Dagli articoli precedenti emerge chiaramente, fra l’altro,
che il processo d’integrazione della seconda generazione è stato lungo e lento.
Qua e là si è anche accennato ad alcune cause (lentezza dei processi
legislativi e incertezza sugli obiettivi, inadeguatezza di alcune strutture
pubbliche, biografie scolastiche complicate di molti bambini, debolezza del
supporto familiare, ecc.), ma non ci si è ancora soffermati sufficientemente su
quelle che probabilmente sono state le cause principali, ossia i problemi
d’identità e le difficoltà legate al tema della naturalizzazione. Se ne parla
in questo e nel prossimo articolo.
Problemi psicologici
Corriere della Sera del 28.7.1966. |
Non li potevano lasciare indifferenti le molteplici forme di disprezzo nei loro confronti, dagli epiteti alle generiche accuse di pericolosità, perché «diversi», perché troppo vivaci e un po’ esagerati in tutto, o perché portavano sovente in tasca un coltello (del resto non diversamente da gran parte degli svizzeri), ecc. Comprensibilissimo che molti italiani provassero un profondo sentimento di frustrazione e di sfiducia, pur sapendo che il loro lavoro era apprezzato dalla maggior parte dei datori di lavoro e dalle stesse autorità.
Su molti immigrati italiani (ma evidentemente non solo italiani) pesava anche il lungo percorso ad ostacoli che avevano dovuto compiere per conquistarsi il permesso di dimora (annuale) o di domicilio (in grado di garantire loro una certa tranquillità contro i rischi legati alla precarietà dei permessi stagionale e annuale). Infatti, se per i primi arrivati (lombardi, piemontesi, friulani, ecc.) quel percorso non dev'essere stato difficile, perché generalmente ben preparati e accettati, per gli immigrati meridionali, sempre più numerosi dalla fine degli anni Cinquanta, è stato certamente ben più arduo perché meno preparati e male accolti da un numero crescente di xenofobi.
Come potevano molti meridionali dimenticare i mesi di attesa
prima di poter riabbracciare la famiglia rimasta in Italia, se erano stati
stagionali, e anche dopo da «annuali» se dovevano aspettare almeno 18 mesi per
far venire in Svizzera l’intera famiglia? E come potevano non accorgersi che il
sistema immigratorio svizzero era stato organizzato in funzione dell’economia e
non consentiva, se non dopo aver superato innumerevoli ostacoli, che gli
immigrati e le loro famiglie si stabilizzassero e potessero finalmente godere
un po’di tranquillità e un po’ di quel benessere ch’essi contribuivano ad
alimentare?
Difficoltà scolastiche
A questo punto è facile capire che la forte pressione
psicologica subita dagli adulti non poteva non avere ripercussioni sui figli
(seconda generazione), nati e cresciuti in Svizzera o giunti qui in età
prescolare. Pur non essendo ancora in grado di svolgere ragionamenti compiuti,
come potevano questi bambini giustificare le privazioni, le sofferenze, le
umiliazioni sopportate per anni dai genitori Gastarbeiter (anche se non
potevano ancora conoscere pienamente il significato del termine)?
Come se tutto ciò non bastasse a complicare la vita e le
prospettive di questi figli, in molti di loro si aggiungeva una complicata
esperienza scolastica. La scuola, nel periodo in esame, era al centro di molte
attenzioni perché a detta di tutti (dalle autorità competenti svizzere alle
rappresentanze diplomatiche e consolari italiane, ma anche dalle organizzazioni
degli italiani in Svizzera) rappresentava la soluzione per il futuro della
seconda generazione.
In effetti, dall'entrata in vigore (22 aprile 1965)
dell’accordo italo-svizzero del 1964, l’inserimento scolastico dei figli degli
immigrati italiani divenne più facile e sembrò accontentare tutti: le autorità
svizzere perché potevano dimostrare di aver accolto le richieste italiane
espresse durante il negoziato, le autorità italiane perché erano previste nel
programma scolastico lezioni di lingua e cultura italiane, i genitori perché
qualora avessero deciso di rientrare i bambini non avrebbero perduto il
contatto con l’insegnamento della scuola italiana e se fossero rimasti in
Svizzera avrebbero uguagliato i coetanei svizzeri.
Tuttavia la realtà si rivelò presto ben più complessa e meno
confortante perché, soprattutto i genitori di questi bambini non si rendevano
conto di quanto fosse esigente e selettiva la scuola svizzera, di quanta
competenza linguistica avessero bisogno i bambini venuti dall'Italia in età
scolastica grazie ai ricongiungimenti familiari, di quanto sostegno familiare attivo avessero bisogno i
bambini stranieri.
Purtroppo molte soluzioni non furono prese sempre
nell'interesse dei bambini, soprattutto quelle che spezzarono in alcuni casi
più volte il ciclo scolastico (scuola parte in Svizzera, parte in Italia e poi
nuovamente in Svizzera), ma anche la frequentazione di scuole italiane per
bambini che sarebbero poi rimasti definitivamente in questo Paese. In molti
casi pesò sul loro futuro anche l’incertezza di numerosi genitori se rientrare
o restare in Svizzera.
Nemmeno alcune soluzioni del sistema scolastico svizzero
furono prese sempre o non completamente nell'interesse dei bambini stranieri,
soprattutto quando venivano destinati alle «classi speciali» perché non
riuscivano a seguire l’insegnamento regolare, ma senza prendersi cura di
colmare le loro lacune e recuperare efficacemente i loro ritardi.
Verso un’identità diversa, italo-svizzera
Si può dunque ben comprendere che una tale situazione abbia
avuto in molti ragazzi italiani ripercussioni evidenti sulle prestazioni
scolastiche, sull'impiego del tempo libero, sui rapporti sociali,
sull'integrazione, ma anche sul senso d’identità. Non si sentivano pienamente
né italiani né svizzeri e non trovavano nel loro ambiente validi aiuti per raggiungere un giusto
equilibrio. Per molti osservatori (forse un po’ superficiali!) erano la
generazione «né carne né pesce»,
la cosiddetta «Weder-noch-Generation».
Credo che una delle cause importanti della lunga durata del
processo integrativo di molti italiani nel periodo in esame (1970-1990) sia
stata l’incapacità molto estesa di concepire e di valorizzare una diversa
identità, né solo italiana né solo svizzera, ma italo-svizzera. Voler assegnare
a tutti i costi a ogni persona di seconda o terza generazione la prima o la
seconda identità rappresenta una forzatura perché in tal modo viene negata
l’una o l’altra componente dell’autentica identità che contraddistingue ogni
individuo con origini migratorie, che ha raggiunto il traguardo di un percorso
d’integrazione ben riuscito, dunque un valore.
Questa nuova identità italo-svizzera andrebbe forse ancor
meglio studiata e analizzata perché corrisponde, fra l’altro, a una realtà
sempre più diffusa in Svizzera, riguardante ormai circa il 40% della popolazione.
Essa andrebbe anche presa maggiormente in considerazione dagli ambienti
istituzionalmente italiani e istituzionalmente svizzeri, perché essa
rappresenta, rispetto alle tradizionali definizioni di identità nazionali, non
una diminuzione, una contaminazione o un ibrido debole, ma un arricchimento
persino in un Paese tradizionalmente multilingue e multiculturale.
Giovanni Longu
Berna 9.2.2022