Man mano che la vecchia immigrazione italiana
va in pensione e la nuova avanza, almeno apparentemente senza alcuna continuità
con la precedente, è naturale che le nuove generazioni (anche di giornalisti)
si chiedano: ma cosa facevano gli immigrati degli anni ’50, ’60 e ’70?
Evidentemente non esiste una risposta unica, ma a distanza di anni e disponendo
ormai di molte conoscenze oggettive (per esempio dati statistici, testimonianze
scritte, filmati), è senz’altro possibile fornire elementi sufficienti per
rispondere almeno approssimativamente alla domanda, che nasce spesso non da
semplice curiosità storica, ma dal desiderio di avere un quadro di riferimento
dove collocare la vita da emigrati dei propri genitori o nonni.
Premessa
Prima di rispondere occorre ricordare anzitutto che il processo d’industrializzazione
su scala nazionale si avviò in Svizzera solo lentamente, non solo a causa della
frammentazione politica (Cantoni) sia prima che dopo la costituzione dello
Stato federale, ma anche per la mancanza di grandi protagonisti finanziari e
imprenditoriali. Forse fu pure per stimolare queste figure trainanti
dell’economia che implicitamente già la prima Costituzione federale (1848) ed
esplicitamente la Costituzione federale del 1874 (art. 31) riconobbero e
garantirono «la libertà di commercio e d’industria» su tutto il territorio
della Confederazione, salvo i limiti previsti dalla stessa Costituzione e dalla
legislazione pertinente.
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Immigrazione in massa di italiani negli anni ‘50 |
Grazie a questa libertà e al sistema liberale
della moderna Confederazione, nella seconda metà dell’Ottocento e fino allo
scoppio della prima guerra mondiale il processo d’industrializzazione accelerò
il suo corso e sembrava destinato a non arrestarsi più. Gli ostacoli che
incontrava lungo il cammino, soprattutto la difficoltà degli scambi (carenza
delle infrastrutture stradali e ferroviarie) e la limitatezza delle risorse
energetiche (costituite essenzialmente dai corsi d’acqua), venivano prontamente
superati, grazie a imprenditori lungimiranti (Alfred Escher, Julius Maggi, Henri Nestlé,
Charles Brown, Walter Boveri e molti altri) e alle grandi banche che si
venivano costituendo nello stesso periodo: Credito Svizzero (1856), Banca
Popolare Svizzera (1880), Società di Banca Svizzera (1895), Unione di Banche
Svizzere (1912).
Dapprima venne creata una fitta rete
ferroviaria (con l’apporto anche di ingenti capitali stranieri) e stradale per
favorire gli scambi sia interni (collegando praticamente ogni località della
Svizzera) che internazionali (con efficienti collegamenti con tutte le reti dei
Paesi confinanti). Successivamente venne affrontato e superato anche l’altro
grande ostacolo soprattutto sfruttando con imponenti impianti idroelettrici (dighe e centrali) l’unica fonte energetica di cui la
Svizzera disponeva in larga misura, l’acqua delle montagne e dei fiumi.
Perché tutti i grandi progetti andassero a
buon fine, la Svizzera dovette tuttavia far ricorso anche a manodopera
straniera, inizialmente soprattutto germanica, poi italiana. Per le costruzioni
ferroviarie transalpine e per le grandi centrali idroelettriche gli italiani si
rivelarono indispensabili, anche se il loro ruolo non fu sempre riconosciuto e
rispettato.
Gli stranieri contribuiscono alla trasformazione della
Svizzera
All’inizio del XX secolo, quando la rete
ferroviaria svizzera stava per essere completata, l’industrializzazione era in
forte espansione. Le strutture dell’economia erano in piena trasformazione e
con esse le strutture stesse della società e i rapporti del piccolo Stato
europeo di meno di 3 milioni di abitanti (1900: 3.315.443 persone) col resto
del mondo. Da Paese prevalentemente agricolo, la Svizzera stava diventando un
Paese industrializzato e da Paese d’emigrazione (fino al 1888) in Paese
d’immigrazione. Soprattutto a Nord delle Alpi, l’industria creava un numero
impressionante di nuovi posti di lavoro. Per occuparli non bastava la
manodopera indigena e si ricorreva abbondantemente a manodopera estera. La
percentuale di stranieri raggiunse nel 1914 il livello più alto raggiunto
fino ad allora: ben 15,4%.
«Nel 1910, oltre i due terzi degli stranieri
attivi nel Paese operavano nell’industria e nell’artigianato (68,5%), mentre la
quota analoga per gli svizzeri era solo del 43,8%; il 15,4% era occupato nel
commercio (svizzeri: 10,7%) e solo il 4,7% nell’agricoltura (svizzeri: 32,1%)».
Gli italiani erano occupati per il 78,8% nel settore secondario e svolgevano
generalmente funzioni da operai semplici.
Tra lo scoppio della prima guerra mondiale e
la fine della seconda i movimenti migratori dall’Italia furono estremamente
ridotti, non solo per i rallentamenti dell’economia, ma anche perché la
Confederazione volle introdurre importanti misure legislative per frenare
l’afflusso di immigrati stranieri (legge sugli stranieri del 1931). Ripresero
poi a ritmi impressionanti subito dopo la guerra.
Immigrati necessari per l’economia svizzera
Alla fine della
seconda guerra mondiale la Svizzera, toccata solo marginalmente
dalla guerra, disponeva di un apparato industriale molto efficiente in grado di
accrescere la produzione e le esportazioni. I comparti maggiormente sollecitati
dalla domanda interna ed esterna erano quelli tessile, metallurgico, meccanico,
chimico-farmaceutico, elettrico e orologiero, ma anche quelli relativi al
turismo, ai servizi domestici, all’agricoltura e soprattutto il ramo delle
costruzioni e del genio civile.
Per far fronte a tutte queste esigenze
sarebbero occorsi non meno di 100.000 nuovi addetti, tra lavoratori qualificati
e non qualificati. Sia gli uni che gli altri potevano essere reperiti solo in
parte sul mercato del lavoro interno, soprattutto a scapito dell’agricoltura,
divenendone a sua volta carente. La forza lavoro mancante doveva essere
reperita necessariamente all’estero. Si deve inoltre osservare che la tendenza
al calo delle disponibilità interne di manodopera era inarrestabile: il numero
dei disoccupati era sceso da 6.474 (pari allo 0,3% della popolazione attiva)
nel 1945 a 4.262 (0,2%) nel 1946 e a 3.473 (0,2%) nel 1947 e a 2.971 (0,1%) nel
1948.
Nonostante una certa esitazione al rilancio
della produzione industriale temendo una crisi simile a quella prebellica, fin
dal 1945 l’industria elvetica iniziò la sua produzione a ritmi crescenti,
occupando tutta la manodopera indigena disponibile (in parte proveniente dal
settore agricolo) e ricorrendo a quella estera per integrarla quando e dove non
bastava.
Il settore che
assorbiva il maggior numero di immigrati italiani era quello industriale. Un’industria in forte espansione
consumava enormi quantità di energia, che andava prodotta o comprata. La
Svizzera preferì produrla, sfruttando le acque dei fiumi e dei ghiacciai con impianti idroelettrici imponenti (dighe e centrali). Basti pensare che nel 1946, solo nel Vallese, erano in fase di
progettazione ben 16 impianti, due dei quali di grandi
dimensioni, le dighe della Grande Dixence e quella di Mauvoisin. I lavori
sarebbero iniziati quanto prima.
Italiani costruttori indispensabili
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La diga Grande Dixence (285 metri di altezza) |
Uno dei rami economici maggiormente bisognosi
di manodopera italiana era quello dell’edilizia e del genio civile. La Svizzera soffriva
già da prima della guerra di una forte penuria di abitazioni. Subito dopo la
guerra decise, d’accordo con le associazioni professionali, di sviluppare la
produzione di decine di migliaia di nuove abitazioni, ad un ritmo, per i primi
anni, di almeno 13.000 abitazioni l’anno. Nel 1946, a livello nazionale
il numero dei progetti edilizi, tra nuove costruzioni, ampliamenti e
trasformazioni, superava le 3200 unità. Più tardi il Consiglio federale
riconoscerà che senza manodopera estera anche solo l’attività edilizia non
sarebbe stata possibile.
Gli italiani attivi nell’edilizia
residenziale, commerciale, industriale e pubblica erano moltissimi. Tutte le
grandi città svizzere si rinnovavano e ingrandivano per far fronte alle nuove
esigenze di una popolazione in forte crescita, anche in seguito
all’immigrazione e al benessere, e costantemente bisognosa di nuove abitazioni.
Negli anni ’60 e ’70 ebbero un grande sviluppo, oltre agli impianti idroelettrici, anche le costruzioni stradali e autostradali, un’attività in cui la manodopera
straniera divenne praticamente indispensabile, specialmente quella italiana.
Nel 1962 venne inaugurato nella zona di Grauholz, vicino a Berna, il primo
tratto della «Nazionale 1» (N1), destinata ad attraversare la Svizzera da
Ginevra al Lago di Costanza. Nel 1964 venne inaugurato il tunnel autostradale
sotto il Gran San Bernardo tra la Svizzera e l’Italia. Nel 1967 venne inaugurato
il tunnel del Bernina e nel 1980 la galleria autostradale (17 km) sotto il San Gottardo.
Per rispondere più approfonditamente alla
domanda iniziale, nel prossimo articolo verranno presentate cifre dettagliate
sull’occupazione degli stranieri e in particolare degli italiani nei principali
rami economici. Da esse emergerà che gli italiani erano non solo addetti
principalmente alle costruzioni, ma anche indispensabili e ad essi era dovuta
una quota importante del benessere raggiunto dalla Svizzera.
Giovanni Longu
Berna, 20.9.2017