15 settembre 2025

1945: Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki, nomi da non dimenticare!

Dopo l’intervallo estivo ritorno a proporre ai lettori de L’ECO alcuni anniversari significativi della nostra storia recente. 80 anni fa terminava la seconda guerra mondiale e molti associano ancora oggi quella fine soprattutto a tre nomi fissati indelebilmente nei libri di storia e, forse ancora per poco, nella memoria collettiva: Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki. Il primo richiama i famigerati campi di sterminio nazisti, gli altri due lo sterminio degli abitanti di due intere città perpetrato dagli Stati Uniti d’America per far cessare la guerra col Giappone. L’idea stessa che Auschwitz sia stato concepito come campo di «sterminio» è terrificante, ma non lo è da meno, almeno per chi scrive, l’idea di far cessare la guerra sacrificando deliberatamente oltre duecentomila cittadini innocenti. Mi sembra giusto rievocare questi nomi perché, mentre si auspica da ogni parte che non si ripetano mai più fatti tragici come quelli della seconda guerra mondiale, le nostre società sembrano tollerare una terza guerra mondiale «a pezzi» (papa Francesco nel 2014) e non abbia la forza morale d’imporre la pace in tutte le situazioni controverse, per salvare vite umane, da preservare ad ogni costo.

Non dimenticare!

La guerra, anche quella cosiddetta «giusta» o per legittima difesa (l’unica forma di conflitto armato previsto dal diritto internazionale sancito dall'Articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite: «Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite…») è sempre disumana, soprattutto quando viola la pace internazionale, perché contraria alla dignità della persona, che è un «assoluto», cioè non condizionabile. Spesso, invece, quando si pretende di fissare una gerarchia di valori, si mette al primo posto il bene dello Stato o, più modernamente, la sovranità dello Stato e non il bene dei cittadini, il bene comune. In certi inni nazionali si chiede al cittadino adulto persino di essere pronto alla morte, se chiamato a difendere la patria con le armi (anche la Svizzera nel suo vecchio inno nazionale Ci chiami o Patria prevedeva che per difendere la Patria «Ti farem argine / Coi petti intrepidi / Anzi che cedere / Morrem per te». Nell'inno attuale o Salmo svizzero questa disponibilità al sacrificio totale non c’è più).

Auschwitz richiama inevitabilmente la Shoah, lo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, ma dovrebbe ricordare prima di tutto il comandamento primordiale «non uccidere», che vale in generale, per tutti. Non uccidere è sempre applicabile perché «la vita umana è sacra», «solo Dio è il Signore della vita» e «nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente», nemmeno lo Stato.

Le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki sono un obbrobrio di cui non solo gli americani ma l’umanità intera dovrebbero vergognarsi. Ogni «strage di innocenti» è ingiustificabile e non è necessario essere cristiani per seguire l’indicazione di San Paolo ai Tessalonicesi: «Guardatevi dal rendere male per male ad alcuno; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti» (1 Tessalonicesi 5-15).

Hiroshima dopo la bomba
Eppure, di fronte ai massacri, di cui si ha notizia ogni giorno, l’indignazione generale è tiepida, come se in fondo si riconoscesse come valida ancora oggi, persino quando risulta vistosamente peggiorata (!), la legge del taglione («occhio per occhio, dente per dente») presente nell’antico codice di Hammurabi risalente al XVIII secolo a.C.

Ma è possibile dimenticare Auschwitz, Hiroshima, Nagasaki…? Purtroppo sembrerebbe di sì ed è un brutto segno!

Diritto internazionale e dignità umana

Quando molti osservatori, intellettuali, analisti, politici, governi, capi di Stato riducono di fatto il «diritto internazionale» alla difesa ad oltranza dell’«integrità territoriale» di uno Stato, anche se comporta la morte di decine di migliaia di persone innocenti, mi sorprende la facilità con cui sembrano dimenticare una parte importante del «diritto internazionale» (che ha una fonte vincolante nella Carta costitutiva delle Nazioni Unite), quella in cui si afferma solennemente che «Noi, popoli delle Nazioni Unite» dichiariamo di essere decisi a «riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole», a «praticare la tolleranza e a vivere in pace l’uno con l’altro in rapporti di buon vicinato», a «sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale» (Statuto ONU).

Nagasaki dopo la bomba.

Tralascio, per esigenze di spazio, anche il richiamo del «diritto internazionale umanitario» perché quanto detto dovrebbe bastare, a mio parere, a farci vergognare come individui e come società della tolleranza (o ignavia?) con cui vengono visti oggi in una parte consistente dell’opinione pubblica i crimini di guerra, gli stermini, i genocidi.

Tralascio anche, per la stessa ragione, come pseudo-giustificazione della nostra scarsa indignazione, la scusante di trovarci di fronte ad autocrati che fanno strame del diritto internazionale, perché nulla vieta che in un Paese libero si levino voci accorate di dissenso e di condanna non solo di chi vuole e pratica la guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», ma anche chi non fa alcuno sforzo pacifico (usando soprattutto la diplomazia) per risolverle, ossia senza spargimento di sangue, magari con compromessi e rinunce dolorose pur di salvare vite umane. 

«Nulla è perduto con la pace!»

La pace, infatti, non va vista come una resa di fronte a un nemico (militarmente) più forte, ma come una forma di «salvezza della vita», di tante vite umane che sarebbe indegno sacrificare sull’altare dell’amor patrio. «La pace è possibile, diceva papa Francesco, se veramente voluta». Se oggi si preferisce, specialmente in Europa, parlare di riarmo piuttosto che attivarsi per «preparare la pace», è un segnale di debolezza di cui tutti gli europei dovrebbero preoccuparsi. Ma forse non se ne ha la consapevolezza!

Anche per questo merita ricordare l’ammonimento del papa Pio XII allo scoppio della seconda guerra mondiale: «Nulla è perduto con la pace; tutto può essere perduto con la guerra». Purtroppo non fu ascoltato e il disastro fu immane. Lo stesso ammonimento fu ripetuto da papa Francesco e anche papa Leone XIV lo ricorda in continuazione. Tocca a ciascuno di noi farne tesoro, altrimenti chi ci salverà dalla terza guerra mondiale, non più «a pezzi», ma totale?
Giovanni Longu
Berna 15.09.2025


30 agosto 2025

Mattmark, 60 anni fa: dopo la disgrazia il silenzio!

Oggi, 30 agosto 2025, si ricorda la terribile disgrazia di Mattmark che provocò la morte di 88 persone, di cui 56 lavoratori italiani. E’ giusto ricordare, non solo per onorare e ricordare le vittime, ma anche perché 60 anni fa fu scritta a più mani una pagina tragica della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera tenuta a lungo nascosta. In questo articolo non riferisco i fatti già noti e su cui si è già scritto molto, né intervengo sui processi che si sono celebrati contro i presunti colpevoli, tutti assolti, sebbene a qualche ricercatore autoreferenziale quelle sentenze continuino ad apparire ingiustificate. Mi limiterò solo a poche precisazioni e a sollevare il tema sempre taciuto delle responsabilità plurime, anche italiane, di cui non si parla (quasi) mai, perché indirette, e sistematicamente rimosse nelle commemorazioni ufficiali, anche oggi.

Fu una «disgrazia naturale», forse evitabile!

La diga di Mattmark, una delle più grandi della Svizzera
Comincio col ripetere (come ho già fatto altre volte), che la «verità giudiziaria» ha assolto definitivamente tutti i presunti responsabili della disgrazia perché il distacco di quel micidiale pezzo del ghiacciaio Allalin, sopra Mattmark, nel Vallese (Svizzera), era imprevedibile e la decisione di collocarvi sotto uno dei cantieri principali non fu dettata da speculazione, negligenza o azzardo[1], ma era stata considerata idonea anche dagli esperti locali. Che quel ghiacciaio facesse paura a molti, perché ogni tanto qualche pezzo si staccava e precipitava a valle fragorosamente, in sede processuale fu ritenuto vero ma non sufficiente per ritenere i responsabili del cantiere colpevoli di omicidio colposo e di negligenza nei confronti della sicurezza degli operai[2].

Di fronte alla non-colpevolezza dei dirigenti del cantiere, alcuni esponenti dell’associazionismo italiano hanno messo sotto accusa le aziende appaltatrici ree di frenesia nel voler portare a termine il lavoro prima dell’inverno, di avidità di guadagno, di sfruttamento dei lavoratori, di eccessivo risparmio a scapito della prevenzione, ecc. Si è scritto che gli operai addetti alla realizzazione della diga erano sfruttati e costretti (!) a lavorare anche 15-16 ore al giorno, domenica e festivi, dimenticando di ricordare che a (quasi) tutti facevano comodo gli straordinari, tant'è che «moltissimi» lavoratori avevano «salari pari o superiori al guadagno massimo assicurato»[3].


Il cantiere di Mattmark prima della catastrofe...
Credo che siano applicabili anche alla tragedia di Mattmark le parole della presidente della Confederazione Karin Keller-Sutter, pronunciate in una circostanza simile: «Non potevamo evitare la catastrofe, ma dobbiamo essere grati di vivere in un Paese che è in grado di gestire queste crisi». In effetti, dopo la catastrofe di Mattmark i soccorsi furono immediati e a differenza di alcuni rappresentanti della sinistra italiana che pretendevano subito «giustizia» nei confronti dei responsabili del cantiere, fu fatto tutto il possibile per recuperare i morti, assistere i sopravvissuti, accogliere i famigliari delle vittime, assegnare con straordinaria rapidità le rendite dell’ente assicurativo SUVA ai superstiti.

... e dopo la catastrofe.
In campo italiano si continuava a discutere, si organizzavano convegni, s’invocavano misure straordinarie, si sollecitava l’intervento del governo, si chiedevano maggiori protezioni sul lavoro, ecc. ma spesso tutto assumeva «una funzione puramente propagandistica con ben definiti scopi politici» (L’ECO del 9.2.1967)
[4]. Pesava pure la contrapposizione tra svizzeri e stranieri, anche se la tragedia di Mattmark aveva accomunato nel dolore gli uni e gli altri e invano qualcuno sollecitava la responsabilità degli italiani immigrati a «unirci e confonderci con loro armoniosamente» perché «dipende da noi soltanto il futuro dei nostri figli e di noi stessi» (L’ECO del 2.2.1967).

Il fatto che per la giustizia svizzera e per l’opinione pubblica la disgrazia di Mattmark sia stata una «catastrofe naturale» non significa che nessuno ne sia stato corresponsabile. Lo furono certamente le aziende appaltatrici[5], le istanze preposte al controllo e alle autorizzazioni, i sindacati, i patronati, le autorità svizzere e italiane almeno per carenza di sorveglianza e d’informazione, lo furono gli accordi bilaterali che pretesero poco in materia di formazione e prevenzione, lo fu almeno in parte anche il sistema migratorio perché s’investiva troppo poco nella preparazione e poco nel frenare l’ansia del guadagno, ecc. Con un miglioramento generalizzato in tutti questi ambiti forse la tragedia si sarebbe potuta evitare.

Perché la tragedia di Mattmark è stata a lungo dimenticata?

Se lo sono chiesto in molti e ancora viene ripetuto in alcuni scritti commemorativi. La domanda è pertinente perché effettivamente nei primi anni dopo la disgrazia nessuno saliva a Mattmark (se non a scopi turistici) e teneva discorsi commemorativi. La risposta non è ovviamente semplice, ma si può tentare di formularla, lasciando al lettore di verificarne la plausibilità.

Mattmark, sul luogo della catastrofe con
Ilario Bagnariol (a sin.), uno dei sopravvissuti.

Va comunque precisato subito che non sono stati né Toni Ricciardi, con i suoi numerosi interventi per altro assai discutibili, né le autorità diplomatiche e consolari italiane (l’allora ambasciatore Marchiori non si trovava nemmeno in sede[6] e a Briga c’era solo un viceconsole[7] con pochi impiegati) a far riemergere il ricordo della tragedia di Mattmark. A dare il segnale che quella tragedia andava studiata, compresa e commemorata fu l’on. Mirko Tremaglia, ministro per gli Italiani nel mondo, in occasione della commemorazione del 40° anniversario della tragedia di Mattmark il 3 e 4 settembre 2005.

Il ritardo nelle commemorazioni di Mattmark come di altre disgrazie simili fu dovuto a mio parere anche a un senso di colpa delle autorità italiane. Lo evocarono implicitamente anche le parole di Mirko Tremaglia nel 2005 quando ricordò che «migliaia di italiani furono costretti dalla necessità e dalla povertà a lasciare la loro patria, la loro famiglia, i loro cari per cercare all'estero migliori condizioni di vita, spesso accettando i lavori più umili, più pericolosi, che altri non volevano fare perché il rischio era troppo alto»[8]. Avrebbe potuto anche aggiungere che nei primi decenni del dopoguerra l’Italia favoriva l’emigrazione, investiva pochissimo nella preparazione e nell'accompagnamento tant'è che gli immigrati si sentivano molto spesso del tutto «abbandonati», ma soprattutto nel tentare di eliminare le cause dell’emigrazione[9].

Lapide a ricordo della tragedia del 30 agosto 1965 (foto gl)
Si deve però aggiungere che ci fu certamente anche un’altra ragione ed è che in Svizzera, proprio in quegli anni, stava montando la xenofobia e dev'essersi ritenuto (soprattutto da parte delle autorità e delle organizzazioni italiane) che non fosse opportuno insistere sulle difficoltà, sulle limitazioni e sul sangue versato dagli italiani perché la risposta degli xenofobi sarebbe stata immediata e tagliente: gli italiani non erano costretti a venire, erano liberi di andarsene, erano loro che dovevano adeguarsi al sistema svizzero e non il contrario. Del resto le numerose espulsioni di quegli anni parlavano chiaro: la propaganda «comunista» era vietata e sembrava, agli occhi degli svizzeri, annidarsi in ogni gruppo di persone.

Le autorità italiane ne erano consapevoli e invitavano costantemente alla prudenza e alla moderazione. Ancora nel 1973, il ministro Tullio Migneco, all'epoca responsabile dell’ufficio emigrazione dell’Ambasciata d’Italia in Svizzera, in un incontro con la stampa ammise che purtroppo a molte segnalazioni di emigrati italiani che si sentivano discriminati non si poteva dar seguito per la difficoltà di disporre di prove concrete e per non urtare la sensibilità degli svizzeri. Purtroppo si preferì anche di non commemorare le vittime di Mattmark.

Giovanni Longu
Berna, 30.8.2025


[1]     Il crollo di milioni di metri cubi di ghiaccio non era ritenuto né prevedibile né probabile. La possibilità che accadesse era ritenuta solo teorica.

[2]     «Nella sua motivazione scritta di 82 pagine il tribunale [che assolse tutti gli imputati] spiegò perché non riconosceva alcuna negligenza. Si potevano prevedere al massimo piccoli cedimenti del ghiacciaio e nessuno aveva avvisato gli imputati, in qualsivoglia forma, in merito alla minaccia incombente. Una valanga di ghiaccio di quel tipo rappresentava una possibilità remota che nella vita non si deve mettere ragionevolmente in conto» (https://www.suva.ch/it-ch/chi-siamo/la-suva/traguardi/eventi-di-grandi-proporzioni/mattmark).

[3]     La Suva interviene «con una rapidità esemplare» in Internet, URL consultato il 25.8.2025 ( https://www.suva.ch/it-ch/chi-siamo/la-suva/traguardi/eventi-di-grandi-proporzioni/mattmark).

[4]     Non va dimenticato che anche in quegli anni di governi di centro-sinistra la contrapposizione tra governo a guida democristiana e il principale partito d’opposizione (PCI) era molto forte e si riverberava anche nell'immigrazione italiana organizzata in Svizzera.

[5]     Puntando specialmente al loro tornaconto relegarono in secondo piano i problemi della sicurezza e di ulteriori accertamenti prima di collocare le baracche proprio sotto il ghiacciaio. Si è parlato, probabilmente non a torto d’incoscienza da parte dei dirigenti del cantiere, anche se a posteriori tutto sembra più facile.

[6]     L’ambasciatore Carlo Marchiori (dal 1964 al 1965) il 16 marzo 1965 era stato nominato dal Ministro degli Affari Esteri Amintore Fanfani capo gabinetto e praticamente da allora aveva lasciato Berna e non vi tornò più se non saltuariamente. Alla fine del mandato fu ricevuto (22 settembre1965) dal consigliere federale Friedrich Traugott Wahlen (1899-1985) e fu questi ad accennare alla tragedia di Mattmark (anche se Marchiori ne era stato informato subito dopo il disastro).

[7]     Il viceconsolato era stato istituito da poco e dal 24 aprile 1952 era retto dal viceconsole Odoardo Masini, che si prodigò in ogni modo per aiutare le vittime e i sopravvissuti di Mattmark. Al riguardo riferì al cronista svizzero Dario Robbiani di certe visite: «Poi sono arrivati i deputati e i sindacalisti comunisti. Hanno detto che era colpa di questo e di quest'altro, che bisognava costruire uno sbarramento di cemento armato per isolare il ghiacciaio, e contenere la morena con muraglioni. Allora sono scoppiato: - Sì, adesso voi rimproverate agli svizzeri di non aver messo il bichini al ghiacciaio. Non hanno più parlato. Mi facciano il piacere: è perlomeno di cattivo gusto fare polemiche del genere sopra ottantotto bare».

[8]     Intervento di Mirko Tremaglia in occasione della commemorazione del 40° anniversario della tragedia di Mattmark il 3 e 4 settembre 2005.

[9]     Specialmente l’opposizione trovava inaccettabile il comportamento del governo «sulle proposte di inchiesta parlamentare sulle cause e sulle conseguenze dell'emigrazione e sulle condizioni di vita, di lavoro, di trattamento degli emigrati italiani, proposte presentate ormai da oltre un anno» (Camera dei Deputati Discussione /20.1.1965/ del disegno di legge: Ratifica ed esecuzione dell'accordo tra l'Italia e la Svizzera relativo all'emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera, con protocollo finale e dichiarazioni comuni, concluso a Roma il 10 agosto 1964).

27 agosto 2025

Teilhard de Chardin: visionario illuminato

Pierre Teilhard de Chardin è stato non solo un genio (parzialmente) incompreso (cfr. articolo precedente, del 12 agosto 2025), ma anche un visionario illuminato. Non ha avuto in vita un grande seguito perché le sue «visioni» sull'uomo, sull'universo, su Cristo, sulla Chiesa, sulla religione… furono ritenute in alcuni ambienti pericolose. Per questo non ha potuto pubblicarle mentre era in vita e da morto i suoi sostenitori hanno faticato molto a raccogliere i suoi scritti in almeno 13 volumi. Hanno contribuito alla sua rivalutazione postuma il gesuita Henri de Lubac (1962), lo scrittore Giancarlo Vigorelli (1963), ma soprattutto il cardinale Ratzinger, poi papa Benedetto XVI, che lo citò più volte, affermando, fra l’altro, che quella di Teilhard fu una «grande visione» per cui alla fine «avremo una vera liturgia cosmica, e il cosmo diventerà ostia vivente». Dopo aver accennato nel precedente articolo alla «passione dell’Assoluto» che ha animato l’intera vita di Teilhard de Chardin, in questo desidero soffermarmi su due altri aspetti della vita e della ricerca del gesuita francese: l’universo «divino» e il «fenomeno umano».

L’Universo «divino»

L’idea del cosmo (universo) ha sempre affascinato filosofi e ricercatori fin dall’antica Grecia, dando alla filosofia e alla scienza stimoli preziosi per tutte le ricerche che miravano a svelare il mistero dell’universo che ci avvolge e ci comprende. Per Teilhard de Chardin, però, tutte le visioni cosmologiche antiche avevano un limite perché consideravano l’universo secondo un modello statico e geocentrico (con al centro la terra), in un cosmo finito.

Studiando la terra nei suoi vari aspetti fisici ed evolutivi (organici e inorganici) e immersa nell'universo siderale, Teilhard maturò invece l’idea che l’universo non fosse statico ma in continua evoluzione. A spingerlo in questo interminabile movimento sarebbe la coscienza o meglio il «vento di coscienza», che soffia in continuazione da un’infima semplicità verso una sempre maggiore complessità per culminare, un giorno, nel «Punto Omega» (di cui si è molto discusso), una specie di super-organismo, coincidente, però, con Dio stesso nella persona di Gesù Cristo, «Dio da Dio», «Luce da Luce», «Dio vero da Dio vero».

Mi sembra inutile addentrarsi in queste considerazioni, ma ritengo la visione dell’universo di Teilhard de Chardin molto interessante perché squarcia l’universo, solitamente considerato statico e indecifrabile, in un universo dinamico e certamente più umano, perché ci avvolge e coinvolge tutti, cerca di dare senso a ogni cosa, è capace di animare i nostri sogni e le nostre speranze, offre la possibilità di conciliare la scienza con la fede nel pieno rispetto delle convinzioni religiose di ciascuno. Per questo Teilhard chiama «divino» il movimento che agita in continuazione l’universo.

Il «fenomeno umano»

Ciò che colpiva maggiormente Teilhard de Chardin nell'immenso universo era tuttavia il «fenomeno umano», l’uomo visto non solo come «punto superiore e forse ultimo» dell’evoluzione sul pianeta Terra e «chiave d’interpretazione dell’universo», ma soprattutto come essere pensante (sulla scia dell’aristotelico «l’anima è tutto», anima est omnia) e «coscienza», che ha il senso dell’immensità siderale, del tempo e dello spazio, «occupa una posizione chiave, di asse principale, una posizione polare nel mondo», è testa, nucleo, chiave, asse, freccia dell’evoluzione, naturalmente proiettato verso il Punto Omega.

È difficile seguire il pensiero di Teilhard de Chardin perché disperso in numerosi scritti non sistematici, ma è facile comprendere la passione e lo spirito che lo hanno spinto e guidato nella ricerca e nella vita religiosa. Egli infatti ha sempre cercato da una parte di cogliere la complessità dell’universo e dell’azione umana, mettendo in evidenza la forza dell’«energia umana», capace di produrre tanto bene (per es. strumenti sofisticati per la ricerca scientifica, strumenti di lavoro per rendere l’uomo meno dipendente dalla fatica, ecc.), ma anche tanto male (per es. costruendo e usando la bomba atomica per distruggere) e dall'altra di cogliere la presenza del divino nell'universo, proponendo di fatto un nuovo volto di Dio, il Dio dell'evoluzione e cercando di far capire che l’universo si compie nel Cristo e che Cristo si coglie nell'universo spinto al massimo delle sue possibilità.

In questo sforzo di valorizzazione del «fenomeno umano» non va dimenticato che Teilhard de Chardin ha dedicato molta attenzione e molte pagine anche all'«eterno femminino», come contributo fondamentale al progresso umano verso il Punto Omega: «c’è ancora bisogno di me [eterno femminino] per elevare l’anima verso il divino». E ancora: «L’amore è una funzione a tre termini: l’uomo, la donna, Dio» e solo l’armonioso equilibrio è perfezione; trinomio mai riducibile a binomio.

In una lettera alla cugina Margherita, egli riconosce come valore il movimento di affermazione della donna, anche se spera che la donna non perda la sua femminilità e la sua capacità di illuminazione, idealizzazione, forza tranquillizzante per semplice azione di presenza. Ricorda anche che nella vita, il femminino «essenziale universale» si manifesta soprattutto nella forma di sposa-madre.

Purtroppo non è possibile trattare altri aspetti del pensiero di Teilhard de Chardin, anche se lo meriterebbero (valore del tempo, dell’azione, della scienza, della religione, ecc.), ma non si esclude di riparlarne qualora se ne presentasse l’occasione, anche perché questo visionario illuminato è uno dei più interessanti pensatori moderni nell'ambito dell'antropologia e della filosofia della religione.

Giovanni Longu
Berna 20.8.2025

19 agosto 2025

Incontro Trump - Putin: nuovamente alle caselle di partenze!

Non voglio aggiungere un ennesimo commento all'incontro di avantieri tra i capi delle due superpotenze Stati Uniti e Russia né tentare di indovinare eventuali decisioni prese ieri all'incontro fra Trump e una delegazione europea, ma desidero contribuire al dibattito che si è aperto sul futuro dell’Ucraina con un paio di considerazioni, un auspicio e un rincrescimento. La prima considerazione è che l’incontro Trump-Putin favorisce senz'altro la fine di una guerra che, secondo loro, non avrebbe dovuto nemmeno iniziare. La seconda è che, a mio parere, bisogna ripensare profondamente l’attuazione del «diritto internazionale» per evitare il ripetersi anche in altre parti del mondo di quel che sta accadendo in Europa. Infine un auspicio: che l’Ucraina orientale diventi regione modello di autogoverno e di collaborazione transfrontaliera. Ritenendo le due considerazioni inseparabili, comincio dalla seconda, probabilmente la più problematica.

Premesse

Trump e Putin in Alasca ad Anchorage (15.8.2025)
Da più parti si sperava che l’incontro Trump-Putin producesse se non la fine del conflitto russo-ucraino con una «pace giusta» almeno un cessate il fuoco o l’inizio di una tregua, quali condizioni per avviare vere e proprie trattative di pace. Comprendo la delusione di molti cronisti, ma probabilmente sottovalutavano che tra gli ostacoli da superare ce ne fosse uno di gran lunga superiore agli altri, ossia il nazionalismo di tipo ottocentesco di cui sono vittime non solo la Russia e l’Ucraina, ma anche gran parte dei Paesi occidentali, Stati Uniti in primis, schierati a sostegno dell’Ucraina.

La pace definitiva e duratura è ancora lontana perché da una parte il nazionalismo russo ha dimostrato di essere resistente alle sanzioni imposte alla Russia da un Occidente a volte spavaldo e sicuro di sé, altre volte pauroso di essere invaso e deciso a riarmarsi, ma comunque troppo focalizzato sulla guerra e, dall'altra, il nazionalismo ucraino è sostenuto finanziariamente, militarmente e politicamente da parte di alcuni Paesi occidentali, capaci di fornire all'Ucraina ogni tipo di sostegno, sebbene incapaci di proporre serie alternative a una guerra disastrosa per tutti i belligeranti, diretti e indiretti (cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2024/02/russia-ucraina-due-anni-abominevoli.html).

Se la via che porta alla pace è ancora lunga non dipende però solo da Putin e da Trump, ma anche da Zelensky, da alcuni leader dei Paesi europei e dalle opinioni pubbliche degli stessi Paesi, che sfruttando l’antinomia aggressore-aggredito s’immaginano una «pace giusta» solo eliminando l’aggressore (considerato il male assoluto), senza mai tentare di precisare almeno gli elementi principali che caratterizzerebbero secondo loro tale pace. Eppure uno sforzo di verità sulle condizioni delle regioni orientali dell’Ucraina dall'anno dell’indipendenza (1991) al 2014 sarebbe utile per comprendere i molteplici interessi stranieri (non solo della Russia) su di esse, il sentimento di frustrazione e di disagio dei russofoni del Donbass, la secessione e la guerra civile, il progressivo deterioramento dei rapporti tra l’Ucraina e la Russia alimentato anche da consistenti stimoli esterni e da un crescente sentimento nazionalistico, l’intervento della Russia nel 2014 e nel 2022 e le condizioni attuali per una pace possibile.

1. Il «diritto internazionale» va ripensato integralmente

In un precedente articolo di alcuni anni fa avevo cercato di evidenziare che non basta riferirsi al capoverso 4 dell’articolo 2 dello Statuto delle Nazioni Unite (ONU) per ricavarne una nozione di «sovranità» accettabile se non da tutti almeno dalla maggioranza degli Stati membri dell’ONU (https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2022/11/pace-subito-tra-russia-e-ucraina.html). È vero, infatti, che quel capoverso afferma chiaramente che «i Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite», ma lo Statuto dell’ONU va letto e applicato integralmente, anche nelle parti quasi mai citate, da cui è facile dedurre, per esempio, quali siano e debbano essere le priorità dell’ONU.

La parte citata, infatti, non può costituire la base né unica né essenziale del «diritto internazionale» e l’«integrità territoriale» non può essere considerata il principale valore compatibile con i fini delle Nazioni Unite, che restano «salvare le future generazioni dal flagello della guerra» (Preambolo, lettera a) e «mantenere la pace…, sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodecisione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale» (art. 1, cpv. 1 e 2). Al primo posto va visto dunque il bene comune delle persone e dei popoli, non la tranquillità degli Stati.

Del resto, anche l’ONU per il suo Statuto s’ispira al «diritto naturale» e in diversi articoli chiede ai suoi Membri di rispettare e sviluppare i «diritti fondamentali dell’uomo», quali la dignità e il valore della persona umana, l’«eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grande e piccole» (Preambolo), «il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di religione» (art. 1, cpv. 3; art. 13, cpv. 2 lettera b, art. 55 lettera c), il diritto all’«autotutela individuale o collettiva» (art. 51), il principio secondo cui gli interessi degli abitanti dei territori sono preminenti (art. 55), l’obbligo degli Stati a «sviluppare l’autogoverno delle popolazioni, di prendere in debita considerazione le aspirazioni politiche e di assisterle nel progressivo sviluppo delle loro libere istituzioni politiche, in armonia con le circostanze particolari di ogni territorio e delle sue popolazioni, e del loro diverso grado di sviluppo» (art. 73 lettera b).

A questo punto appare evidente e urgente che l’ONU debba ripensare integralmente il cosiddetto «diritto internazionale» o almeno ne fornisca un’interpretazione autentica. La Costituzione italiana offre in questo campo un buon esempio perché fa capire fin dal primo articolo cosa debba intendersi per Stato «democratico» e «sovrano», quando afferma che l’Italia è una Repubblica «democratica», il cui vero sovrano è il «popolo» (demos), perché «la sovranità appartiene al popolo», che la esercita, ovviamente, non in modo arbitrario, ma conformemente alla Costituzione. Senza una convergenza internazionale sul principio che la sovranità appartiene primariamente al Popolo e  non allo Stato non credo che sia possibile trovare un’intesa tra Russia e Ucraina sulla questione del Donbass.

2. Ripartire dagli accordi di Minsk

Tornando al caso specifico, ritengo lecito interrogarsi se almeno nell'opinione pubblica internazionale i diritti delle persone (quelle dei territori contesi) siano ritenuti dai vari Governi prioritari rispetto agli interessi degli Stati e se sia lecito, almeno moralmente, sacrificare i primi per affermare i secondi, specialmente quando questi sono viziati dal pregiudizio nazionalistico. Nessuno dovrebbe ignorare che la guerra è sempre una «inutile strage» perché produce innumerevoli morti e distruzioni e crea odio per diverse generazioni. E ognuno dovrebbe interrogarsi se sia lecito chiedere ancora ai cittadini di uno Stato di «morire per la patria», anche quando è sentita piuttosto come matrigna e quando è possibile risolvere pacificamente le controversie internazionali.

Tra Russi e Ucraini le controversie non riguardavano gli Stati ma le persone dell’Ucraina orientale. Esistevano da tempo, ma non si è voluto risolverle pacificamente, lasciando che il malessere prendesse il sopravvento e spingesse alcune popolazioni a proclamarsi indipendenti e sovrane. Gli Accordi di Minsk erano un tentativo per risolvere le controversie maggiori, ma non vennero mai rispettati, rendendo i problemi sempre più complessi e di difficile soluzione.

Evidentemente una guerra d’invasione è una palese violazione del diritto internazionale e non può avere giustificazioni; ma si può ben comprendere che quando una popolazione si sente privata di diritti fondamentali e si rende conto che non può avvalersi di principi validi per tutti, il senso di discriminazione e di frustrazione può diventare intollerabile. Purtroppo lo Statuto ONU non prevede sanzioni e nemmeno possibilità di sanzioni per chi viola i diritti fondamentali dell’uomo e dei popoli all'interno dello Stato Membro, ma per questo esistono gli accordi internazionali. Gli Accordi di Minsk tendevano a garantire i diritti fondamentali della minoranza russofona nel Donbass e per dare loro forza erano stati previsti anche Stati garanti della loro applicazione (fra cui Francia e Germania), che non sono stati però all'altezza del loro compito e per questo andrebbero denunciati nell'opinione pubblica internazionale.

Purtroppo non è possibile riavvolgere il filo della storia, ma gli Accordi di Minsk del 2014 e 2015 (https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2022/11/pace-subito-tra-russia-e-ucraina.html) possono ancora costituire un buon punto di partenza (come in un ideale Monopoli) per la ricerca di una soluzione durevole e condivisa dei problemi umani e istituzionali dell’Ucraina orientale. Alcuni punti potrebbero essere addirittura validi anche oggi, per esempio, la creazione di una «zona di sicurezza» sotto la sorveglianza dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) o di altro organismo internazionale, libere elezioni nel Donbass, una profonda riforma costituzionale in Ucraina con la decentralizzazione dei poteri, uno statuto speciale per le regioni di Donetsk e Lugansk, il diritto all’autodeterminazione linguistica, ecc.

E’ giusto che dopo il trattato di pace l’Ucraina pretenda garanzie di sicurezza per i suoi confini, ma è altrettanto giusto che le stesse garanzie siano offerte alla Russia, impedendo, per esempio, una ulteriore estensione della NATO. A tutte le parti coinvolte in questo conflitto bisognerebbe anche dire con forza e convinzione che è un errore, anzi una deriva pericolosa investire ancora in armi sempre più sofisticate e micidiali, perché sottraggono risorse allo sviluppo, alle buone relazioni tra le persone e tra i popoli, alla protezione del pianeta, al miglioramento delle condizioni di vita anche nei Paesi più prosperi e fanno aumentare l’insicurezza, l’odio, le rivalità, le divisioni, la ripresa della «guerra fredda», magari con altri protagonisti (la Cina non sta certo a guardare).

3. Un auspicio e un rincrescimento

Sono convinto che, grazie soprattutto alla stanchezza che la guerra ha provocato in tutti i Paesi direttamente o indirettamente coinvolti, la pace tra Russia e Ucraina si avvicini e comporterà specialmente in Ucraina un nuovo assetto territoriale. Sarà inevitabile. Spero, tuttavia, che si tratti di una situazione provvisoria, perché le regioni oggi contese potrebbero diventare un simbolo non solo di rinascita economica (perché ricche di materie prime, d’industrie e di terreni fertili), ma anche di pacificazione sostanziale tra popolazioni prima ostili eppure fraterne, di tolleranza, di collaborazione, tra persone e popoli, capaci di affrontare e superare insieme le difficoltà.

Leader europei alla Casa Bianca (18.8.2025)
Auspico davvero che l’intesa nel Donbass si realizzi presto, in una qualunque forma, e dia l’esempio di una collaborazione transfrontaliera possibile e utile, anche per far capire al mondo intero che la guerra è un arnese anacronistico da abolire, mentre è sempre possibile risolvere i problemi attraverso il dialogo, la conoscenza reciproca, la messa in comune delle risorse.

Se questo è il mio auspicio per le regioni del Donbass, il mio rincrescimento è che non vedo all'orizzonte nessun Adenauer, Schuman o De Gasperi in grado di prospettare e preparare un mondo, un continente, senza guerre, coeso e prospero. Dove sono i seguaci dei fondatori dell’Unione Europea? Mi rattrista la pochezza di tanti minuscoli governanti che pensano solo alla guerra camuffata da difesa armata, come se il nemico fosse lì pronto ad aggredirli come «Annibale alle porte» (Hannibal ante portas). Per salvarsi da un’ombra trovano e spendono miliardi, mentre non trovano nemmeno centesimi per salvare la pace e il pianeta sofferente. Non hanno idee! Che tristezza!

Giovanni Longu
Berna 19.8.2025

12 agosto 2025

Teilhard de Chardin: genio incompreso?

Alla maggioranza dei lettori il nome Pierre Teilhard de Chardin risulta probabilmente sconosciuto. Eppure dopo la sua morte (1955) era conosciutissimo specialmente negli ambienti universitari, intellettuali e religiosi. A settant'anni dalla sua morte, in questo e nel prossimo articolo desidero riprendere alcuni temi di natura filosofico-religiosa da lui sollevati sull'universo, sull'origine della noosfera, sul sacro, sulla religione e sul senso della vita. Alcune sue tesi suscitarono vivaci discussioni e non poche contestazioni perché sembravano mettere in discussione verità religiose che si ritenevano acquisite per sempre come la creazione, il peccato originale, la Trascendenza, la Redenzione attraverso Gesù Cristo, la vita eterna. Per diverso tempo gli fu proibito di pubblicare le sue opere (salvo gli scritti scientifici). Eppure, le sue riflessioni avevano, credo, un solido fondamento, da una parte nel lavoro di attento osservatore e meticoloso ricercatore (paleontologo) che svolgeva con passione e dedizione, dall'altra nell'appartenenza all'Ordine della Compagnia di Gesù, in cui aveva fatto tesoro dell’invito del fondatore Ignazio di Loyola (cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2025/07/ignazio-di-loyola-un-santo-moderno.html) di «cercare Dio in ogni cosa». Che le sue ricerche e le sue interpretazioni non fossero banali lo dimostra il gran numero di studiosi e ammiratori che ha avuto, tra cui l’allora giovane teologo Joseph Ratzinger, divenuto poi papa Benedetto XVI.

Pensatore geniale o provocatore?

Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955)
Non è possibile ripercorrere qui la movimentata biografia di Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), scienziato gesuita, ma non si può fare a meno di ricordare alcune caratteristiche fondamentali della sua personalità, due in particolare, quelle di essere al contempo un grande ricercatore soprattutto come paleontologo (che lo portò a viaggiare molto in Cina, negli Stati Uniti e in Africa) e un grande speculatore, desideroso di trovare il senso profondo («divino») dell’universo e della vita (attraverso numerosi studi sul fenomeno umano, sull'energia umana, sull'evoluzione, sul femminismo, sulla noosfera, sulla fede, ecc.).

Le due caratteristiche, tuttavia, possono essere a loro volta sintetizzate in quella che Teilhard stesso ha chiamato «la passione dell’Assoluto», una tendenza innata che si è manifestata in lui sia durante gli studi umanistici prima di diventare prete gesuita (in Francia, Jersey, Egitto e in Inghilterra) che in quelli specialistici in scienze naturali, geologia e paleontologia e, successivamente, durante le innumerevoli ricerche scientifiche compiute in Cina, nel Sudafrica, in Francia e negli Stati Uniti. In realtà quella passione ha accompagnato l’intera vita intellettuale e religiosa di Teilhard de Chardin.

Poiché le prime opere di Teilhard suscitavano incomprensioni e perplessità, ne scrisse una (Mon univers, 1918) in cui cercò di precisare almeno in parte alcune espressioni utilizzate (passione dell’Assoluto, tendenza fondamentale, cuore della materia, piega irreformabile dello spirito, ecc.), ma l’esito non corrispose alle intenzioni, anche perché la «passione dell’Assoluto» lo porterà ancora a trattare temi scottanti riguardanti l’universo, l’evoluzione, il fenomeno umano la religione, i rapporti tra fede e ragione, contestando talvolta implicitamente posizioni troppo rigide della Chiesa, ma non la Chiesa stessa, di cui Teilhard aveva grande rispetto e stima in quanto «senza la Chiesa il Cristo stesso svanisce o si frantuma o si annulla».

In ogni caso Teilhard non voleva essere un contestatore, pur essendo convinto che un sacerdote deve vivere nel mondo e per il mondo, come Cristo, che è, secondo lui, non solo l’Alfa, principio della storia, ma anche l’Omega, il suo termine. Il suo desiderio era quello di partecipare alla Rivelazione per far capire che l’universo si compie nel Cristo e che Cristo si coglie nell'universo spinto al massimo delle sue possibilità. Lo disse espressamente: «vorrei essere l’apostolo, l’evangelista del Cristo dell’universo», per rivelare che l’Universo è un mezzo divinizzato, divinizzante, da noi divinizzabile.

In questo articolo mi soffermerò soprattutto sulla «passione dell’Assoluto» di Teilhard de Chardin, rinviando al prossimo alcuni temi particolari sui quali si è anche molto discusso. Desidero tuttavia sottolineare subito che in nessuna delle opere del grande ricercatore e filosofo-teologo si scorge un intento polemico nei confronti della teologia tradizionale e della Chiesa, mentre è facile rilevare sempre e ovunque il suo enorme desiderio di conoscere e il sentimento profondo di vivere la sua vita religiosa e sacerdotale nel mondo intensamente, come Cristo redentore e centro dell’universo.

La «passione dell’Assoluto»

Nell'osservazione attenta del mondo e dell’uomo, a Teilhard in quanto ricercatore e scienziato non potevano sfuggire la loro complessità, frammentarietà e variabilità (dinamismo), ma, in quanto credente-sacerdote-religioso, riteneva che l’universo avesse un «senso» non solo in quanto «creato da Dio», ma anche e soprattutto in quanto realtà dinamica, in continua evoluzione, orientata verso una sintesi armonica di complessità e coscienza, ch'egli chiamava «Punto Omega». In realtà questo non poteva essere che Dio stesso, il Logos cristiano, Gesù Cristo, il quale, secondo l’evangelista Giovanni, è «Dio da Dio», «Luce da Luce», «Dio vero da Dio vero», attraverso il quale «tutte le cose sono state create» (Gv. 1), dunque un Dio trascendente, creatore e redentore, Alfa e Omega, principio e fine di tutte le cose.

In questa grandiosa visione del mondo, Teilhard de Chardin tende a valorizzare ogni cosa, anche un «pezzo di ferro», perché tutto è riferibile all'Assoluto e tutto tende a Lui (evoluzione). L’Assoluto spiega tutto, è l’atmosfera, l’ambiente divino (milieu divin) in cui solo è possibile credere, agire, pensare. Volendo dare una sintesi del personaggio, della sua filosofia e della sua teologia, si potrebbe dire che tutta la sua vita non è stata altro che ricerca dell’Assoluto, presente nell'universo e nella storia e che Teilhard de Chardin indica come il «Cristo cosmico», figura religiosa storica, ma anche «centro organico dell’universo».

Teilhard de Chardin può aver espresso concetti e visioni in discontinuità col passato, forse anche ambigui e perciò criticabili, ma gli si deve riconoscere la passione per la ricerca dell’Assoluto, il suo fondamentale ottimismo, il suo «amore della terra» e dell’Universo «umanizzato», ma anche una smisurata fiducia nell'uomo che dispone di una enorme «energia umana», una originale visione della bellezza e del femminino e altro ancora. Non fu certamente un provocatore, forse è stato solo un genio (parzialmente) incompreso. (Segue)

Giovanni Longu
Berna 12.8.2025

31 luglio 2025

Ignazio di Loyola, un santo moderno

Dopo aver trattato negli ultimi due articoli dell’antropologia di Sant'Agostino ispirandomi alla Città di Dio, l’opera più completa della sua maturità, oggi desidero presentare un altro gigante della fede, che continua ad avere seguaci in tutto il mondo: Sant'Ignazio di Loyola, di cui oggi 31 luglio ricorre la memoria liturgica. Tra i due non esiste alcun legame storico diretto (anche se non sarebbe difficile trovare qualche analogia), ma entrambi possono essere considerati artefici di primissimo piano nella costruzione del pensiero moderno occidentale impregnato di valori cristiani. Basterebbe pensare all’influenza che hanno ancora nel mondo moderno alcune opere di Sant’Agostino e gli «Esercizi spirituali» di Sant’Ignazio. Del resto, i due ordini religiosi che s’ispirano ai carismi dei due Santi, l’Ordine di Sant'Agostino (o Agostiniani) e la Compagnia di Gesù (o Gesuiti) sono ancora vitali, impegnati, utili alla Chiesa e al mondo. Basti ricordare che l’attuale papa Leone XIV è un agostiniano e il suo predecessore Francesco era un gesuita. In quest’articolo tratterò tuttavia  solo della Compagnia di Gesù, di cui il 27 settembre ricorre il 485° di fondazione, per evidenziarne soprattutto la singolarità del nome e la sua costante influenza anche nel mondo d’oggi.

Ignazio di Loyola e l’esperienza religiosa

Ritratto di Sant'Ignazio di Loyola (1491-1556), di P. P. Rubens
Di solito quando si parla dei Gesuiti al passato si pensa a una dimensione più appariscente che interiore, con l’aggiunta spesso di una buona dose di esagerazione. Si pensa, per esempio, al ruolo ch'essi avrebbero avuto nell'evangelizzazione, nell'arte di convertire gli infedeli e gli eretici, nella formazione dei quadri dirigenti, nell'educazione dei giovani, nella diffusione del pensiero cattolico, ecc. talvolta esagerandone la portata e, soprattutto, dimenticando da quali principi erano mossi e con quale spirito agivano.

Spesso si dimentica che il fondatore dei Gesuiti, Iñigo Lopez de Loyola (1491-1556) non ha voluto un manipolo di combattenti, ben addestrati (intellettualmente), obbedienti e coraggiosi, per contrastare il paganesimo e l’eresia, ma un gruppo di amici tra loro e innamorati di Gesù Cristo. Infatti, pur essendo di origine cavalleresca, Ignazio di Loyola, non volle costituire una compagnia di cavalieri alle sue dipendenze che portasse il suo nome (come si usava allora), sia pure a fini religiosi, ma seguì una sorta di illuminazione celeste e, visto che non avevano un capo se non Gesù Cristo che volevano servire, propose al gruppo di chiamarsi «Compagnia di Gesù», anche se oggi i suoi membri sono forse più noti come «Gesuiti».

A mio parere si è fantasticato molto, anche tra i suoi primi biografi, su come Ignazio e i suoi primi compagni siano giunti a quel nome, lasciandosi magari suggestionare dalla mentalità dell’epoca che considerava gli Ordini religiosi come milizie scelte della Chiesa al comando del Papa. Persino Francesco d’Assisi era cantato in un carme francescano «capitano di uomini apostolici che guerreggiano contro le guarnigioni del mondo, della carne, di Satana». E anche lo stesso Ignazio di Loyola, almeno in certi momenti, ha considerato la Compagnia di Gesù una truppa scelta della Chiesa a disposizione del Papa, provvidenzialmente suscitata da Dio a difesa della fede cattolica contro i Protestanti del Nord Europa e per evangelizzare «tutte le terre degli infedeli».

In realtà, Ignazio di Loyola ha sempre pensato soprattutto a un «gruppo di amici, compagni», uniti nella fede e nell'amore di Cristo, che desideravano imitare fino in fondo e servire in modo esclusivo, pur lasciando decidere al Papa «dove», se in Palestina o altrove, ma sempre pronti a recarsi in qualunque parte del mondo fosse necessario per il bene della Chiesa e degli uomini. Per questo dovevano essere particolarmente preparati e ben disposti («obbedienza»).

Ignazio stesso si era voluto preparare, dapprima alla meglio (in alcune città spagnole) e poi scrupolosamente a Parigi, dove divenne dottore in teologia. In realtà l’ambizione di Ignazio e dei suoi compagni era quella di rassomigliare il più possibile a Cristo, nella povertà estrema, nella sofferenza e persino andando in prigione a causa della verità. Per questo maturavano l’idea di volersi chiamare come gruppo nient’altro che la «Compagnia di Gesù».

Il papa Paolo III approva la Compagnia di Gesù (1540) 

Quando chiesero al Papa Paolo III il riconoscimento ufficiale del gruppo nella forma di un nuovo Ordine religioso, la Curia sollevò non poche obiezioni (forse anche a causa del nome prescelto) finché il Papa il 27 settembre 1540 ne decise l’approvazione con la bolla «Regimini Militantis Ecclesiae» (Al governo della Chiesa militante), ma ne limitò anche il numero di membri a sessanta (un numero presto superato, facendo abrogare la limitazione).

La Compagnia di Gesù

Ignazio scriverà nella «Formula» dell’istituzione: «Chiunque voglia militare per Dio sotto il vessillo della Croce in questa Compagnia, che vogliamo insignita del nome di Gesù e voglia mettersi al servizio del Signore e del Romano Pontefice, suo vicario in terra,… tenga sempre presente che la intera Compagnia e i singoli suoi membri combattono al servizio di Gesù…».

Esula dall'ambito di questo articolo ricordare anche solo per sommi capi l’intera biografia di Ignazio di Loyola e soprattutto la storia dei Gesuiti, ma a prescindere da qualsiasi giudizio storico si dia su di essa, non si può non ricordare che la Compagnia di Gesù è nata attorno a un Capo, Gesù Cristo, «vero e sommo Capitano», «un re così generoso e così umano», ma anche un Capo esigente perché non chiede una semplice collaborazione esterna nella conquista del Regno, ma esige la donazione completa di tutta la persona, della mente e del cuore, di tutte le proprie forze, come Cristo che si è dato totalmente al servizio del Padre. Ignazio considerava il servizio apostolico richiesto alla Compagnia un impegno gravoso perché «dobbiamo essere occupati per la maggior parte del giorno e perfino della notte ad aiutare quelli che soffrono nel corpo e nell'animo».

Ignazio di Loyola alla ricerca della volontà di Dio!
Per questo il fondatore della Compagnia si è sempre preoccupato della consistenza interiore dei suoi seguaci ai quali additava costantemente come fine la sequela di Cristo nella Chiesa, nella fede, nell'amore e nelle opere (l’apostolato nelle più svariate forme). Per questo ogni gesuita e ogni seguace doveva «cercare Dio in ogni cosa», sviluppare il «discernimento dei diversi spiriti», ossia la capacità di riconoscere la volontà di Dio attraverso riflessioni, sentimenti ed emozioni, dedicarsi periodicamente agli «esercizi spirituali» (esame di coscienza, meditazione, preghiera vocale e mentale, ecc.), non dimenticando, però, che «non è il sapere molto che sazia e soddisfa l'anima, ma il sentire e gustare le cose internamente».

Se la Compagnia di Gesù sia sempre stata fedele alla sua «Formula», se abbia sempre cercato di «militare sotto il vessillo della Croce» e se abbia sempre cercato la «maggior gloria di Dio» spetta agli studiosi deciderlo. La storia ha comunque già assegnato alla Compagnia di Gesù un posto di rilievo nella Chiesa, nella cultura e nel mondo moderno. Del resto, la pratica degli Esercizi spirituali secondo il metodo ignaziano è sempre molto diffusa anche tra i laici, soprattutto tra coloro che cercano di «disporre l'anima a liberarsi da tutte le affezioni disordinate e, dopo averle eliminate, a cercare e trovare la volontà di Dio nell'organizzazione della propria vita in ordine alla salvezza dell'anima».

Giovanni Longu
31 luglio 2025