Nel periodo trattato (1950-1970) della storia
dell’immigrazione italiana in Svizzera sono stati messi in luce alcuni aspetti
quantitativi (flussi, incremento) e qualitativi (condizioni di lavoro, d’abitazione,
ecc.) che hanno evidenziato non solo le difficoltà incontrate da molti
immigrati nel condurre una vita normale, ma anche dall’Italia nella gestione
dell’emigrazione e dalla Svizzera nell’avvio di una nuova politica
immigratoria. Si è solo accennato al ruolo attivo degli emigrati/immigrati nei
vari processi perché ritenuto sostanzialmente marginale, a parte qualche
lodevole eccezione. Una di queste è stata il CISAP, un centro italo-svizzero di
formazione professionale per adulti che ha fatto scuola. Per le sue
caratteristiche e il suo valore esemplare merita senz’altro un approfondimento.
Esempio da ricordare
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Sede centrale del CISAP a Berna (1972) |
Il suo carattere innovativo e l’avvio di una forma di
collaborazione italo-svizzera complessa e lungimirante sono stati evidenziati
nell’opera CISAP Si cercavano braccia e sono
venuti uomini. I vent’anni del CISAP, 1966-1986, a cura di Giovanni
Longu (1986). In altre opere più recenti, che pure contengono ampi
riferimenti all’attività formativa del CISAP, manca invece del tutto la
comprensione dell’originalità e del valore esemplare di questa istituzione.
Eppure, nel contesto della storia dell’immigrazione italiana
in Svizzera, il CISAP merita di essere ricordato come un bell’esempio di
innovazione e di riuscita in una società chiusa e talvolta ostile nei confronti
degli immigrati e in cui questi avevano enormi difficoltà ad integrarsi. Per
capire le aspirazioni, le dinamiche e le caratteristiche fondamentali del CISAP
è anzitutto indispensabile conoscere meglio l’immigrazione italiana e la
società svizzera della prima metà degli anni Sessanta.
Contesto generale: il mondo del lavoro stava cambiando
Nella prima metà degli anni Sessanta, il mondo del lavoro
svizzero era in piena trasformazione in seguito a diverse spinte di natura
politica, sindacale, sociale e non da ultimo economica. Lo sviluppo economico
incontrollato cominciava ad essere contestato non solo da esponenti politici di
destra (quelli che daranno vita ai movimenti xenofobi), ma anche da esperti,
dai sindacati, da alcune fasce sociali che temevano l’aumento dei prezzi e
dallo stesso Consiglio federale. Ma erano anche le grandi imprese a rendersi
conto che, per far fronte alla concorrenza internazionale, era necessario
intervenire nel sistema industriale svizzero con l’introduzione di tecnologie
innovative e nuovi macchinari automatizzati.
In un rapporto del
1963 il Consiglio federale indicava nel ricorso incessante alla manodopera
straniera un pericolo per l’economia svizzera e suggeriva ai datori di lavoro
di ricorrere maggiormente nelle loro imprese alla razionalizzazione e
all’automatizzazione. Da alcuni grandi datori di lavoro il suggerimento
dev’essere stato tenuto in considerazione perché dal 1963 (record di arrivi
dall’Italia: 153.054, esclusi gli stagionali) il numero di immigrati residenti
cominciò a diminuire costantemente: 122.018 nel 1964, 111.863 nel 1965, 103.159
nel 1966, ecc.
Contemporaneamente si
costatava che gli italiani (il gruppo di gran lunga più numeroso degli
stranieri) tendevano a fermarsi in Svizzera sempre più a lungo e, soprattutto
dopo l’Accordo italo-svizzero del 1964, a sistemare qui anche la famiglia.
Sotto il peso di queste considerazioni, agli inizi degli
anni Sessanta cadde il principio della «rotazione» della manodopera estera
(introdotto nel dopoguerra per avere vie di fuga in caso di recessione) e le
imprese industriali svizzere cominciarono a fidelizzare maggiormente il proprio
personale già formato e affidabile. Tanto più che la nuova manodopera
disponibile, proveniente dalla fine degli anni Cinquanta sempre più dal sud
d’Italia, presentava grosse lacune di formazione e difficoltà di adattamento, e
con essa si sarebbe corso anche il rischio di compromettere la qualità della
produzione.
In altre parole, sembrava inevitabile assecondare la volontà
del governo che mirava alla stabilizzazione della manodopera estera, per
stemperare la paura dell’inforestierimento ma anche per assecondare le esigenze
dell’economia. Raggiungere tale obiettivo dovette apparire impresa non facile
alle autorità federali che si rendevano conto quanto le misure di
contingentamento della manodopera estera adottate finora fossero inefficaci.
Dal canto loro, molti immigrati non si rendevano invece conto delle difficoltà
che avrebbe comportato la scelta di restare in Svizzera più a lungo del
previsto, soprattutto in presenza di figli in età scolastica (seconda
generazione).
Problemi tra gli immigrati
L’Accordo italo-svizzero del 1964, che prevedeva
miglioramenti per gli immigrati italiani e soprattutto la facilitazione dei
ricongiungimenti familiari, mentre lasciava presagire che il numero dei
residenti sarebbe cresciuto rapidamente, di per sé non facilitava la
stabilizzazione che ormai si sarebbe fondata sempre più su alcuni presupposti
quali la conoscenza della lingua locale, l’integrazione, buoni salari, ma anche
la competenza professionale. Anzi, sarebbe stata questa, secondo gli iniziatori
del CISAP, la condizione principale per la stabilizzazione, perché in grado di
garantire una certa sicurezza dell’impiego e la base per il continuo
aggiornamento professionale.
Poiché, tuttavia, l’economia in forte sviluppo continuava a
richiedere manodopera straniera e questa proveniva ormai quasi esclusivamente
dal Mezzogiorno, chiunque avesse voluto garantirsi un posto di lavoro durevole,
in grado di adattarsi alle fluttuazioni del mercato del lavoro e ai cambiamenti
in corso delle tecnologie produttive doveva ormai disporre da subito di una
qualifica professionale (casi rarissimi) o procurarsela sul posto.
Alcune autorità consolari e alcune associazioni, soprattutto
le Colonie libere italiane (CLI) e le Missioni cattoliche italiane (MCI),
affrontarono il problema con molta buona volontà ma mezzi limitati. Nella prima
metà degli anni Sessanta vennero organizzati un po’ in tutta la Svizzera corsi
di lingua tedesca, di taglio e cucito, di matematica, di tecnologia, di lettura
del disegno tecnico e simili. Erano sostenuti, almeno parzialmente, dallo Stato
italiano attraverso i Consolati, ma, com’è facile capire, insufficienti ai fini
della sicurezza dell’impiego e della stabilizzazione.
Le origini del CISAP
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Allievi di un corso di disegno meccanico organizzato dalla CLI di Berna in una sala del ristorante Waldhorn (foto CISAP) |
In questa problematica s’inserisce la nascita del CISAP,
avvenuta ufficialmente nel 1966 sul prolungamento delle attività di formazione
che venivano organizzate a Berna dalla locale CLI rifondata (perché già nel
1943 ne era stata fondata una) nel 1961.
Le attività di formazione facevano capo alla Commissione
culturale, allora diretta da Giorgio Cenni, che riuscì ad avviare in
poco tempo un programma di corsi, che suscitò un grande interesse tra i
connazionali. Nel «programma scolastico, culturale e sportivo 1963/64» venivano
offerti «corsi interamente gratuiti di: matematica, tecnologia, perfezionamento
per automeccanici, teorico per montatori-elettricisti, elementare di lingua
italiana, disegno meccanico, disegno edile, teorico per elettrauto, tedesco e francese».
L’anno seguente, alla presentazione dei corsi 1964-65 intervennero,
oltre al presidente Dante Zola e altri dirigenti della CLI, un
rappresentante dell’Ambasciata d’Italia, il nuovo console d’Italia a Berna Antonio
Mancini (giunto a Berna nel 1964), rappresentanti di associazioni italiane
di Berna, rappresentanti della stampa sindacale.
In quell’occasione Giorgio Cenni non presentò solo i corsi
in programma (disegno meccanico, automeccanica, elettrauto e lingue), ma anche
un ambizioso progetto di collaborazione con la scuola professionale svizzera
locale, lasciando anche intendere che il problema della formazione
professionale dei connazionali andava affrontato con maggiori mezzi finanziari
e una migliore organizzazione.
I corsi, rievocherà più tardi Giorgio Cenni, si tenevano in
alcuni locali di ristoranti, ma le sale non erano sempre disponibili. Stava
maturando l’idea di un centro autonomo finalizzato alla formazione
professionale dei connazionali. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 13.11.2019
Berna, 13.11.2019