13 febbraio 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 3. La situazione politica del dopoguerra


I consistenti flussi migratori italiani verso la Svizzera del secondo dopoguerra non furono provocati solo dalla pesante situazione economica in cui versava l’Italia alla fine del conflitto, ma anche dalle scelte politiche dei primi governi repubblicani. Di fronte alle difficoltà oggettive di avviare e sostenere la ripresa economica e contemporaneamente intervenire per contenere e ridurre il disagio sociale provocato dalla povertà e dalla disoccupazione, i governi del dopoguerra diedero la priorità alla soluzione dei problemi economici (ricostruzione, e sviluppo economico). Questa scelta, che condizionerà per lungo tempo la politica emigratoria italiana, merita una breve rievocazione della situazione politica di quel periodo.

L’emigrazione funzionale alla ripresa
Finita la guerra, nessuna forza politica mise in dubbio la priorità della ricostruzione e della ripresa economica rispetto al contenimento del disagio sociale. Soprattutto democristiani, socialisti e comunisti, che si erano mostrati abbastanza uniti nella lotta per la liberazione dal nazifascismo, lo furono anche nel proseguire la collaborazione per trovare soluzioni immediate ed efficaci ai gravi problemi economici del dopoguerra.
Tutti i governi del dopoguerra fino al 1947 furono di coalizione tra centro e sinistra o, come vengono anche detti, di «unità nazionale», e garantirono di fatto in pochi anni non solo la ricostruzione del Paese, ma anche la ripresa delle attività economiche. Si trattava, com’è facile capire, di un’intesa funzionale alla ripresa economica quale condizione per la sopravvivenza del Paese in un mondo che si apprestava a cambiamenti radicali.
Sulle misure da adottare per contenere e ridurre il disagio sociale non ci furono praticamente né dibattito, salvo nella Costituente, né intesa specifica, perché tutte le forze politiche e sindacali erano sostanzialmente d’accordo che all’emigrazione non si potesse rinunciare e che spettasse al governo gestirla secondo i principi sanciti dalla Costituzione all’articolo 35, ossia garantendo la libertà di emigrazione e tutelando il lavoro italiano all’estero. 

Un compromesso per agevolare la ripresa
Nonostante la collaborazione in seno ai governi di coalizione, soprattutto tra i cattolici democristiani (DC) e i comunisti (PCI) le divisioni erano talmente profonde, sia in politica interna e sia nei rapporti internazionali (si era alla vigilia della guerra fredda), che lo scontro appariva inevitabile. Subito dopo la Liberazione, considerandosi pronte ad andare al governo, le sinistre (comunisti e socialisti) avevano creato non poche difficoltà al governo guidato dal riformista Ivanoe Bonomi (12 dicembre 1944-12 giugno 1945), tanto da costringerlo alle dimissioni. Non riuscirono a costituire un loro governo solo perché gli Alleati occidentali, ancora presenti in Italia, ritennero pericoloso un «governo di estrema sinistra» filosovietico.
Poiché nessuna forza politica sembrava in grado di indicare il successore di Bonomi, dopo lunghe discussioni fu incaricato di formare il nuovo governo Ferruccio Parri, figura prestigiosa della Resistenza e accettato dalle sei principali forze politiche del momento: DC (Democrazia Cristiana), PCI (Partito Comunista Italiano), PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, già PSI), PLI (Partito Liberale Italiano), PdA (Partito d’Azione) e PDL (Partito Democratico del Lavoro).
Il governo Parri fu tuttavia di breve durata (21 giugno 1945-10 dicembre 1945) perché in pochi mesi tutti gli altri leader politici gli si erano messi contro, nonostante fosse riuscito a varare importanti riforme dell’amministrazione e ad avviare la ricostruzione del Paese.
Intanto si erano fatte incalzanti le pressioni su Alcide De Gasperi, leader democristiano, perché assumesse la guida del governo. Spingevano in questa direzione non solo il suo partito ma anche la Chiesa che non vedeva di buon occhio la collaborazione tra democristiani e comunisti, col rischio che questi prendessero prima o poi il sopravvento. De Gasperi formò il governo (primo governo De Gasperi: 10 dicembre 1945-14 luglio 1946), ma ancora con la partecipazione di un’ampia coalizione (DC-PCI-PSIUP-PLI-PdA-PDL). La rottura con i comunisti era rimandata.

L’estromissione delle sinistre dal governo
De Gasperi si dimise dopo le prime elezioni politiche del dopoguerra (2 giugno 1946), che si svolsero contemporaneamente al referendum istituzionale per la scelta tra Monarchia e Repubblica, per dare modo al Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola di nominare un nuovo governo sulla base dei risultati elettorali.
I risultati non chiarivano in maniera definitiva i rapporti di forza tra i grandi partiti, ma assicuravano alla Democrazia Cristiana una netta maggioranza relativa (35,2% di voti e 195 seggi) e al suo leader Alcide De Gasperi l’incarico di formare il nuovo governo (secondo governo De Gasperi: 14 luglio 1946-20 gennaio 1947). Data la difficile situazione economica e sociale, il politico trentino ritenne opportuno formare ancora un governo di coalizione con i socialisti (che avevano una forza partitica del 20,7%) e i comunisti (19%).
Per sentirsi sicuro di poter governare senza le sinistre, De Gasperi sperava in un buon esito elettorale alle elezioni amministrative che si tennero in tutta Italia tra marzo e novembre (anche con la partecipazione per la prima volta delle donne). L’esito non gli fu propizio perché oltre al successo ottenuto dal partito contestatore dell’Uomo Qualunque anche i partiti di sinistra registrarono un notevole aumento. Lo scontro definitivo era ancora rinviato, nonostante che le pressioni del Vaticano ad abbandonare l’alleanza con i comunisti si facessero sempre più insistenti.
Nel gennaio 1947, in seguito alla scissione dei socialisti («scissione di palazzo Barberini», 11 gennaio 1947) in Partito Socialista Italiano PSI, guidato da Pietro Nenni, e Partito Socialista dei Lavoratori Italiani PSLI (dal 1951: Partito Socialista Democratico Italiano PSDI), guidato da Giuseppe Saragat, De Gasperi diede le dimissioni (20 gennaio 1947).
Nel successivo governo (terzo governo De Gasperi), che durò solo pochi mesi (2 febbraio 1947-13 maggio 1947), il leader trentino ritenne di non poter ancora estromettere le forze di sinistra dall’esecutivo. Restavano infatti ancora irrisolte due questioni spinose che la DC non voleva correre il rischio di affrontare e risolvere da sola: la firma del trattato di pace che avrebbe costretto gli italiani a ingoiare non pochi bocconi amari e la votazione dell’articolo 7 (Patti Lateranensi) del progetto costituzionale in discussione nella Costituente, che avrebbe potuto essere respinto dal voto contrario di una coalizione di forze laiche e di sinistra.
Palmiro Togliatti
Superati i due ostacoli (rispettivamente il 10 febbraio 1947 e il 25 marzo 1947), nel maggio del 1947 De Gasperi aprì la crisi di governo per poter formare un nuovo esecutivo (quarto governo De Gasperi) con la partecipazione dei partiti minori di centro PSLI, PRI (Partito Repubblicano Italiano) e PLI (Partito Liberale Italiano) e, finalmente, senza le sinistre (PCI e PSI), che passarono all’opposizione. Era la fine dell'unità nazionale e l'inizio dell’inasprimento della politica delle sinistre. I primi mesi del 1947 segnarono anche forti contrasti tra Stati Uniti e Unione Sovietica nei confronti dell’Europa e l’inizio della guerra fredda.

Ripercussioni sulla politica emigratoria italiana
Con l’esclusione dei comunisti dal governo, nel 1947, iniziava la lunga fase del centrismo democristiano (sancito dalla vittoria della Democrazia Cristiana alle elezioni del 18 aprile 1948: 48,5% di voti), ma anche della forte opposizione delle sinistre (Partito comunista e Partito socialista, sconfitti alle elezioni), che, ridimensionate (31% di voti) dal voto popolare, cercarono di affermarsi in tutti i modi specialmente nella classe operaia, dando persino l’idea di voler preparare la «rivincita».
Dal 1948 cominciarono a diffondersi in Italia anche forti sentimenti anticomunisti, degenerati il 14 luglio in alcuni colpi di pistola sparati contro Palmiro Togliatti, segretario del PCI. La reazione nel Paese fu talmente sentita e violenta da far ritenere possibile una guerra civile. Prevalse nei dirigenti del partito il senso dello Stato e della moderazione nelle manifestazioni di piazza e negli scioperi, ma in quell’estate del 1948 venne sancito anche il contrasto tra la DC e il PCI. Inevitabilmente si sarebbe riverberato anche nella politica emigratoria italiana del dopoguerra, ormai senza il supporto delle sinistre.
Come si vedrà in seguito, gran parte delle iniziative e delle decisioni prese in questo campo dai vari governi democristiani furono pesantemente criticate specialmente dai comunisti, abilissimi, fra l’altro, a costituire tra gli immigrati in Svizzera già prima della fine della guerra importanti associazioni di riferimento, molto critiche nei confronti del governo italiano. Una convergenza di posizioni tra le principali forze politiche avrebbe sicuramente contribuito a salvaguardare meglio gli interessi degli emigranti e a evitare o quanto meno a risolvere più tempestivamente ed efficacemente molti dei problemi che incontrarono nei primi decenni del dopoguerra. (Segue)