I consistenti flussi migratori italiani verso la Svizzera
del secondo dopoguerra non furono provocati solo dalla pesante situazione
economica in cui versava l’Italia alla fine del conflitto, ma anche dalle
scelte politiche dei primi governi repubblicani.
Di fronte alle difficoltà oggettive di avviare e sostenere la ripresa economica
e contemporaneamente intervenire per contenere e ridurre il disagio sociale
provocato dalla povertà e dalla disoccupazione, i governi del dopoguerra
diedero la priorità alla soluzione dei problemi economici (ricostruzione, e
sviluppo economico). Questa scelta, che condizionerà per lungo tempo la
politica emigratoria italiana, merita una breve rievocazione della situazione
politica di quel periodo.
L’emigrazione
funzionale alla ripresa
Finita la guerra, nessuna
forza politica mise in dubbio la priorità della ricostruzione e della ripresa
economica rispetto al contenimento del disagio sociale. Soprattutto democristiani,
socialisti e comunisti, che si erano mostrati abbastanza uniti nella lotta per
la liberazione dal nazifascismo, lo furono anche nel proseguire la
collaborazione per trovare soluzioni immediate ed efficaci ai gravi problemi
economici del dopoguerra.

Sulle misure da adottare per
contenere e ridurre il disagio sociale non ci furono praticamente né
dibattito, salvo nella Costituente, né intesa specifica, perché tutte le forze
politiche e sindacali erano sostanzialmente d’accordo che all’emigrazione non
si potesse rinunciare e che spettasse al governo gestirla secondo i principi sanciti
dalla Costituzione all’articolo 35, ossia garantendo la libertà di emigrazione
e tutelando il lavoro italiano all’estero.
Un compromesso per
agevolare la ripresa
Nonostante la collaborazione
in seno ai governi di coalizione, soprattutto tra i cattolici democristiani
(DC) e i comunisti (PCI) le divisioni erano talmente profonde, sia in politica
interna e sia nei rapporti internazionali (si era alla vigilia della guerra
fredda), che lo scontro appariva inevitabile. Subito dopo la Liberazione,
considerandosi pronte ad andare al governo, le sinistre (comunisti e
socialisti) avevano creato non poche difficoltà al governo guidato dal
riformista Ivanoe Bonomi (12 dicembre 1944-12 giugno 1945), tanto
da costringerlo alle dimissioni. Non riuscirono a costituire un loro governo
solo perché gli Alleati occidentali, ancora presenti in Italia, ritennero
pericoloso un «governo di estrema sinistra» filosovietico.
Poiché nessuna forza politica
sembrava in grado di indicare il successore di Bonomi, dopo lunghe discussioni
fu incaricato di formare il nuovo governo Ferruccio Parri, figura
prestigiosa della Resistenza e accettato dalle sei principali forze
politiche del momento: DC (Democrazia Cristiana), PCI (Partito Comunista
Italiano), PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, già PSI),
PLI (Partito Liberale Italiano), PdA (Partito d’Azione) e PDL (Partito
Democratico del Lavoro).
Il governo Parri fu tuttavia
di breve durata (21 giugno 1945-10 dicembre 1945) perché in pochi mesi tutti
gli altri leader politici gli si erano messi contro, nonostante fosse riuscito
a varare importanti riforme dell’amministrazione e ad avviare la ricostruzione
del Paese.
Intanto si erano fatte
incalzanti le pressioni su Alcide De Gasperi, leader democristiano,
perché assumesse la guida del governo. Spingevano in questa direzione non solo
il suo partito ma anche la Chiesa che non vedeva di buon occhio la
collaborazione tra democristiani e comunisti, col rischio che questi
prendessero prima o poi il sopravvento. De Gasperi formò il governo (primo
governo De Gasperi: 10 dicembre 1945-14 luglio 1946), ma ancora con la
partecipazione di un’ampia coalizione (DC-PCI-PSIUP-PLI-PdA-PDL). La rottura con i comunisti era rimandata.
L’estromissione
delle sinistre dal governo
De Gasperi si dimise dopo le prime
elezioni politiche del dopoguerra (2 giugno 1946), che si svolsero
contemporaneamente al referendum istituzionale per la scelta tra Monarchia e
Repubblica, per dare modo al Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola
di nominare un nuovo governo sulla base dei risultati elettorali.
I risultati non chiarivano in
maniera definitiva i rapporti di forza tra i grandi partiti, ma assicuravano
alla Democrazia Cristiana una netta maggioranza relativa (35,2% di voti e 195
seggi) e al suo leader Alcide De Gasperi l’incarico di formare il nuovo
governo (secondo governo De Gasperi: 14 luglio 1946-20 gennaio 1947).
Data la difficile situazione economica e sociale, il politico trentino ritenne
opportuno formare ancora un governo di coalizione con i socialisti (che avevano
una forza partitica del 20,7%) e i comunisti (19%).
Per sentirsi sicuro di poter
governare senza le sinistre, De Gasperi sperava in un buon esito elettorale
alle elezioni amministrative che si tennero in tutta Italia tra marzo e
novembre (anche con la partecipazione per la prima volta delle donne). L’esito
non gli fu propizio perché oltre al successo ottenuto dal partito contestatore
dell’Uomo Qualunque anche i partiti di sinistra registrarono un notevole
aumento. Lo scontro definitivo era ancora rinviato, nonostante che le pressioni
del Vaticano ad abbandonare l’alleanza con i comunisti si facessero sempre più
insistenti.
Nel gennaio 1947, in seguito
alla scissione dei socialisti («scissione di palazzo Barberini», 11 gennaio
1947) in Partito Socialista Italiano PSI, guidato da Pietro Nenni, e
Partito Socialista dei Lavoratori Italiani PSLI (dal 1951: Partito Socialista
Democratico Italiano PSDI), guidato da Giuseppe Saragat, De Gasperi diede
le dimissioni (20 gennaio 1947).
Nel successivo governo (terzo
governo De Gasperi), che durò solo pochi mesi (2 febbraio 1947-13 maggio
1947), il leader trentino ritenne di non poter ancora estromettere le forze di
sinistra dall’esecutivo. Restavano infatti ancora irrisolte due questioni
spinose che la DC non voleva correre il rischio di affrontare e risolvere da
sola: la firma del trattato di pace che avrebbe costretto gli italiani a
ingoiare non pochi bocconi amari e la votazione dell’articolo 7 (Patti Lateranensi)
del progetto costituzionale in discussione nella Costituente, che avrebbe
potuto essere respinto dal voto contrario di una coalizione di forze laiche e
di sinistra.
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Palmiro Togliatti |
Ripercussioni sulla
politica emigratoria italiana
Con l’esclusione dei
comunisti dal governo, nel 1947, iniziava la lunga fase del centrismo
democristiano (sancito dalla vittoria della Democrazia Cristiana alle elezioni
del 18 aprile 1948: 48,5% di voti), ma anche della forte opposizione delle
sinistre (Partito comunista e Partito socialista, sconfitti alle elezioni), che,
ridimensionate (31% di voti) dal voto popolare, cercarono di affermarsi in
tutti i modi specialmente nella classe operaia, dando persino l’idea di voler
preparare la «rivincita».
Dal 1948 cominciarono a
diffondersi in Italia anche forti sentimenti anticomunisti, degenerati il 14
luglio in alcuni colpi di pistola sparati contro Palmiro Togliatti,
segretario del PCI. La reazione nel Paese fu talmente sentita e violenta da far
ritenere possibile una guerra civile. Prevalse nei dirigenti del partito il
senso dello Stato e della moderazione nelle manifestazioni di piazza e negli
scioperi, ma in quell’estate del 1948 venne sancito anche il contrasto tra la
DC e il PCI. Inevitabilmente si sarebbe riverberato anche nella politica emigratoria
italiana del dopoguerra, ormai senza il supporto delle sinistre.
Come si vedrà in seguito,
gran parte delle iniziative e delle decisioni prese in questo campo dai vari
governi democristiani furono pesantemente criticate specialmente dai comunisti,
abilissimi, fra l’altro, a costituire tra gli immigrati in Svizzera già prima
della fine della guerra importanti associazioni di riferimento, molto critiche
nei confronti del governo italiano. Una convergenza di posizioni tra le
principali forze politiche avrebbe sicuramente contribuito a salvaguardare
meglio gli interessi degli emigranti e a evitare o quanto meno a risolvere più
tempestivamente ed efficacemente molti dei problemi che incontrarono nei primi
decenni del dopoguerra. (Segue)