale, non rappresentavano alcun ostacolo alla pacifica convivenza le numerose limitazioni che imponevano agli stranieri le leggi e i regolamenti in vigore. Si può ben ritenere che nei primi immigrati provenienti dal Nord Italia ci fosse una buona dose di accettazione e sopportazione, sicuramente mitigata dalla consapevolezza delle «condizioni» previste dai contratti di lavoro, dal desiderio prevalente del guadagno che apportava l’attività svolta, dalla soddisfazione dei datori di lavoro e anche dal clima generale, non ancora deteriorato da diffusi sentimenti xenofobi che caratterizzeranno soprattutto gli anni ’60.
Più in generale, la prova che in quegli anni l’emigrazione italiana verso la Svizzera rappresentasse per l’Italia del dopoguerra e per i diretti interessati una buona soluzione (certamente non quella ideale e nemmeno la migliore) è data dalle cifre. Secondo statistiche italiane, tra il 1946 e il 1961 emigrarono liberamente in Svizzera circa 1.284.000 italiani. La Svizzera era il principale Paese di destinazione dei migranti italiani. Nel 1950 gli italiani residenti costituivano circa il 50% degli stranieri. Alla fine del decennio erano quasi il 60%. Fino al 1957 la provenienza era soprattutto dal Nord Italia, dal 1958 prevalse l’emigrazione dal Sud e dal centro Italia, dal 1961 prese nettamente il sopravvento il Sud Italia; nel 1969 i due terzi degli italiani provenivano dal Sud.

Dibattito sull’emigrazione
In Italia il dibattito sull’emigrazione in generale e su quella verso la Svizzera in particolare si accese fin dai primi anni ’50 con intenti non sempre trasparenti, anzi spesso strumentali nella dialettica governo-opposizione. Una parte della sinistra italiana, all’opposizione, considerava l’emigrazione
«un danno economico e sociale per il Paese» perché «la perdita di tante energie produttive, anche se potenziali, peggiora sempre più il rapporto tra popolazione attiva o/e passiva, con conseguenze di ordine economico e sociale che finiscono con l’aggravare le nostre difficoltà anziché alleviarle».
In effetti, i primi governi del dopoguerra, a guida democristiana, avendo dato la priorità alla ricostruzione del Paese e allo sviluppo industriale, concentrato essenzialmente al Nord, avevano provocato non solo un’intensa migrazione interna dal sud a nord, ma anche verso l’estero, soprattutto dal sud. Per di più, contravvenendo all’articolo 35 della Costituzione, non sempre avevano tutelato sufficientemente il lavoro degli emigrati. Fu anche sotto la spinta delle opposizioni, ma forse soprattutto delle costatazioni critiche del Ministro d’Italia a Berna Egidio Reale, che si giunse a un accordo d’emigrazione formale (22 giugno 1948).
Ai lavoratori italiani vennero concessi alcuni benefici, ma l’Italia non riuscì ad ottenere tutto quel che chiedeva, per esempio in materia di reclutamento, e dovette accontentarsi di quanto concesso dalla Svizzera. La debolezza dell’Italia nella trattativa dipendeva dal forte interesse che aveva a ridurre la pressione dei disoccupati, a mantenere elevato il flusso emigratorio e dalla speranza di poter riequilibrare la bilancia dei pagamenti con le rimesse degli emigrati, scese a 32 milioni di dollari nel 1947. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 26.4.2017

25 aprile 2017

25 aprile: omaggio a un popolo coraggioso!



Il 25 aprile 1945 è giorno memorabile per l’Italia, perché segnò la fine di un incubo e l’inizio di una speranza, per altro non ancora completamente realizzata. 
In Italia, grazie alle sollevazioni popolari e all’arrivo delle forze alleate, quasi ovunque cessarono i combattimenti: il popolo italiano poteva celebrare la sua vittoria sui nazifascisti e sperare in uno sviluppo pacifico e democratico dell’Italia e del mondo.
Lo stesso giorno iniziava a San Francisco una conferenza internazionale per gettare le basi di un nuovo sistema internazionale di sicurezza collettiva, l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Vi parteciparono delegati di una cinquantina di nazioni che avevano combattuto contro la Germania e i suoi alleati. Pur non essendo una conferenza di pace, per volontà dei vincitori furono esclusi i delegati dei Paesi sconfitti, dunque anche dell’Italia. Un’onta per l’Italia, come ricorderà il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi l’anno seguente alla conferenza di pace di Parigi (29 luglio-15 ottobre 1946) in un celebre discorso che iniziava con queste parole:
«
Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l'essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.
[...] Ho il dovere innanzi alla coscienza del mio paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano, ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le sue aspirazioni umanitarie
di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionalistiche dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire».
Il 25 aprile 1945, dedicando un articolo alla Conferenza di San Francisco («San Francisco e l’Italia»), il quotidiano socialista ticinese Libera Stampa, scriveva: «Se avessero dovuto decidere della presenza d'Italia a S. Francisco i nemici che realmente conobbero il popolo italiano, i fuggiaschi francesi e polacchi, i profughi greci e jugoslavi, i prigionieri di guerra, gli internati ebrei, le truppe alleate che procedono combattendo in Italia, certamente alla delegazione italiana spetterebbe oggi un posto d'onore, quale rappresentante di un popolo che ha commesso gravi errori per inesperienza politica e per insufficienza o complicità delle istituzioni, ma in ogni momento della sua storia, al cospetto di ogni altro popolo, sempre ha voluto ascoltare il battito del proprio cuore, incapace di odio. Né è forse errato ritenere che alla rigenerazione del mondo, alla sua trasformazione ed al suo miglioramento, le doti di bontà innata, di evangelica comprensione siano del tutto inutili».
Ricordare così il 25 aprile del 1945 ha ancora un senso.
Giovanni Longu